Giuseppe Emanuele Modigliani. A proposito del pacifismo riformista

Di Federico Fornaro Lunedì 01 Novembre 2004 02:00 Stampa

Negli album di fotografie dei congressi del Partito socialista e dei fuoriusciti antifascisti a Parigi la sua figura è inconfondibile, non fosse altro per la folta e lunga barba bianca che lo caratterizzava. Giuseppe Emanuele Modigliani (1872-1947), «Menè», come era familiarmente chiamato dagli amici e dai compagni di partito, è stato uno degli esponenti più rappresentativi sia della corrente riformista che della tradizione pacifista del socialismo italiano ed europeo della prima metà del Novecento. Nato a Livorno da una famiglia della borghesia ebraica, primogenito di quattro figli – l’ultimo dei quali era il pittore Amedeo Modigliani – dopo la laurea in legge si dedicò alla politica e, in occasione del congresso del PSI del 1900, si schierò con la maggioranza d’ispirazione turatiana.

Negli album di fotografie dei congressi del Partito socialista e dei fuoriusciti antifascisti a Parigi la sua figura è inconfondibile, non fosse altro per la folta e lunga barba bianca che lo caratterizzava.

Giuseppe Emanuele Modigliani (1872-1947), «Menè», come era familiarmente chiamato dagli amici e dai compagni di partito, è stato uno degli esponenti più rappresentativi sia della corrente riformista che della tradizione pacifista del socialismo italiano ed europeo della prima metà del Novecento. Nato a Livorno da una famiglia della borghesia ebraica, primogenito di quattro figli – l’ultimo dei quali era il pittore Amedeo Modigliani – dopo la laurea in legge si dedicò alla politica e, in occasione del congresso del PSI del 1900, si schierò con la maggioranza d’ispirazione turatiana. Nell’ambito della corrente riformista rappresentò sempre l’ala «sinistra» intransigente. Nella battaglia per il suffragio universale si affiancherà a Gaetano Salvemini.1 Eletto deputato per la prima volta nel 1913, nelle sedi parlamentari e di partito Modigliani fu tra i più intransigenti sostenitori della scelta pacifista del PSI, riassunta nello slogan «né aderire, né sabotare» e durante il conflitto bellico sarà tra gli italiani più resenti nelle iniziative antimilitariste del socialismo europeo, a cominciare dalla Conferenza di Zimmerwald (5-8 settembre 1915), prima manifestazione collettiva di una corrente internazionale contro la guerra.

Dopo aver osteggiato la prospettiva rivoluzionaria sul modello bolscevico ed essere stato tra gli inascoltati fautori della collaborazione governativa per arginare l’avanzata fascista, nel 1922 fu con Turati, Treves e Matteotti tra i fondatori del PSU, di cui guidò la compagine parlamentare. Costretto all’esilio nel 1926 – anche in relazione alla sua attività di avvocato di parte civile nel processo ai sicari di Matteotti – dopo un breve periodo a Vienna si stabilì a Parigi, insieme alla moglie Vera Funaro, che aveva sposato nel 1908.2 Nella capitale francese diventa direttore del quindicinale «Rinascita Socialista», organo ufficiale dei riformisti del PSULI, la denominazione assunta dai riformisti in esilio. Da questi ultimi e successivamente dal PSI, nato nel 1930 dalla riunificazione delle forze socialiste, Modigliani è nominato nel bureau dell’Internazione socialista, in cui si distinguerà nella difesa di un pacifismo internazionalista, anche di fronte all’evidente minaccia alle democrazie europee progressivamente portata dal nazismo. Un’intransigenza totale, ispirata alla difesa dei valori dell’antimilitarismo, patrimonio storico del socialismo europeo, che lo porterà a scontrarsi nella seconda metà degli anni Trenta anche all’interno del Partito socialista con chi (e il giovane Saragat era tra questi) si interroga sul rischio che un tale atteggiamento comporta di fronte all’avanzata dell’orda nazista.

Lo scritto di Giuseppe Emanuele Modigliani che riproponiamo si riferisce proprio a questa fase di franco confronto in atto nel socialismo europeo sulla decisione migliore da assumere per difendere la democrazia, messa a dura prova dall’attacco combinato del fascismo e di Hitler. Sebbene esso sia fortemente intriso di motivazioni e fatti storicamente datati, l’odierna netta contrarietà della sinistra italiana alla guerra, affonda le sue radici proprio in quella tradizione antimilitarista e internazionalista di cui Modigliani fu indubitabilmente uno gli esponenti più nobili e rappresentativi. Il ripudio assoluto verso lo strumento della guerra e la testarda convinzione che soltanto attraverso la diplomazia e la coerente azione democratica delle masse a guida socialista democratica si potesse giungere alla vera pace, sono i tratti distintivi di un pacifismo riformista che ebbe un ruolo da protagonista nella prima metà del secolo scorso e che mantiene ancora intatto non soltanto il fascino delle battaglie ideali, ma anche un messaggio senza tempo: la politica e non le armi come strumento per costruire un sistema di corrette e democratiche relazioni internazionali. Ancora attuali appaiono anche i richiami al ruolo attivo della Società delle Nazioni, oggi si direbbe dell’ONU, come garante della pace internazionale, e anche l’idea di un’Europa dei popoli, in contrapposizione a vecchie e nuove tentazioni nazionaliste.

La tesi espressa in questo saggio dal significativo titolo «Espiazione», prende spunto da una severa critica al comportamento delle democrazie all’indomani del primo conflitto mondiale, incapaci di affrontare in chiave europea la tendenza «naturale» al militarismo tedesco e di sostenere lealmente la Società delle Nazioni. Una democrazia europea, secondo l’esponente riformista, «rimasta sorda ai doveri dell’internazionalismo».

Nella sua analisi Modigliani non dimentica di ricordare il ritardo con cui il movimento socialista europeo aveva compreso le ragioni degli antifascisti italiani sulle origini e sui pericoli di «contagio» del fascismo. Un’interpretazione a cui la salita al potere di Hitler e gli avvenimenti spagnoli si erano tristemente premurati di apportare decisive prove. Con grande lucidità egli indica anche le responsabilità e gli errori del massimalismo pseudo-rivoluzionario da un lato e del bolscevismo dall’altro. Entrambi infatti, a suo giudizio, finirono per indebolire il tessuto democratico della stessa Germania, favorendo l’ascesa al potere dei nazionalsocialisti.

Ma di fronte al dilemma su quale sia la risposta più efficace da dare alla rinnovata aggressività tedesca, Modigliani ripropone l’antica ricetta del pacifismo contro le tentazioni militaristiche, auspicando apertamente un sostegno per una rivolta «interna» ai sistemi totalitari e non già per una soluzione «esterna», inevitabilmente contrassegnata dall’uso dello strumento della guerra.

Se, in questo caso, gli avvenimenti che si susseguiranno nei mesi successivi, con l’escalation che porterà alla seconda guerra mondiale, dimostreranno come l’opzione del pacifismo assoluto potesse poco contro l’avanzata delle armate tedesche sul territorio europeo, Modigliani, ferocemente contrario all’intesa unitaria con i comunisti, continuò a sostenere le sue idee pacifiste e internazionaliste in quel poco di dibattito che si poteva ancora svolgere nelle sempre più disperse file del socialismo italiano ed europeo. Menè e la fedele compagna Vera saranno perseguitati in Francia dal governo collaborazionista di Vichy e sul finire del 1943 riusciranno fortunosamente, grazie all’aiuto di Joyce Lussu, a riparare in Svizzera.

Rientrato in Italia insieme a Ignazio Silone negli ultimi mesi del 1944, egli rappresenterà il PSIUP nella Consulta nazionale e nelle prime elezioni libere nel giugno del 1946 sarà eletto all’Assemblea Costituente. Nel gennaio del 1947 Modigliani seguirà Saragat nella fondazione del PSLI, di cui assumerà la presidenza del gruppo parlamentare fino alla sua morte, avvenuta nell’ottobre dello stesso anno.

 

GIUSEPPE EMANUELE MODIGLIANI, Espiazione

Gli storici futuri diranno che nel 1938 la Francia e l’Inghilterra persero la guerra che avevano vinto nel 1918. Diranno che i Trattati di pace del 1919 erano nati morti, perché avevano voluto istituire in Europa tutta una serie di assurdi. Avevano voluto smilitarizzare la Germania, che è il popolo più soldatesco di tutta l’Europa; avevano messo di sentinella davanti alle caserme tedesche – perché restassero vuote – la Francia, più che stanca dell’ultima guerra e l’Inghilterra che non ha un esercito permanente! Avevano voluto affrancare tutta una serie di nazionalità soggette; ma non si erano preoccupate di stabilire che gli Stati creati a tale effetto garantissero a tutti i cittadini una identica emancipazione politica. Avevano voluto istituire al sommo dell’Europa «rimessa a nuovo» quella Società delle Nazioni che doveva essere un grande organo di collaborazione internazionale; ma avevano trascurato del tutto, nel Centro e nel Sud-Est dell’Europa ogni avviamento, anche il più timido, verso quel tanto di federazione di popoli senza il quale gli staterelli nuovamente costituiti non avrebbero potuto vivere, e sarebbero rimasti senza difesa di fronte ai vicini potenti e prepotenti.

Ma gli storici futuri dovranno essere anche più severi. Essi dovranno dire che tutti questi assurdi furono avvertiti fin dal primo momento, tanto dai movimenti operai e socialisti dei vari paesi, quanto dagli uomini che si dicevano, e meritavano, di essere considerati «europei»: nemici, cioè, del miope nazionalismo particolarista. Sennonché tanto gli uni quanto gli altri si limitarono a denunciare ora questa ora quella delle conseguenze più scandalose e nocive degli assurdi voluti dai trattati di pace, ma non prospettarono mai, con la dovuta energia, e nella sua integrità, il problema della revisione radicale dei trattati di pace.

Preciseranno gli storici che nel 1924 il primo governo laburista inglese aveva proposto alla Società delle Nazioni un certo «Protocollo» che costituiva un principio di revisione dei rapporti internazionali; ma dovranno anche registrare che nemmeno i partiti operai e socialisti sostennero tale iniziativa quanto e come avrebbero dovuto. Perché, allora, quasi nessuno di questi partiti aveva capito che la Società delle Nazioni poteva e doveva essere valorizzata e utilizzata. Tanto che l’URSS non si decise ad aderirvi che nel 1930!

E se un qualche storico ricorderà che nel 1930 un certo Aristide Briand, ministro degli esteri in Francia, fece costituire in seno della Società delle Nazioni nientemeno che una commissione per la soluzione dei problemi europei, si troveranno certo altri storici per osservare che tale iniziati va ebbe la vita effimera di certi fiori «di ventiquattr’ore». E ciò perché – nel frattempo – la Germania aveva cominciato a riarmarsi, e le tendenze sopraffattrici, esistenti in tutti i paesi, invece di rinsavire, già s’inasprivano. Senza che – ahimè! – i movimenti operai si fossero resi conto che era quello l’ultimo momento per imporre ai vincitori di rispettare i trattati, di disarmare anch’essi dopo aver disarmato i vinti, di far pace sul serio e non soltanto sulla carta. Invece, e proprio da allora, la ribellione tedesca si accentuò, si fece forte dell’oppressione straniera e del diritto all’eguaglianza internazionale; screditò in conseguenza, in Germania, tutti i partiti democratici; e questi furono, per di più, simultaneamente attaccati e screditati dalla demagogia bolscevica.

Cosicché un brutto giorno del luglio 1932 l’Europa apprese che in Germania la via era oramai sgombra al trionfo della riscossa aggressiva, intransigente, selvaggia, dell’hitlerismo.

Cominciava l’espiazione. L’espiazione per la classe operaia tedesca, per non aver saputo attuare l’unità contro il massimalismo pseudo-rivoluzionario, e per non aver fatto dell’unità operaia il centro di una invincibile resistenza democratica. L’espiazione per la democrazia europea rimasta sorda ai doveri dell’internazionalismo. Voglio dire: dell’internazionalismo non soltanto teorico, ma attivistico. Invece di fare, esse, della storia rinnovatrice, le democrazie europee avevano abbandonato in appelli e proteste inoperanti, anche se magniloquenti. E oramai la storia se la facevano i violenti, senza la democrazia, e contro la democrazia.

Come suole accadere quando tutto va male, sorse allora una nuova illusione: quella che l’hitlerismo avrebbe potuto essere fermato e rovesciato «dal di fuori». E la guerra, sperata liberatrice, non inspirò più, da allora, e a tutti, quell’orrore preventivo e pregiudiziale che deve inspirare… a tutti i non fascisti. Vero è che quella illusione nasceva dalla disperazione, ma offendeva la logica e calpestava la coerenza. Due ricordi a tale proposito.

Nel 1928 chi scrive propose all’Internazione Operaia e Socialista, che si proclamasse il dovere dei paesi davvero fedeli ai princìpi ginevrini di rifiutare ai paesi «non liberi» il trattamento diplomatico, finanziario ed economico cui hanno diritto i paesi il cui destino non dipende dal capriccio di un dittatore. Il capo dei laburisti – che era allora Ramsay MacDonald – sentenziò che fra tale proposta, e quella di dichiarare la guerra al governo italiano, non c’era vera differenza e della proposta nessuno parlò più.

Nel 1935 tutta l’emigrazione politica italiana invocò le sanzioni (puramente economiche: fu precisato!) contro la progettata aggressione italiana in Etiopia. Il timore (del tutto immaginario!) che le sanzioni economiche provocassero la guerra, rese siffattamente tiepida l’adesione fattiva dei movimenti operai e democratici, che le sanzioni furono applicate meno che a scartamento ridotto, e il fascismo italiano poté atteggiarsi a martire dell’estero e tirò dritto per la sua via.

Dopo di che Mussolini e Hitler – dagli inizi del 1936 – si sono messi d’accordo e (accidenti alla logica!) la guerra che nessuno voleva rischiare, nemmeno contro il più debole dei due, fu considerata da tanti (da troppi!) come la via di salvezza contro ambedue i dittatori. (…)

E l’illusione sull’efficacia liberatrice ed emancipatrice della guerra continuava a crescere quando l’Anschluss (stupidamente rifiutato alla repubblica tedesca!) fu attuato col tradimento e la violenza della dittatura tedesca. Forse ora l’illusione svanisce. Ma continua l’espiazione e accenna ad esser ben dura! (…) Tutto sta a sapere se l’espiazione farà rinsavire. Io ci spero. Sento, infatti, rinascere un po’ dappertutto un senso del reale, una rivolta contro la demagogia, un rinnovato amore per le verità semplici e basilari e comincio quindi a sperare che, dopo l’arresto della prepotente aggressività tedesca, si potrà tornare a un’azione più efficace nella lotta a morte contro il nazismo e il fascismo. L’arresto della aggressività tedesca non verrà certo da una politica grandiosamente estetica, e probabilmente sarà penosamente negoziato. Se ne incaricherà, nel proprio interesse, il conservatorismo inglese che solo gli illusi hanno ritenuto capace di simpatie repubblicane in Spagna, e di durevoli antipatie in Germania e in Italia.

Ma in contrapposto, e come reazione a tanta umiliazione, io spero si determini nel movimento operaio e socialista di tutto il mondo, una più decisa volontà di studiare in qual modo e in quali mezzi si debba venire in aiuto dell’Italia e dalla Germania affinché – tanta l’una che l’altra – si liberino «dall’interno» (ripeto e insisto: «dall’interno») dalle barbarie, sanguinose e vergognose dittature che le opprimono e le rovinano.

Solo dopo queste due liberazioni «dall’interno» il mondo avrà pace.

da G. E. Modigliani, Espiazione, in «Il Nuovo Avanti», 9 aprile 1938.

 

Bibliografia

1 Per una biografia di Modigliani fino al 1913 vedi D. Cherubini, Giuseppe Emanuele Modigliani: un riformista nell’Italia liberale, Franco Angeli, Milano 1990.

2 Per una ricostruzione dell’esilio di Modigliani e dell’ambiente dei fuoriusciti socialisti e antifascisti a Parigi e in Francia vedi V. Modigliani, Esilio, Garzanti, Milano 1946.