Un mandato per la continuità... con ostacoli crescenti

Di Federico Romero Lunedì 01 Novembre 2004 02:00 Stampa

I risultati elettorali del 2 novembre proiettano la Casa Bianca verso una sostanziale continuità della politica estera nel secondo mandato. Vi potranno essere taluni mutamenti di stile, ma non c’è motivo di attendersi un ripensamento di fondo o un cambio di direzione. L’assertività unilaterale degli Stati Uniti rimarrà la bussola principale, e la sostituzione di Colin Powell con Condoleeza Rice alla guida del Dipartimento di Stato rende l’Amministrazione ancor più omogenea su tale impostazione. Il vero interrogativo riguarda gli spazi di manovra e le risorse disponibili per una simile strategia, visto che sembrano entrambi progressivamente più rastremati.

 

I risultati elettorali del 2 novembre proiettano la Casa Bianca verso una sostanziale continuità della politica estera nel secondo mandato. Vi potranno essere taluni mutamenti di stile, ma non c’è motivo di attendersi un ripensamento di fondo o un cambio di direzione. L’assertività unilaterale degli Stati Uniti rimarrà la bussola principale, e la sostituzione di Colin Powell con Condoleeza Rice alla guida del Dipartimento di Stato rende l’Amministrazione ancor più omogenea su tale impostazione. Il vero interrogativo riguarda gli spazi di manovra e le risorse disponibili per una simile strategia, visto che sembrano entrambi progressivamente più rastremati.

 

1. Bush ha ottenuto un successo numericamente modesto, ma politicamente netto. Dato il contesto particolarmente incerto, ciò si traduce in una forte convalida delle scelte principali perseguite dalla sua Amministrazione. La vittoria, infatti, non origina solo dalla mobilitazione di un particolare gruppo di votanti (quei cristiani evangelici su cui erano appuntate le superficiali attenzioni dei primi giorni), quanto dall’avanzata di Bush in quasi tutti i segmenti dell’elettorato: in particolare tra gli ispanici, i cattolici, gli anziani e le donne sposate. Essa non dipende quindi tanto dalle tematiche etiche care alla destra religiosa, quanto dall’abilità di Bush di collegare la «guerra al terrore» alle sensibilità morali, di presentarla come questione di carattere e determinazione in difesa sia della sicurezza fisica degli americani sia, soprattutto, dei principi che ne definiscono l’identità collettiva.

Lo slogan tanto ripetuto «ci odiano perché odiano la nostra libertà» può essere scadente come analisi dell’islamismo radicale, ma costituisce un forte messaggio di rassicurazione per molti elettori americani d’inclinazione moderata e conservatrice. Lungo tutta la campagna, Bush aveva sempre mantenuto un forte vantaggio sulle tematiche relative alla lotta al terrorismo, ed è riuscito a separare efficacemente le difficoltà della guerra in Iraq dalla necessità di perseguire il terrorismo con aggressività.

Questo nesso emerge con chiarezza dalle indagini svolte ai seggi. Pur convinti che in Iraq le cose andassero male per gli USA (52% contro 43%), i votanti si dicevano in maggioranza (54%) convinti che la campagna in Iraq fosse una componente necessaria della lotta al terrorismo e che gli USA fossero più sicuri di quattro anni prima. E, anche se le opinioni sull’operato dell’Amministrazione erano prevalentemente negative, ben il 57% dichiarava di aver fiducia in Bush per contrastare il terrorismo, proprio in ragione delle sue convinzioni semplici, chiare e forti, in materia religiosa come su ogni altro tema.

La presidenza Bush ha dunque ora ancor maggiore autorità e legittimità per perseverare sulla sua strada. I conservatori americani vedono infatti nell’elettorato nazionale non solo il loro ovvio referente politico, ma il fondamentale se non unico fattore di legittimazione. Basti ricordare come balzarono alla gola di Kerry, dopo la sua frase su di un «test globale» per la politica estera americana, come se si trattasse di una sorta di svendita anti-patriottica della democrazia americana. La nozione secondo cui non esiste una comunità internazionale, ma solo rapporti di alleanza più o meno utili a seconda delle circostanze, costituisce la biochimica essenziale di questa Amministrazione. E le elezioni hanno indubbiamente rafforzato la sua convinzione che l’elettorato statunitense sia il solo, essenziale parametro di riferimento

In secondo luogo, è bene ricordare che la motivazione fondamentale di questa Amministrazione, la sua «missione» più convinta e sentita, consiste nel tentativo di operare un riallineamento storico del panorama politico-culturale del paese, per giungere a una duratura egemonia conservatrice e una solida maggioranza repubblicana. Le elezioni segnalano un buon passo avanti in questa direzione, e a tal fine l’unilateralismo assertivo non è meno rilevante dell’agenda interna per una ownership society. Anche qui, gli slogan sono illuminanti. Il concetto di «un equilibrio di potenza che favorisca la libertà» può essere contraddittorio in termini teorici e incongruo nel Medio Oriente di oggi, ma evoca prepotentemente quel desiderio di preminenza ed eccezionalismo che costituisce il nocciolo identitario dell’America conservatrice.

Inoltre, la nuova maggioranza parlamentare condivide quello stesso obiettivo con non minore veemenza. Quantomeno fino alle elezioni congressuali del 2006 la Casa Bianca e i dirigenti del Congresso saranno legati da una profonda dipendenza reciproca. Hanno bisogno di cooperare per attuare l’agenda conservatrice che gli attivisti repubblicani ritengono sia loro dovuta. Hanno bisogno di una forte sinergia per approvare i progetti della Casa Bianca. E i parlamentari hanno bisogno del sostegno del presidente per la loro rielezione nel 2006. Questo matrimonio d’amore e di interesse rende quindi improbabile, e politicamente assai costosa, ogni eventuale dipartita dall’unilateralismo assertivo.

Insomma, questo successo elettorale confermerà gli atteggiamenti prevalenti ancora più di quanto non avvenga abitualmente dopo una vittoria, perché il verdetto è visto come convalida di atteggiamenti ideali e manifestazione di un trend storico che si vuole provvidenziale. 

 

2. Mandati, intenzioni e volontà – ad ogni modo – non sono tutto, e l’Amministrazione si troverà anche di fronte a vincoli crescenti. Si tratta in primo luogo di costrizioni economiche e fiscali. Il deficit di bilancio è ampio e in aumento. Anche se non ha avuto un gran peso nelle elezioni, esso graverà sempre più nelle deliberazioni del prossimo ciclo politico. Le misure fondamentali dell’agenda domestica di Bush (la riforma fiscale e la parziale privatizzazione del sistema di sicurezza sociale) comporteranno costi notevoli, almeno nel medio periodo. Si tratta delle misure cruciali del progetto conservatore, che non potranno essere archiviate o svuotate, e che quindi renderanno il deficit ancor più grande e duraturo.

Quanto a lungo è sostenibile un simile trend senza reazioni drastiche dei mercati? Quand’anche si presuma la continuazione dell’attuale discesa graduale del dollaro, invece di un suo crollo subitaneo, fino a quando ci si può attendere che gli investitori stranieri mantengano la loro fiducia nella moneta americana e i loro investimenti in titoli statunitensi? L’attivismo unilaterale del primo mandato era finanziabile grazie al lascito del surplus clintoniano (rapidamente dilapidato) e alla progressione relativamente lenta del deficit. Ma in ultima analisi, anche il governo degli Stati Uniti, come ogni altra nazione, è sottoposto a una dipendenza finanziaria esterna e non può allentarne o ignorarne i vincoli troppo a lungo. Nel prossimo mandato la politica economica americana vedrà restringersi i suoi spazi di manovra e Bush dovrà operare scelte che ridurranno la sostenibilità economica di una guerra globale al terrore condotta attraverso massicce operazioni militari.

Vi sarà poi un secondo tipo di vincoli, di carattere strategico e militare. Gli impegni d’occupazione in Iraq – malgrado le forze schierate siano insufficienti ad assicurarne gli scopi politici e militari – sottopongono già a forti tensioni le risorse del Pentagono. È anche evidente che non ci sono buone opzioni militari per sciogliere d’imperio i nodi delle potenziali crisi con la Corea del Nord e l’Iran. L’Amministrazione si troverà quindi di fronte a trade-off difficili, che imporranno seri dilemmi all’agenda dei conservatori. Come ha scritto di recente Richard Haass: «La guerra per scelta all’Iraq ha ristretto lo spazio delle altre scelte per la politica estera americana», e ha in particolare delimitato la possibilità di iniziare altre guerre, che sono perciò meno probabili.

Del resto, basta già la guerra in corso in Iraq per prospettare un test non facile per la determinazione di Bush a mantenere una rotta che non sembra condurre a una soluzione in tempi brevi. Che le elezioni di gennaio riescano o meno a dar vita a un governo relativamente legittimo ed efficace in Iraq, è plausibile prevedere che l’attuale insorgenza terroristica non evapori in tempi brevi. Sembra viceversa probabile che diventi endemico lo scontro in corso tra il consolidamento di un regime politico e la guerriglia che tenta di evitarlo: la seconda non può vincere, ma il primo non riesce a stabilizzarsi e affermarsi. E gli indicatori disponibili dicono che la presenza americana nel paese diviene più impopolare con il passare del tempo.

Se questo sarà lo scenario tra sei o dodici mesi, non è azzardato prevedere che negli Stati Uniti si aprano dinamiche di difficile gestione per l’Amministrazione. Una situazione di stallo in Iraq – con ulteriori perdite e nessuno sbocco credibile – favorirebbe il ritorno di un movimento di protesta che la sinistra democratica utilizzerebbe per riorganizzarsi dopo il trauma elettorale; fomenterebbe lo scetticismo pubblico verso i costi di un impegno massiccio, protratto e tuttavia inconclusivo; e alimenterebbe le richieste moderate, e anche conservatrici, per un ritiro che consenta di tagliare le perdite e razionalizzare la strategia della «guerra al terrore». Alcune voci in tal senso erano già percepibili nei mesi scorsi, anche se ridotte a un bisbiglio dalle esigenze di unità e disciplina pre-elettorale, e acquisiranno più spessore in futuro, soprattutto quando le richieste di finanziamento delle operazioni in Iraq verranno a confliggere con le altre priorità finanziarie del Congresso e della stessa Casa Bianca.

 

3. È ancora troppo presto per capire se, come e quanto la Casa Bianca riconsidererà i suoi progetti alla luce di queste difficoltà, ma alcune parziali indicazioni si intravedono. Innanzitutto è prevedibile, anzi quasi scontato, che a breve termine Bush torni con forza a proporre agli alleati europei, e a taluni paesi islamici, un serio impegno di risorse economiche, tecniche e magari anche militari per la stabilizzazione dell’Iraq. È probabile che ciò venga presentato quale parte di uno sforzo americano per riparare e migliorare le relazioni transatlantiche, per superare e dimenticare la rottura del 2003. Si tratterebbe dunque di un’imitazione di ciò che Kerry suggeriva in campagna elettorale, ma con una maggiore accentuazione dell’invito pressante al burden-sharing.

La morte di Arafat in coincidenza con l’inizio del secondo mandato ha poi riaperto la discussione sul conflitto israelo-palestinese: non certo per rivedere drasticamente l’approccio dell’Amministrazione, ma per verificare se la successione alla leadership palestinese può aprire nuove possibilità di riapertura dei negoziati. Benché profondamente cauta e scettica su ogni apertura ai palestinesi, la Casa Bianca è sembrata indicare – in particolare nell’incontro con Tony Blair di metà novembre – un qualche nuovo interesse alla ripresa del processo negoziale. L’impressione, comunque, è che Bush intenda più che altro vedere dei robusti segni di democratizzazione interna e moderazione da parte dell’Autorità palestinese quale pre-condizione per ogni dialogo. Soprattutto, l’insistenza sulla democratizzazione pare innanzitutto un invito agli europei affinché si assumano direttamente la responsabilità di ridefinire l’Autorità palestinese e portarla al tavolo negoziale in condizioni accettabili agli americani (e agli israeliani?).

Sull’Iran, infine, il presidente ha concesso il proprio distante avvallo verbale (e senza dubbio temporaneo) ai negoziati che Francia, Germania e Gran Bretagna stanno conducendo con Teheran per dissuaderla dallo sviluppo di armi nucleari. Ma tra i conservatori la sfiducia e l’ostilità verso il regime iraniano sono profondamente radicati, ed è difficile immaginare che l’Amministrazione giunga a sposare una politica di serio dialogo – comprensiva di robusti incentivi – con Teheran.

Insomma, un’Amministrazione rassicurata dalla vittoria e ancor più persuasa di incarnare imprescindibili scopi morali – ma anche consapevole delle difficoltà che l’aspettano – potrebbe in taluni casi optare per cauti esperimenti di maggiore cooperazione internazionale. Si tratterà, per lo più, del tentativo di perseguire l’ulteriore allineamento altrui dietro alle proprie strategie, di coinvolgere gli alleati nella gestione delle proprie politiche e, in particolar modo, di convincerli a condividerne il fardello, come indubbiamente i neo-conservatori saranno propensi a desiderare e pensare. In taluni casi, in particolare per ciò che riguarda la Palestina (e forse l’Iran), ciò potrebbe aprire effettive opportunità all’Europa per sciogliere vecchi dilemmi e muovere su nuovi terreni più costruttivi. Da questi potrebbe anche, in un futuro più lontano, sorgere un più fitto, fattivo ed equilibrato rapporto con l’America. Da parte della Casa Bianca, in ogni caso, non si tratterà di una svolta radicale né di un sostanziale cambio di rotta. Tutt’al più di un aggiustamento operativo. Perché la seconda Amministrazione Bush non cambierà le proprie dottrine né le sue attitudini di fondo, anche se forse dovrà riluttantemente modificare le proprie pratiche.