I socialisti e la società italiana

Di Simona Colarizi Lunedì 01 Novembre 2004 02:00 Stampa

Le difficoltà in cui si dibatte il Partito socialista alla metà degli anni Settanta vanno iscritte nel generale declino del sistema politico italiano che, a quella data, mostra già i primi sintomi di una crisi, destinata ad approfondirsi durante il corso del decennio successivo fino a determinare il crollo della prima Repubblica nel 1992-1994. Di fronte al progressivo allargarsi della forbice società politica-società civile, tutti i partiti sono costretti a interrogarsi sulla propria identità e a tentare nuove strade per rinnovarsi al loro interno, con maggiore o minore successo. Nel PSI, tuttavia, l’opera di rifondazione appare assai più radicale e tempestiva, anche perché la perdita di fiducia del paese nella partitocrazia che lo guida fin dalle origini della Repubblica ha effetti immediatamente visibili sul piano elettorale.

 

Le difficoltà in cui si dibatte il Partito socialista alla metà degli anni Settanta vanno iscritte nel generale declino del sistema politico italiano che, a quella data, mostra già i primi sintomi di una crisi, destinata ad approfondirsi durante il corso del decennio successivo fino a determinare il crollo della prima Repubblica nel 1992-1994. Di fronte al progressivo allargarsi della forbice società politica-società civile, tutti i partiti sono costretti a interrogarsi sulla propria identità e a tentare nuove strade per rinnovarsi al loro interno, con maggiore o minore successo. Nel PSI, tuttavia, l’opera di rifondazione appare assai più radicale e tempestiva, anche perché la perdita di fiducia del paese nella partitocrazia che lo guida fin dalle origini della Repubblica ha effetti immediatamente visibili sul piano elettorale. Già alle politiche del 1972 i socialisti scendono al 9,6%, la più bassa percentuale registrata dal 1946; e le elezioni del 1976, nonostante le tante aspettative di ripresa, confermano ancora una volta questo risultato sconfortante. Uncalo che riguarda l’intera area dei partiti di centro – i primi a subire i contraccolpi di quel profondo mutamento della società italiana – e destinato a mettere in crisi l’intera partitocrazia, troppo lenta nell’interpretarlo e nel riconvertire le proprie strutture organizzative per adeguarsi alla nuova realtà.

Sotto questo profilo, il PSI manifesta una più tempestiva capacità di analisi che influenza la ricerca di un modello di partito profondamente rinnovato rispetto al passato. Nel 1976 a innescare in casa socialista la svolta concorrono due fattori tra loro intrecciati: il primo è la consapevolezza di quanto grave sia la crisi del PSI; il secondo è l’ascesa ai vertici di una nuova generazione di dirigenti che, per età e formazione politica, si rivelano maggiormente in sintonia con quel tessuto sociale di recente formazione nel quale i socialisti cercano di ricavarsi spazi di rappresentanza più larghi. La soglia del 9% su cui è fermo il PSI appare ancora relativamente alta per evocare lo spettro di una scomparsa dei socialisti dalla scena politica italiana. E in fondo, considerando che nel 1958 il PSI era al 14,2%, si sono persi solo cinque punti percentuali in quasi venti anni. Tuttavia, è la proporzione della crescita comunista a far suonare il campanello d’allarme: i circa nove punti percentuali che dividevano i due partiti della sinistra nel 1958 – il PCI era al 22,8% – sono diventati nel 1976 quasi venticinque, con il PCI al 34,4%. Un fossato incolmabile, dunque, che sembra approfondirsi senza sosta di fronte alla straordinaria crescita dei comunisti, ormai in grado di attirare nelle loro liste elettorali i voti del ceto medio progressista, invadendo così anche quel terreno da sempre considerato riserva di caccia dei socialisti.

Lo sconforto di fronte a questi dati emerge evidente nel 1976, in occasione del trentennale della Repubblica, quando gli intellettuali di area socialista sottopongono il PSI a un impietoso check up.1 Il successo ottenuto nel 1946 alle elezioni per l’Assemblea costituente, con il 20,7%, appare irripetibile: due anni dopo, alle politiche del 1948, era già svanito. E da allora, per i successivi ventotto anni, si è oscillato tra un massimo del 14% – raggiunto appunto nel 1958 – e un minimo del 9,6% nel 1972 e poi nel 1976. La dimensione del PSI è dunque quella di un «partito medio», che «essendo un partito necessario ma non sufficiente si viene a trovare, in qualsiasi condizione, in una posizione subordinata a quella del partito dominante», al PCI nel caso di una scelta di opposizione, alla DC qualora si percorresse la strada del governo.2 Le parole di Bobbio appaiono quasi un invito alla rassegnazione e, di sicuro, Craxi le ha ancora impresse nella memoria quando, sei anni dopo, nel 1982, rilancia la polemica con il filosofo che, a quella data, ha ormai preso le distanze dal PSI: «L’idea che il Partito socialista debba essere condannato a scegliersi uno spazio comunque subalterno è quanto di più ostico possa risuonare alle nostre orecchie ed è contro ipotesi siffatte che noi dirigiamo tutti i nostri sforzi».3

Questa frase del segretario sintetizza efficacemente i termini della sfida lanciata dal gruppo dirigente salito al potere nel 1976, che si compatta sulla comune volontà di ribaltare gli equilibri esistenti tra le forze politiche, rivendicando al PSI uno spazio di crescita autonomo e indipendente a destra, ma soprattutto a sinistra, dove la concorrenza del PCI in trenta anni ha più che dimezzato i consensi dei socialisti. Per quanto possa apparire velleitario l’obiettivo e arrogante l’ostentazione di sicurezza dei nuovi leader, il partito riceve una scossa rivitalizzante che, fin dall’inizio, provoca reazioni irritate da parte dei comunisti. Sembra quasi impossibile che il PSI voglia ingaggiarsi nella competizione con il gigante comunista, per di più all’apice di un successo elettorale così grande da prefigurare un probabile sorpasso della DC, in tempi più o meno brevi. Il dato del ricambio generazionale avvenuto ai vertici socialisti viene evidentemente sottovalutato dal PCI; eppure ha un peso rilevante nell’intera vicenda. I «congiurati» del Midas hanno poco più o poco meno di quaranta anni; la loro carriera nel PSI è avvenuta negli anni del centrosinistra e, rispetto ai padri, sono liberi dal peso di una storia vissuta all’opposizione dove erano ben stretti i legami con il PCI, ancora parte viva del socialismo italiano, per lo meno agli occhi dei più vecchi. Dalla generazione che li ha preceduti, i «colonnelli» – come la stampa definisce i nuovi dirigenti – hanno ricevuto in eredità quella sorta di complesso di inferiorità paralizzante dal quale vogliono però liberare il partito e nel quale non si riconoscono, poiché diverso è anche il loro approccio alla politica.4 Saliti alla ribalta in un’epoca di declino delle grandi ideologie e formatisi in gran parte nell’arena delle organizzazioni studentesche, hanno una visione laica – non del tutto priva di una dimensione anche ludica – della politica, terreno innanzitutto di competizione, di gara, dove le battaglie si vincono e si perdono, ma dove non è possibile rimanere immobili, a meno di non condannarsi preventivamente alla sconfitta.5

L’indiscussa egemonia dei comunisti sulla sinistra consente a Berlinguer di dettare le regole di un gioco che minaccia la stessa sopravvivenza del PSI, schiacciato nella morsa del compromesso storico tra i due grandi partiti e, a questo punto, ridotto in condizione di duplice subalternità ai comunisti e ai democristiani. Il rigetto da parte del PCI dell’alternativa di sinistra, proposta da Riccardo Lombardi per rompere l’alleanza di governo con la DC, ormai arrivata a un punto morto, non sembra lasciare una via d’uscita ai socialisti. Naturalmente si potrebbe ricomporre l’accordo con i cattolici, come una parte, maggioritaria, del PSI auspica; ma non appare chiaro su quali basi il ritorno alla collaborazione governativa possa portare a un rilancio effettivo dell’iniziativa socialista. Nelle condizioni date, sembrerebbe un passo indietro, frutto della rassegnazione e di un ripiegarsi sull’esistente che, dopo quasi quindici anni di centrosinistra, non appare appunto brillante.

La necessità di ridare dinamismo alla politica socialista, rompendo con coraggio l’intero schema di riferimento che imprigiona il PSI, richiede una guida forte e determinata, ma anche un partito flessibile, leggero, compatto, «dotato di una fulminea agilità di manovra, capace di una “guerra per bande” contro due massicci schieramenti che lo chiudevano, in grado di conquistare subito una fitta rete di posizioni di potere dalla quale diramarsi per uno sfondamento sui due fianchi».6 Il contrario di quanto si era verificato, a partire dalla fallita unificazione con il PSDI nel 1969. In soli sei anni si erano verificati ben tre cambi alla segreteria, dove si erano alternati Francesco De Martino e Giacomo Mancini, entrambi incapaci di ridare slancio autonomo alla politica socialista e di rivitalizzare un partito diviso al suo interno, burocratizzato, immobile, invecchiato, del tutto inadatto ad attirare nuovi consensi dalla società in accelerato movimento. Eppure la tradizione libertaria e laica del socialismo italiano si armonizza all’ondata antiautoritaria che serpeggia, in particolare nel mondo giovanile e femminile in fermento. E non a caso, proprio per intercettare questi umori, il PSI si fa promotore della legge sul divorzio, impegnandosi a fondo nella successiva battaglia referendaria. Le stesse caratteristiche del suo radicamento sociale, ormai più esteso nel pubblico impiego e tra i liberi professionisti che non nella classe operaia, sembrano combaciare con l’evoluzione del paese, dove la crescita di un nuovo ceto medio, già iniziata nei primi anni Settanta, sarebbe emersa con evidenza alla fine del decennio, quando gli addetti al terziario superano in numero gli operai delle industrie.7

Del resto l’esigenza di rivedere a fondo la natura del partito è fisiologica, se si considera che il modello di integrazione di massa, risalente al XIX secolo, era stato ridisegnato più di trent’anni prima, nel 1945, secondo i bisogni collettivi di una società ancora strutturata per grandi aggregati sociali omogenei. Questa società già nel 1976 sta scomparendo e, via via, nel decennio successivo, se ne perdono anche le ultime tracce. L’avvento di una pluralità di ceti sociali e di gruppi di interesse compone adesso un tessuto sociale eterogeneo, stratificato, atomizzato, che fa parlare addirittura di «scomparsa delle classi», perché valori, comportamenti, stili di vita, ormai trasversali all’insieme della società, non appaiono più gli elementi distintivi di specifiche appartenenze sociali.8

Di fronte a questa nuova realtà l’intera macchina partitica si inceppa in tutti i suoi gangli vitali: i luoghi di orientamento e di educazione politico-culturale – sezioni, parrocchie, scuole quadri – sono sempre più deserti; saltano i meccanismi di reclutamento dei militanti e di aggregazione del consenso, così come quelli di formazione e selezione dei funzionari e dei dirigenti. La tendenza verso una progressiva disgregazione delle vecchie strutture organizzative attraverso le quali tradizionalmente si era costruita e diffusa la democrazia in Italia appare inarrestabile.

A garantire ai vecchi partiti la presa sulla società non basta la incombente presenza nelle istituzioni che ha portato all’identificazione Stato-partitocrazia, assicurando alle forze politiche il ruolo di organi per la redistribuzione delle risorse economiche.9 Sul finire degli anni Settanta le critiche alla politica della spesa pubblica, degenerata nell’assistenzialismo di tipo clientelare, si moltiplicano in tutti i settori di fronte alla crisi del welfare State, che coinvolge in primo luogo proprio le forze politiche della sinistra.10 La ricerca del consenso nello scambio brutale e rozzo, benefici-voti, consente di sopravvivere, ma non risolve il problema di reclutare nuovi elettori e produce guasti sempre più vistosi a livello istituzionale. Sotto questo profilo, non si tratta solo di un imbarazzo della sinistra italiana: tutte le socialdemocrazie europee sono in palese affanno e l’uscita dal tunnel avverrà per ognuna di loro in tempi diversi, a seconda della rapidità con la quale si rendono conto del problema e lo fronteggiano attraverso un radicale rinnovamento.11 Perché il nocciolo della questione sta proprio in un processo di modernizzazione dell’intera area atlantica, intuito, nella fase iniziale, con maggiore rapidità dai partiti conservatori che in Europa hanno strappato ai socialisti la «bandiera dell’innovazione», come sottolinea Giuliano Amato. L’evoluzione del modello di sviluppo fa emergere ovunque «un terzo sistema», che dilata le fasce del terziario avanzato il cui ruolo nei processi produttivi cambia: da ceto di servizio a nucleo portante delle trasformazioni economiche in atto. È un aspetto della modernità che – a giudizio di Franco Momigliano – «non comporta solo idee tecniche-organizzative nuove, ma un radicale nuovo modo di concepire l’azione politica».12 La riflessione su questi temi portata avanti dagli intellettuali di area socialista che, nella seconda metà degli anni Settanta, hanno trasformato la rivista «MondOperaio» in una sorta di laboratorio del nuovo,13 offre le prime munizioni di cui si serve Craxi, deciso a far saltare gli equilibri del vecchio sistema, a cominciare dal ruolo egemonico, politico e culturale del PCI sulla sinistra.

D’altra parte, le resistenze che queste analisi suscitano tra i comunisti sono una spia significativa di quanto si affanni il PCI a interpretare il cambiamento sociale. Certo, Adalberto Minucci non nega l’esistenza di una «crisi del blocco sociale che è stato cementato per alcuni decenni sulla base della strategia keynesiana (…) aggregando forze crescenti attorno e dentro lo Stato, con una determinata politica della spesa pubblica, poi degenerata nello Stato assistenziale, e addirittura nell’assistenzialismo». Ma «le ragioni di questo scollamento e dei sussulti in atto nella società vanno ricercate (…) nella struttura della società capitalistica»; non si possono far risalire a colpe o a carenze dei partiti contro i quali non è in atto alcuna ribellione, come sostengono invece i socialisti.14 L’analisi dei mutamenti sociali, sommata ai pesanti attacchi contro il PCI che accompagnano il processo di ridefinizione ideologica del socialismo italiano, provoca una reazione immediata di difesa che non favorisce la percezione del nuovo; anzi, induce il PCI ad arroccarsi sulle certezze del passato.

Della complessa riflessione avviata dai socialisti sul mutamente sociale, premessa a un rinnovamento del modello e della politica del partito, viene sottolineato solo l’aspetto strumentale, finalizzato a rompere gli equilibri consolidati del sistema. Anche quando, col passare del tempo,gli intellettuali del PCI cominceranno ad approfondire le tematiche della  nuova società, non si spengono le diffidenze e le polemiche contro quegliesponenti della cultura socialista che tendono «a ridurre il PSI a unpartito d’ordine, sia pure laico, modernizzante e tecnocratico»;15 un partito preda di un «esagerato protagonismo», abbagliato dal «mito dell’autosufficienza che può degenerare nell’integralismo», dotato di una eccessiva «dose diorgoglio».16 In realtà, in quale modo debba evolvere il nuovo partito non è poi così chiaro neppure ai «chierici» di «MondOperaio», più consapevoli di checosa il PSI non debba più essere: il partito  burocratizzato, il partito strettamente gerarchizzato, ma anche il partito federazione di correnti, dove la molteplicità delle posizioni di potere ha finito per impedire una direzione unitaria e incisiva, «in grado di dare risposte a una popolazione “partecipe”».17 Proprio al vecchio modello di partito «spartitorio e garantistico» viene fatta risalire la debolezza del PSI,incapace di aggregare consensi nella moderna società.18 Tutti gli anatemi possibili vengono scagliati contro i burocrati «senz’anima», «il ventre molle del partito», la «rude, pagana razza padrona» la cui resistenza al cambiamento viene letta in termini di «vendetta dell’apparato», impegnato a recuperare il proprio primato, ostacolando la «larga mobilitazione di forze intellettuali che, in nome della fiducia nell’autonomia e nella professionalità, il craxismo ha saputo suscitare».19

Nella ricerca di un nuovo modello di partito un punto di riferimento diventa il Partito socialista francese che, grazie a François Mitterand, è riuscito in pochi anni a risalire dal 5% al 23%. Da esso si mutua l’ipotesi di costruire una rete di club, di collettivi, di strutture indirette che vadano a comporre una sorta di movimento socialista autonomo, legato da un rapporto di convergenza politica al partito vero e proprio, le cui dimensioni e i cui poteri devono essere radicalmente snelliti.20 Craxi parla fumosamente di «partito aperto», una «struttura di sintesi e di orientamento rivolta all’esterno e collegata con articolazioni che abbiano la pienezza di una vita associativa autonoma».21 E su questo tema si esercita la gran parte dell’intellighenzia socialista, convinta della necessità di ridefinire lo spazio politico anche in considerazione dei cambiamenti intervenuti nello stesso mercato del voto. Al partito di integrazione sociale, ormai desueto, va sostituito il partito elettorale di massa, un partito «leggero», flessibile che svolga esclusivamente la funzione di opinion maker, e non solo al momento delle elezioni.22

Il trascorrere degli anni sembra del resto confermare l’analisi sui mutamenti della società che costituiscono il parametro su cui misurare il nuovo PSI. L’emergere dei localismi, il diverso rapporto tra centro e periferia, l’allargarsi dell’area della non partecipazione dopo la tormentata stagione dell’impegno politico negli anni Settanta, l’invecchiamento della popolazione e l’insorgere di nuove marginalità sociali, sono fenomeni colti con anticipo e acutezza nel 1982, durante i lavori della Conferenza di Rimini che si tiene al Palazzo dello Sport, dove campeggia una grande insegna con impresso lo slogan «Governare il cambiamento».23 L’incontro rappresenta uno dei momenti più fecondi dell’elaborazione degli intellettuali socialisti, che trova nell’intervento di Claudio Martelli, «Per un’alleanza riformatrice fra il merito e il bisogno», una sintesi felice: la tendenza alla crescita di un nuovo ceto dei servizi, già rilevata nel decennio precedente, è stata ampiamente confermata anche per quanto riguarda il ruolo inedito che questi strati sociali sono chiamati a svolgere in una società in cui si va affermando il primato della conoscenza. Un primato che si riflette su chi conosce le tecniche e le procedure; su chi governa i meccanismi della riproduzione sociale e della produzione industriale; su chi trasmette e innova cultura, mode, costumi. A questi soggetti si rivolge il PSI di Craxi, che lancia la parola d’ordine di un neo-riformismo, capace di farsi carico anche delle nuove povertà prodotte dalla modernizzazione. La crisi dei sindacati e l’erosione dei consensi del PCI sono la dimostrazione del ritardo, ma anche della resistenza, a comprendere questa grande trasformazione; la stessa incomprensione che mostrano i laburisti inglesi e i democratici americani, impotenti di fronte ai trionfi della Thatcher e di Reagan.24

Solo nel 1986, dopo la sconfitta alle elezioni amministrative e alla vigilia delle politiche del 1987, quando il PCI scende al 26,6% – ritornando indietro di vent’anni – Alessandro Natta riconosce i meriti dell’analisi socialista sul mutamento sociale: «Il PSI registra, in una certa misura più rapidamente di noi, i processi di decomposizione e ricomposizione della società».25 Tuttavia, sono pesanti i «guasti di una concezione della politica come empirismo, manovra di vertici, mercato e spettacolo».26 Al dunque, anche il segretario comunista rifiuta il confronto sui cambiamenti del paese; preferisce assecondare le polemiche dei suoi compagni che da anni descrivono il PSI di Craxi come «un partito “muscoloso”, dotato di una forte capacità di autorappresentazione e di consapevolezza, voglioso di pesare (…), pronto a porre la propria candidatura alla direzione politica del paese».27 Un partito «pigliattutto», a basso tenore ideologico, che ha rafforzato il vertice e liquidato l’insediamento sociale a identità collettiva forte, instaurando rapporti spregiudicati con vari gruppi di interesse; dunque, «un partito in funzione del potere».28

In effetti, il vecchio Partito socialista è scomparso; ma non è stato sostituito dal «partito-aperto», il «partito-movimento», il «partito-federazione di club», come era nei progetti iniziali e come molti continuano a sperare si possa realizzare in futuro. Tanto è vero che il tema partito viene discusso e rilanciato continuamente nelle conferenze di organizzazione e nei congressi, con maggiore o minore convinzione, in relazione alle fasi calanti o crescenti della politica socialista. A più di dieci anni dal Midas, nel 1987, alla vigilia del 44° Congresso di Rimini, Martelli lancia ancora una volta la parola d’ordine della «autoriforma» del partito; mentre Luciano Pellicani, che ha sostituito Federico Coen alla direzione di «MondOperaio», apre sulle pagine della rivista un dibattito, lamentando che il PSI non si sia ancora trasformato in un «partito strutturato a “rete”, ricco di nuclei aziendali, di club, di associazioni professionali, di modo che la sua vita democratica e le sue capacità espressive siano in accordo con i valori che professa».29 Gli fa eco Antonio Landolfi: bisogna «dare compiutezza e concretezza alla nozione di “partito aperto”, ormai universalmente riconosciuta come forma di superamento del “partito chiesa” o partito “ideologico”. Bisogna creare una “comunità politica”».30

Il cambiamento nel modello consiste soprattutto nel rafforzamento della leadership prima, e nella costruzione di una sorta di partito personale poi, in coincidenza con l’ascesa di Craxi alla presidenza del Consiglio.31 Questa evoluzione non contraddice direttamente lo schema del «partito aperto», non fosse altro perché anch’essa va fatta risalire al generale mutamento della società, in primo luogo alla dilatazione straordinaria del potere dell’informazione, dell’informatica, della telematica, di tutti i processi di conoscenza e di controllo che, attraverso lo sviluppo delle tecnologie più sofisticate, si sta determinando in Italia come altrove.32 Martelli non ha dubbi che si sia ormai entrati nella «società dell’informazione»; ma, all’inizio, anche nel PSI sono in pochi a intuire la potenza rivoluzionaria dei mezzi di comunicazione di massa e quali modificazioni i nuovi media, in particolare la televisione, possano apportare al paesaggio politico.33 Di fronte a questa svolta nei processi di modernizzazione emerge tutto il ritardo del mondo culturale italiano dove finisce col prevalere una «visione apocalittica e disperata» sugli effetti della rivoluzione mediatica, come lamenta Martelli.34

Poi, però – come spesso accade quando si scopre il nuovo – la mediatizzazione della politica acquista il valore di una ricetta magica. Ed è un coro generale: sono i mass media «lo strumento privilegiato di comunicazione con l’esterno, di irradiamento della politica e dell’immagine del partito»; il radicamento del PSI nella società è «affidato al suo insediamento nel sistema delle comunicazioni di massa (scritte e audiovisive) pubblico, parapubblico e privato, anziché alla radicazione nel sociale delle sue strutture di base».35 La funzione del partito come veicolo dell’integrazione sociale è ormai desueta; ad essa si sostituisce, «in modo sempre più diffuso, una integrazione basata sul consumo di immagini dotate di valore esemplare».36 Di conseguenza, il PSI non ha più «bisogno di strutture fisse, di gerarchie inamovibili, di istanze intermedie per ottenere e mantenere il consenso»;37 ma di un’organizzazione «fatta di gruppi, associazioni che vivono autonomamente e hanno un rapporto di convergenze politiche».38 Al vecchio partito di integrazione di massa si viene sostituendo il partito elettorale di massa che sposta l’asse del sistema dalla centralità dei partiti alla centralità dei candidati – divenendo così candidate centered – riducendo le organizzazioni politiche al ruolo di strutture di servizio per i candidati, a supporto e a integrazione delle loro macchine personali. Vale a dire gli staff di esperti in relazioni pubbliche, in sondaggi, in pubblicità che testano il messaggio politico e costruiscono l’immagine dei politici, e, in particolare, del segretario, che rappresenta la principale risorsa da spendere sul mercato del voto.39

Sotto questo profilo, il PSI si va semplicemente adeguando «al meccanismo di identificazione tra cittadini e governanti dominante nelle principali democrazie atlantiche», dove il potere dei leader è andato progressivamente aumentando.40 Dal PCI arriva, naturalmente, una valanga di critiche su questa evoluzione, giudicata una mera imitazione del modello americano, con tutto ciò che di negativo un simile paragone comporta nel sentire dei comunisti. Ma anche all’interno del PSI dove non mancano certo resistenze a questa evoluzione, l’«americanizzazione» è una delle accuse lanciate contro Craxi dai socialisti scontenti che, seppure a ranghi ridotti, lasciano il PSI negli anni Ottanta. E valga per tutti il commento di Elio Veltri al momento della sua uscita dal partito, insieme a Franco Bassanini e ad altri, nell’autunno del 1981: «Il PSI di Craxi è un partito americano, all’americana. Senza ideologia, senza progetto di società. Che vive in maniera elettoralistica, in cui le strutture non servono per arrivare alle masse».41

Del resto critiche altrettanto dure vengono rivolte in Francia contro il partito di Mitterand che Alain Tourraine definisce ormai un partitoazienda: «Cos’è lo stato maggiore socialista se non il consiglio di amministrazione di un’impresa che cerca di conquistarsi un mercato?». Una «aspra definizione» che, secondo Miriam Mafai, «si adatta anche allo stato maggiore del partito di Craxi».42 I socialisti parlano di efficienza edi organizzazione che, però, «sono essenzialmente efficienza e organizzazione dello stato maggiore, delle postazioni di comando, al centro oin periferia», mentre il partito è di fatto abbandonato a se stesso;43 privato del ruolo di «canale di rappresentanza operante con una sua logica interna e, quindi, anche come strumento di ricambio “naturale” delpersonale politico».44 Alle parole di Antonio Baldassarre fanno ecoquelle di Mario Tronti: «Il PSI come forza politica (…) scompare dietro il primato del leader. (…) Il modello di vocazione alla politica è distruttivo per il partito stesso. Pragmatismo e arrembaggio, assenza dalla società e culto del posto di comando: con queste qualità si possono avere uomini di governo in tutte le pieghe delle istituzioni senza mai diventare classe dirigente».45

I comunisti sembrano non tenere conto di quanto invece il rafforzamento della leadership piaccia alla base socialista. Chi, come Gaetano Arfè, ha vissuto quasi tutta la sua vita all’interno del partito, capisce, seppure con personale sconforto, che l’autorità di Craxi «è legittimata da una reale, incontrastata investitura plebiscitaria di base e consacrata da un culto della personalità sollecitato, ma accettato e praticato con spontanea adesione».46 E, per rendersene conto, basta scorrere le tante inchieste giornalistiche sugli umori raccolti tra i delegati e nelle federazioni provinciali in occasione dei congressi o alla vigilia delle elezioni: «Qualsiasi possa essere l’opinione su Bettino Craxi, un dato è certo: ha ridato slancio e peso politico al suo partito, lo ha fatto protagonista della scena (…). Ha preso in mano un partito triste e cadente, avviato su quello che sembrava un totale viale del tramonto, senza una politica, senza un disegno, senza né tatti ca né strategia, inesorabilmente compresso tra il colosso democristiano e il gigante comunista, e gli ha ridato prestigio e dignità».47

Per quanto il sentire della base abbia un forte eco in tutti gli strati del partito e più in generale nell’area socialista, il malessere che affiora nel PSI non può essere circoscritto solo alle prevedibili resistenze dell’apparato. In polemica con la gestione del segretario e con il dilagante «craxismo», a partire dalle elezioni del 1979 e via via a ogni tappa del percorso socialista negli anni Ottanta, si registra una costante emorragia tra gli intellettuali che non si riconoscono più in quel nuovo PSI di cui sono stati le levatrici. La spiegazione del fenomeno è complessa e non si può ricondurre esclusivamente alla radicata egemonia del PCI sul mondo della cultura. Certo, la liquidazione della strategia dell’alternativa, il ritorno al governo con la DC su posizioni di netta chiusura al PCI, approfondiscono il fossato tra socialisti e comunisti, spezzando l’unità delle sinistre, un mito radicato profondamente nelle coscienze anche dei «chierici». Ma, se si considera quanto l’intellighenzia del PSI abbia contribuito a forgiare le armi di Craxi per la battaglia contro Berlinguer, il riposizionamento al fianco del Partito comunista dei più critici va letto anche sotto altri profili. Innanzi tutto quello della delusione per i risultati elettorali che i socialisti, a ogni tornata, si illudono siano ben più soddisfacenti di quelli usciti dalle urne. Lo sconcerto è evidente nel 1979, quando il PSI resta praticamente fermo al 9,8%; tanto è vero che tra il 1979 e il 1981 si consuma una sanguinosa resa dei conti interna, l’ultima vera battaglia politica combattuta all’interno del partito e vinta dal segretario.

Neppure il successo alle elezioni del 1983 basta a soddisfare le ansiose aspettative di crescita: l’aumento di meno di 2 punti percentuali conferma che qualcosa si sta muovendo nell’elettorato; ma ancora troppo esile appare lo spostamento dei consensi, per di più in presenza di un PCI che conserva sostanzialmente le posizioni del 1979, intorno al 30%. E le file degli scontenti si ingrossano di fronte al verdetto delle europee nel 1984, quando i comunisti recuperano voti sorpassando addirittura la DC, in vertiginoso calo. Per di più il PSI non avanza; anzi, il lieve arretramento dello 0,2% acquista il significato di una vera e propria sconfitta. Il dubbio che, malgrado l’acume con cui gli intellettuali analizzano la nuova società, il PSI in concreto si sia avviato su una strada sbagliata, è diventato una certezza per Gianfranco Pasquino: «Il partito e i suoi intellettuali politici hanno prodotto in questi anni documenti significativi e analisi raffinate. Ma, nel frattempo, la politica del PSI, la sua prassi quotidiana, concreta, seguiva altra strada (…). Così dalla società conflittuale si è passati allo sforzo di produrre il consenso alla presidenza del Consiglio, dal garantismo al decisionismo, dall’apertura ai movimenti collettivi alla chiusura della politica nelle istituzioni (lontane dalle piazze, davanti ai televisori)».48 Craxi ha smantellato il partito, riducendo gli organi decisionali in vuoti simulacri di un potere che è altrove, nel segretario e nel suo ristretto gruppo di consiglieri. «Inevitabilmente, un partito che non ha più strutture di partecipazione di base, che non fa più politica, ma solo attività di supporto all’elezione dei propri candidati e alle loro pressioni per ruoli più visibili e più potenti nelle varie amministrazioni, deve ruotare intorno al leader. La sua figura deve essere enfatizzata al massimo; la personalizzazione del potere non è solo una tendenza, ma una scelta».49

Non è casuale che considerazioni in parte analoghe vengano dall’ex direttore di «MondOperaio», Coen, che pure al momento della sua uscita dal PSI nel 1984, difende fino in fondo il percorso dei socialisti sulla via dell’innovazione, persino nelle scelte politiche di schieramento, da alcuni ritenute un salto indietro nel passato. La riedizione del centrosinistra, sulla base, però, di una «massimizzazione delle posizioni di potere del partito all’interno delle istituzioni»,50 ha di fatto segnato una svolta nei rapporti con la DC e ridisegnato gli equilibri di forza nel sistema, facendo dei socialisti l’ago della bilancia della politica italiana. L’errore di Craxi non sta nella strategia, né tanto meno nelle nuove basi teoriche sulle quali è stato elaborato il riformismo degli anni Ottanta. Sta invece nell’aver puntato tutto sul «protagonismo politico di un leader e di un gruppo dirigente», senza vincoli di programma: la personalizzazione della leadership ha appannato l’immagine del PSI, che non è così riuscito a ottenere «in tempi relativamente brevi un’impetuosa crescita elettorale a livelli comparabili con quelle delle socialdemocrazie europee».51

Certo, la carta della presidenza del Consiglio a Craxi mette a tacere molte voci critiche, tanto più che la vittoria socialista al referendum sulla scala mobile conferma in pieno l’analisi sui cambiamenti intervenuti nella società e viene ascritta a merito del segretario-presidente. Se si guarda a un sondaggio realizzato nel 1985, dopo due anni di presidenza del Consiglio, il segretario socialista e capo del governo ha un’immagine vincente: il 91,7% degli italiani considera Craxi l’uomo forte della politica italiana; il 90% lo giudica il più attivo; l’89% il più abile; l’83% tra i più competenti.52 Questi dati non rispondono però ancora alla domanda che Massari si poneva nel 1983: «Può il controllo politico del governo produrre potere e consenso per il partito che lo guida?».53 I polls del 1986 non sono incoraggianti per il PSI, che ha indici di gradimento decisamente inferiori a quelli riscossi dal capo, e così commentati da Luciano Cafagna: «Credo vada detto senza infingimenti che la carta maggiore del PSI sta oggi nella migliore “personalizzazione” della sua immagine politica rispetto alle altre forze politiche. In un momento di impasse, in cui cerca una comunicazione più profonda con l’elettorato per scuoterlo o confermarlo nelle sue scelte di fedeltà, la “personalizzazione” può giocare un ruolo decisivo».54 Di sicuro la personalità di Craxi produce un certo consenso, come dimostra la crescita dei voti alle elezioni politiche del 1987, che portano il PSI al 14,3%, con un aumento di quasi tre punti percentuali rispetto alle precedenti votazioni. Non è, tuttavia, lo straordinario successo che in tanti si attendono, soprattutto se si considera il contemporaneo crollo del PCI, sceso al 26,6%.

Per rassicurare gli scontenti il segretario e il gruppo dirigente evocano la metafora dell’onda lunga, ma costante, di uno spostamento dei suffragi che sta svuotando l’area comunista per confluire lentamente verso il più moderno Partito socialista. Il futuro sembra assicurato, anche se il presente non soddisfa chi ha fretta di arrivare al successo. A frenare l’impazienza c’è però la constatazione di quanto lenti siano i tempi della politica italiana, come hanno dimostrato i quarant’anni trascorsi dalla fondazione della Repubblica, scanditi da mutamenti relativamente ridotti nell’andamento del voto. Su questa riflessione Craxi probabilmente fonda il suo ottimismo che lo porta, proprio a partire dal 1987, a un ripiegamento sull’esistente, per conservare e consolidare le posizioni acquisite. La perdita della carica movimentista, che era stata la vera carta vincente dei socialisti fin dal 1976, ha però immediate ripercussioni sulla curva dei voti che, invece di procedere verso l’alto, si ferma già alle elezioni europee del 1989 – l’incremento è solo dello 0,5% – per poi scendere alle politiche del 1992 – 13,6% rispetto al 14,3% del 1987. In realtà, l’intero ragionamento sulla natura della dinamica politica italiana, assai poco mobile e destinata a procedere a piccolissimi passi, non corrisponde per nulla al panorama degli anni Ottanta. C’è una contraddizione palese tra la capacità dei socialisti di cogliere il cambiamento della società e la loro ottusità nel leggere i segnali che preludono al generale sommovimento del quadro politico alla fine del decennio. Sotto questo profilo, il PSI non si trova un passo avanti alla DC e al PCI; tutti i partiti continuano a ripetere stancamente le mosse di un vecchio gioco politico, senza rendersi conto che la scacchiera non è più quella di prima.

Non era certo facile prevedere la caduta del muro di Berlino nel 1989, che ha effetti dirompenti in Italia dove il Partito comunista è ancora una forza politica con più del 26% di suffragi. Tuttavia, la crisi del PCI, ormai evidente a tutti, avrebbe dovuto quantomeno indurre a una riflessione più meditata sulle inevitabili ripercussioni nella DC che, per più di quarant’anni – un primato unico e anomalo nelle democrazie dell’Occidente – ha conservato la sua egemonia come «partito di garanzia» contro il comunismo. E, più in generale, era ipotizzabile che lo sblocco del sistema, immobilizzato per quasi mezzo secolo dal «fattore K», non sarebbe stato un processo del tutto indolore, un mero passaggio di consegne, un automatico travaso di consensi dal vecchio partito marxista-leninista, condannato dalla storia, al PSI di Craxi, portatore dei valori vincenti di democrazia e libertà. Eppure è proprio questo lo scenario roseo che viene descritto da Luciano Pellicani all’indomani del voto del 1987: «il PCI ha cessato di essere una forza magnetica e si è trasformato in un vasto serbatoio di voti per il PSI (…). Certo, il “duello a sinistra” (…) non si è ancora concluso con la vittoria finale del PSI. Le “riserve di grasso” del PCI continuano ad essere abbondanti. Resta comunque il fatto che il travaso di voti che si è verificato, ha modificato, e in modo radicale, la scena. Ora il PSI è il “magnete” della sinistra».55

Come già detto, nella ricerca di una più moderna identità il PSI è sicuramente il più innovativo, e la crescita dei consensi lo dimostra. A impedire però uno sfondamento più consistente, contribuisce quanto di vecchio è ancora impresso nella sua fisionomia. Anzi, il marchio del sottogoverno e dell’affarismo che bolla a fuoco la DC, è diventato più evidente nel nuovo PSI rispetto al passato, omologandolo al partito di maggioranza nella polemica della società civile contro la partitocrazia corrotta. Questi umori non sono il risultato della corruzione, ma la spia di un’insoddisfazione profonda nei confronti di un sistema bloccato, ingessato, non funzionale alle sfide di una modernità che avanza. La controprova viene proprio nel declino del PCI che, nonostante si presenti agli elettori come il «partito degli onesti», nel tentativo di ripetere lo straordinario successo del 1975-76, non è più in grado di raccogliere nuovi consensi e va perdendo anche quelli tradizionali. In questo quadro generale, il ripiegamento del PSI su posizioni di conservazione dell’esistente, dopo il 1987, risulta ancora più miope, quasi un suicidio politico che ne anticipa la fine nell’XI legislatura.

 

Bibliografia

1 Cfr. Trent’anni di politica socialista 1946-76. Atti del convegno organizzato dall’Istituto socialista di studi storici, in «MondOperaio», Edizioni Avanti, Roma 1976.

2 N. Bobbio, Questione socialista e questione comunista, in «MondOperaio», 9/1976.

3 Cfr. discorso di Craxi al C.C. del 30 ottobre 1982, in B. Craxi, Tre anni, Sugarco, Milano 1983.

4 Una delle ragioni dell’aspra polemica da parte dei comunisti sta nel «fatto che il nuovo gruppo dirigente socialista non soffre di complessi di inferiorità, di subordinazione o di paura nei confronti delle Botteghe Oscure. È soprattutto quest’ultimo punto che Berlinguer meno riesce a tollerare. Ed è questo elemento che ha rimesso in moto, nel PCI, riflessi ancestrali, risalenti ai tempi più bui della Terza Internazionale», intervista a Lucio Colletti, Le scelte del PSI, in «MondOperaio», 5/1984.

5 Cfr. G. Orsina, G. Quagliariello, L’UNURI e la formazione della classe politica italiana, in Orsina, Quagliariello (a cura di), La formazione della classe politica in Europa (1945-1956), Piero Lacaita Editore, Mandria-Bari-Roma 2000. Il curriculum di Craxi è significativo: fa i suoi primi passi nell’Unione goliardica e poi nell’UNURI; diventa funzionario di partito per la zona di Sesto San Giovanni; è promosso consigliere comunale e, in seguito, assessore all’economato. Segretario della federazione milanese, membro del Comitato Centrale fin dal 1957, viene eletto deputato per la prima volta alle elezioni del 1968 e nominato vicesegretario del PSI dopo la scissione del 1969.

6 G. Arfé, Sopravvivere alle ambizioni di Craxi?, in «Rinascita», 14 febbraio 1987.

7 Sulla struttura sociale del PSI si vedano, in particolare, AA.VV., PSI. Struttura e organizzazione, Marsilio, Venezia 1975; V. Spini e S. Mattana (a cura di), I quadri del PSI, in «Quaderni del Circolo Rosselli», gennaio-marzo 1981, dove viene presentata una vera e propria radiografia del partito negli anni Settanta. Cfr. anche le analisi dei flussi elettorali: A. Parisi e G. Pasquino, Continuità e mutamento elettorale in Italia, Il Mulino, Bologna 1977; AA.VV., Fluidità elettorale e classi sociali, Il Mulino, Bologna 1979; Parisi (a cura di), Mobilità senza movimento, Il Mulino, Bologna 1980; E. Corbetta, Parisi, H. Schadee, Elezioni in Italia, Il Mulino, Bologna 1988; M. Caciagli, A. Spreafico (a cura di), Vent’anni di elezioni in Italia, Liviana, Padova 1990.

8 Intervento di Fabio Taiti alla tavola rotonda, organizzata dalla rivista «MondOperaio» e pubblicata con il titolo Alleanza socialista: quale strategia del consenso?, in «MondOperaio», 3/1982.

9 G. Amato, Il pluralismo secondo Ingrao, in «MondOperaio», 5/1976.

10 Significativo a questo proposito è l’intervento del comunista Adalberto Minucci alla tavola rotonda organizzata dalla rivista «MondOperaio» sul tema: Referendum e sistema dei partiti, in «MondOperaio», 7-8/1978. Ancora più esplicito è Federico Coen, il direttore di «MondOperaio», che identifica la crisi del welfare State con la crisi dello statalismo socialdemocratico. F. Coen, Un fantasma si aggira per l’Italia, in «MondOperaio», 12/1978.

11 Si consideri, in particolare, la vicenda del Labour Party, due volte, nel 1979 e nel 1983, duramente sconfitto dalla Thatcher; ma anche quella della SPD che, pur riuscendo a mantenersi in piedi nel turno elettorale del 1980, poco dopo, nel 1982, assiste impotente alla vittoria dei democristiani, guidati da Kohl. Socialisti inglesi e tedeschi pagano il ritardo nel rinnovamento, che invece è il terreno scelto da Mitterand, da Gonzales e da Craxi, anche se per lui il successo elettorale tarderà a venire e non sarà delle dimensioni sperate.

12 F. Momigliano, Dall’emergenza all’alternativa, in «MondOperaio», 3/1978.

13 Ne sono pienamente consapevoli gli intellettuali che rivendicano apertamente la qualità dell’elaborazione culturale prodotta, «opera di innovazione, sia detto senza trionfalismi e senza falsa modestia, di grande rilievo nel panorama della cultura socialista e non, e non solo italiana». Pasquino, Per un partito «aperto», in «MondOperaio», 3/1978. Cfr. anche M. Gervasoni, Le insidie della «modernizzazione». «MondoOperaio», la cultura socialista e la tentazione della «Seconda Repubblica» (1973-1992), Relazione al Convegno, I partiti politici nell’Italia repubblicana, Roma 7-8 novembre 2002.

14 Intervento di Adalberto Minucci alla tavola rotonda organizzata da «MondOperaio» e pubblicata dalla rivista con il titolo: Referendum e sistema dei partiti, in «MondOperaio», 7-8/1978.

15 A. Occhetto, Le sinistre dopo Palermo, in «Rinascita», 1 maggio 1981.

16 P. Franchi, La realtà e la grande ambizione, in «Rinascita», 24 aprile 1981.

17 P. Farneti, Appunti sul declino della militanza politica, in «MondOperaio», 4/1979.

18 Momigliano, op. cit.

19 S. Sechi, Una svolta per tutta la sinistra, in «MondOperaio», 4/1982.

20 Cfr. Pasquino, Per un partito aperto cit. e Momigliano, op. cit.

21 Relazione del segretario Bettino Craxi al 42° Congresso di Torino del 1978. Craxi, Il rinnovamento socialista, Marsilio, Venezia 1981.

22 Farneti, op. cit.

23 Sull’individuazione del fenomeno dei localismi, cfr. l’intervento di Fabio Taiti alla tavola rotonda, Alleanza socialista: quale strategia del consenso?, in «MondOperaio», 3/1982.

24 C. Martelli, Puntare sui contenuti, in «Quaderni di Socialismo Oggi», dicembre 1984, p. 83.

25 A. Natta, Il PSI di ieri e quello di oggi, in «Rinascita», 12 aprile 1986.

26 Ivi.

27 L. Tamburino, Un partito pigliatutto?, in «Rinascita», 9 aprile 1982.

28 F. Ottolenghi, I due tempi del riformismo moderno, in «Rinascita», 30 marzo 1984.

29 E continua: «un partito che è ormai entrato a pieno titolo nella ristretta famiglia delle socialdemocrazie post-industriali». Pellicani, op. cit.

30 A. Landolfi, La questione del partito, in «MondOperaio», 3/1987.

31 Cfr. al proposito S. Colarizi, La trasformazione della leadership. Il PSI di Craxi (1976-1981), in Gli anni Ottanta come storia, Rubettino, Soveria Mannelli 2004; Id., Un leader da spendere, in «La Gazzetta politica», 10/2003.

32 Martelli, La cultura e lo Stato, Intervista a cura di Mario Accolti Gil, in «MondOperaio», 2/1982.

33 Cfr. Pasquino, Per un partito aperto cit.; e Colarizi, Crisi dei partiti e ricerca del consenso. La politica in televisione negli anni Settanta, Relazione al Convegno, I partiti politici nell’Italia repubblicana, Roma 7-8 novembre 2002.

34 Martelli, Informazione e potere in Italia, in «MondOperaio», 12/1978.

35 G. Carbone, Il difficile modello di un partito secondo, in «Il Mulino», 3/1982. Analoghi concetti esprime A. Pilati, Spettacolarizzazione dei mass media e modificazioni del sistema politico italiano, in «Problemi del socialismo», 22/1981.

36 Pilati, op. cit.

37 M. Ilardi, PSI: un partito “senza partito”?, in «MondOperaio», 4/1984.

38 Intervento di R. Cassola alla tavola rotonda, Alleanza socialista: quale strategia del consenso?, in «MondOperaio», 3/1982.

39 M. Calise, Il partito personale, Laterza, Bari-Roma 2000, cfr. anche Farneti, op. cit.

40 Calise, op. cit., p. 97. In realtà la riflessione di Calise riguarda il successo di Berlusconi, ma si può chiaramente riferire a una tendenza già emersa evidente nel PSI di Craxi. Cfr. a proposito Colarizi, La trasformazione della leadership cit.

41 Intervista a Elio Veltri in G. Cerruti, Un partito americano senza ideologia. Me ne vado perché tutti restano zitti, in «La Repubblica», 5 ottobre 1981.

42 M. Mafai, Addio cari vecchi socialisti. Questo PSI è targato Milano, in «La Repubblica», 23 aprile 1981.

43 G. Caldarola, Le bocce fereme di Bettino Craxi, in «Rinascita», 24 settembre 1982.

44 A. Baldassarre, L’incerto percorso di Craxi, in «Rinascita», 27 aprile 1984.

45 M. Tronti, Com’è lontana Rimini soltanto un anno dopo, in «Rinascita», 13 aprile 1984.

46 Arfè, Sopravvivere alle ambizioni di Craxi? cit.

47 Così commenta, dopo una lunga inchiesta tra i delegati al Congresso di Palermo dell’aprile 1981, Giorgio Rossi, Timori, speranze, orgoglio. I socialisti aspettano che il leone ruggisca, in «La Repubblica», 19-20 aprile 1981.

48 Pasquino, Ma questo garofano non ha radici, in «Rinascita», 11 maggio 1984. Indirettamente gli risponde Luigi Covatta che denuncia la manovra dei comunisti i quali cercano di «separare l’elaborazione culturale del PSI (buona) dal “craxismo” (cattivo)». L. Covatta, Il vostro errore: non avete dato credito alla presidenza socialista, in «Rinascita», 17 novembre 1984.

49 Ivi. Sulla scia di queste considerazioni, Claudio Petruccioli ribadisce il concetto che la leadership personale è diventata essenziale per l’identità stessa del partito; ma avverte: «Tale identificazione può far sorgere, in circostanze ipoteticamente non favorevoli al leader, problemi molto seri per l’insieme del partito». C. Petruccioli, Nuovi riformisti o nuovi integralisti?, in «Rinascita», 18 maggio 1984.

50 Coen, C’è stato un leader, ora serve un programma, in «Rinascita», 26 luglio 1986.

51 Ivi.

52 G. Tinacci e E. Cheli, L’immagine del potere; atteggiamenti, comportamenti e strategie di immagine dei leaders politici italiani, Franco Angeli, Milano 1986, p. 193.

53 O. Massari, Il PSI dopo il 26 giugno: dalla governabilità alla leadership del governo, in «Laboratorio Politico», 2-3/1983.

54 L. Cafagna, Fare buon uso del potere di coalizione, in «MondOperaio», 3/1987. I polls sono stati ricavati da Rilevazione Osservatorio – Makno – «Il Mondo» e pubblicati da G. Quaranta, Forza governo!, in «L’Espresso», 22 giugno 1986.

55 Pellicani, Una svolta storica, «MondOperaio», 7/1987.