Dall'inferno al purgatorio

Di Juan Carlos Portantiero Mercoledì 01 Settembre 2004 02:00 Stampa

Attorno alla fine del 2001 e all’inizio del 2002 l’Argentina sembrava essere sull’orlo del collasso. Il primo ciclo di una democrazia riconquistata nel 1983 si concludeva così nel caos economico, politico e sociale. La mobilitazione popolare, che lasciò sulle strade un numero altissimo di vittime, indusse alla rinuncia ben due presidenti in meno di un mese e aprì un pericoloso vuoto che fu colmato solo quando il senatore Eduardo Duhalde, cioè il candidato peronista sconfitto da Fernando de la Rua alle presidenziali del 1999, ottenne la maggioranza di una coalizione parlamentare necessaria a terminare il mandato costituzionale.

 

Attorno alla fine del 2001 e all’inizio del 2002 l’Argentina sembrava essere sull’orlo del collasso. Il primo ciclo di una democrazia riconquistata nel 1983 si concludeva così nel caos economico, politico e sociale. La mobilitazione popolare, che lasciò sulle strade un numero altissimo di vittime, indusse alla rinuncia ben due presidenti in meno di un mese e aprì un pericoloso vuoto che fu colmato solo quando il senatore Eduardo Duhalde, cioè il candidato peronista sconfitto da Fernando de la Rua alle presidenziali del 1999, ottenne la maggioranza di una coalizione parlamentare necessaria a terminare il mandato costituzionale.

Il quadro della situazione era comunque terminale: collasso del sistema politico, concomitante con il crollo del sistema produttivo e di quello finanziario e catastrofe sociale con indici di disoccupazione, povertà ed indigenza mai registrati prima in Argentina. A questa rottura dei contratti interni se ne aggiungeva un’altra: la disintegrazione dei vincoli con l’ordine finanziario internazionale scaturita dall’annuncio del maggiore default del debito pubblico mai contratto da uno Stato.

Neppure il governo d’emergenza di Duhalde fu in grado di rispettare i termini costituzionali e dovette indire elezioni anticipate per la pressione delle manifestazioni di strada dei risparmiatori danneggiati dalla confisca virtuale dei depositi bancari, del default nonché da forme sempre più belligeranti di azione collettiva ad opera dei settori più emarginati e senza lavoro, che generarono i cosiddetti piquetes (picchetti), che occupavano le strade di Buenos Aires e di altre città del paese. «Que se vayan todos» era il motto più popolare al tempo, sintomatico della totale delegittimazione della rappresentanza politica.

Così, nel bel mezzo di questa situazione confusa e di un’estrema debolezza istituzionale il paese approdò alle elezioni presidenziali con i maggiori partiti, il Partido Justicialista e l’Unión Cívica Radical, divisi su diverse candidature. L’attuale presidente, Nèstor Kirchner, uno dei candidati peronisti, raccolse un esiguo 22% dei suffragi e finì per assumere l’incarico perché Menem, convinto dai sondaggi che sarebbe stato sconfitto, desistette dal partecipare al ballottaggio.

Ma chi è Néstor Kirchner? Quasi uno sconosciuto nei grandi centri urbani, Kirchner era il governatore di una provincia patagonica, quella di Santa Cruz, ricca di petrolio, gas, risorse ittiche e poco popolata. In passato aveva militato nei gruppi giovanili peronisti che negli anni Settanta avevano scelto di radicalizzare le proprie posizioni e, pur senza prendervi parte, era stato un simpatizzante della guerriglia dei «Montoneros». In seguito, durante il governo dei militari, si ritirò nella sua provincia, in cui riprese l’attività politica solo dopo il ripristino della democrazia nel 1983.

Eletto governatore, accompagnò senza contestazioni i primi anni del governo Menem, ma nel corso del secondo mandato Kirchner avviò un processo di dissociazione, che si accentuò posteriormente alla smisurata crisi nazionale che portò alla caduta del presidente De la Rua. A partire da quel momento e durante il mandato ad interim di Duhalde, Kirchner cominciò a dar forma ad un discorso le cui linee si aprivano a un elettorato più ampio di quello tradizionalmente peronista e che cominciava a trovare ascoltatori attenti in quelle classi medie progressiste, soprattutto urbane, che avevano sostenuto l’Alianza tra Unión Cívica Radical e Frepaso tesa a portare al governo il binomio De la Rua-Alvarez dopo il decennio di Menem.

Con questo credito a suo favore giunse al governo nel maggio 2003, scarsamente appoggiato dalle strutture interne del Partido Justicialista, ma circondato da diffuse aspettative favorevoli da parte della cittadinanza indipendente, che aborriva visceralmente Menem e che nel 1999 aveva riposto la propria fiducia sull’Alianza per poi venirne delusa.

Nonostante il fatto che l’economia avesse cominciato a dare segni di ripresa fin dalla fine del 2002, dopo la brutale svalutazione della moneta imposta dal governo Duhalde, le conseguenze del collasso continuavano a farsi sentire: il paese aveva perso 25 punti del proprio Prodotto interno lordo; la disoccupazione era superiore al 20%; povertà e indigenza interessavano quasi il 60% della popolazione (fenomeno senza precedenti in tutta la storia moderna dell’Argentina) e il disprezzo per la politica e per le istituzioni non si era affatto affievolito nella maggioranza dei cittadini. A ciò deve aggiungersi il pericolo reale di un isolamento dal resto del mondo, in ragione delle dimensioni del debito pubblico dichiarato in default: il più ingente nella storia del capitalismo.

In queste condizioni, con una crisi del sistema politico, economico e finanziario, del sistema sociale e dell’etica pubblica, Kirchner andò al governo con ben poca legittimità d’origine: il primo ciclo della democrazia riconquistata nel 1983 si era concluso e sembrava esiguo il capitale di cui il nuovo presidente poteva disporre per realizzare una ristrutturazione delle istituzioni. Il compito primario era certo quello di ricostituire l’autorità politica di un’istituzione presidenziale già fortemente deteriorata, e l’arrivo quasi accidentale alla Casa Rosada di Kirchner, un capo con sparute truppe proprie, non sembrava una garanzia adeguata per risolvere il problema cruciale della legittimità democratica, vista la gravità della situazione.

La sfida che si presentava a Kirchner era la costituzione, dalla propria posizione di governo, di un nuovo elettorato che ingrossasse le fila di coloro che lo avevano portato a occupare tale posizione e che rappresentavano, come è d’altronde manifesto, poco più del 20% della popolazione. A questo si dedicò, e con successo, fin dal primo giorno della propria gestione. Qualcosa gli venne in aiuto: la crisi delle strutture politiche tradizionali, incluso quella peronista, che aveva sceverato il sistema politico del suo valore rappresentativo, poteva, con audacia, esser trasformata da vizio in virtù.

La conditio sine qua non era riuscire a stabilire un legame diretto, senza intermediazione, con la cittadinanza nella sua guisa di «opinione pubblica». Queste due parole, soprattutto nelle nostre società, stanno a indicare i segmenti indipendenti delle classi medie urbane, che non aderiscono a nessun partito politico. Per mobilitare a suo favore queste correnti, reduci da rifiuti e delusioni, questo presidente nuovo di zecca fece ricorso a un discorso che compendiava etica e politica per rinvigorire una società svuotata dei propri valori.

Contrariamente alla tradizione peronista, tradizionalmente legata alle problematiche sociali, Kirchner fin dalle primissime iniziative dette priorità ai temi repubblicani, come la ricostruzione di alcune istituzioni al centro delle controversie, per prima la giustizia. Ma contestualmente volle risolvere una serie di questioni rimaste in sospeso in materia di diritti umani, quali l’abrogazione di leggi che avevano favorito la situazione processuale dei capi militari coinvolti nelle azioni di repressione illegale commesse sotto la dittatura di Videla. Se quest’ultima misura sottintendeva una volontà di indennizzo democratico rispetto a quanto perpetrato in passato, l’iniziativa di sostituire, grazie a un verdetto politico che prese forma nel parlamento stesso, i giudici della Corte suprema di giustizia legati al regime di Menem, costituì un autentico momento di svolta riformista per il futuro, cosa che De la Rùa non aveva invece osato concepire.

Le suddette misure (e altre sulla medesima falsariga, come la lotta aperta alla corruzione all’interno degli organismi dello Stato) gli valsero rapidamente il sostegno della maggioranza, con un riflesso sui risultati dei sondaggi d’opinione che evidenziarono una proporzione di circa il 70% di voti favorevoli espressi nei confronti della sua immagine personale.

Ed è su questo capitale politico che il presidente venne costruendo la propria autorità, essendo ormai in grado di ridurre il proprio margine di dipendenza dal Partido Justicialista, e in modo particolare dalla sua frangia più organica, quella cioè del peronismo della provincia di Buenos Aires capitanato da Eduardo Duhalde. Sia chiaro però che questi temi, da me definiti repubblicani, in nessun modo distrassero l’attenzione dalle necessità generate dalla crisi nazionale. Il risanamento di una recessione economica che si trascinava dal 1998, i negoziati con i creditori per risolvere la situazione del debito dopo il default, la disgregazione sociale prodotta dalla disoccupazione e dalla povertà si imponevano come punti centrali della politica governativa e costituivano un banco di prova che a lungo termine avrebbero indicato la riuscita o l’insuccesso del progetto formulato.

Gli indicatori macroeconomici hanno segnalato, finora, una performance più che encomiabile. Partendo, come è certo, da livelli di base molto bassi, l’economia argentina crebbe dell’8% rispetto all’anno precedente: un dato considerevole, superiore a quello di tutti gli altri paesi del continente, tuttavia insufficiente a compensare le perdite accumulate dall’inizio della recessione. Fino a questo punto, dunque, si tratta di un successo che pare indicare una tendenza favorevole per il paese, anche se dovrà trovare convalida negli sviluppi futuri.

Rimangono ciononostante due problemi gravi, relativamente ai quali non è possibile azzardare commenti troppo ottimistici. Uno è quello del debito, che ripropone il problema irrisolto del rapporto dell’Argentina col mondo esterno; l’altro è quello della povertà, che rimanda al fronte interno, a quelle basi sociali che tradizionalmente rappresentarono il bastione del peronismo e per le quali oggi sono in lizza forze distinte di una sinistra che si colloca al di fuori dl sistema, ma che dimostra comunque una sua capacità di mobilitazione. Analizziamo dunque queste tematiche per ordine.

Passiamo innanzitutto rapidamente al vaglio la questione del debito pubblico che è tanto esterna quanto interna, visto che il 50% dei crediti è nelle mani di cittadini argentini proprietari di buoni dello Stato in default. Concentrando la propria opera sugli organismi internazionali di credito, primo fra tutti il Fondo monetario internazionale, e sui creditori esterni, il governo Kirchner ha voluto trasformare il credito in una «causa nazionale». Non c’è dubbio che il paese, soprattutto all’epoca di Menem, rinunciò alla propria dignità sottomettendosi agli ordini impartiti dagli Stati Uniti, tanto da intrattenere con quella nazione ciò che il ministro degli affari esteri della medesima nazione ebbe a definire «rapporti carnali», con tali e tante manifestazioni di deferenza da irritare il Brasile, pregiudicando così la possibilità di fare progressi nella costruzione congiunta del Mercosur. Questo atteggiamento aveva in sé elementi che esorbitavano dai limiti del verosimile, come d’altronde accade, in modo simmetrico, per quello attuale e diametralmente opposto che rivolge una retorica irritante contro i creditori e gli organismi internazionali.

Non c’è dubbio che i negoziati dovranno svolgersi partendo da una posizione di dignità sovrana, ma senza perdere di vista il dato oggettivo che l’Argentina oggi nel mondo altro non è che un paese mendicante, che ha generato un default ingentissimo e senza precedenti nella storia moderna. Kirchner ha bisogno di irrobustire la sua autorità politica e costituire basi di potere proprie, mentre invece esaspera il suo discorso con una retorica populista, invocando una causa nazionale, con il rischio enorme di «malvinizzare» la situazione, e cioè di indurre l’opinione pubblica a credere che in materia di concessioni negoziali il governo possa assumere posizioni assolutamente inamovibili. Questo potrebbe determinare un effetto «boomerang» per l’immagine presidenziale, giacché è molto probabile che si giunga a un momento del negoziato in cui il governo si veda costretto ad ammorbidire la propria posizione e che questo sia quindi interpretato come un passo indietro rispetto alla retorica bellicosa e patriottica con cui oggi si tratta di sollevare l’opinione pubblica.

Il secondo tema è quello della povertà e delle sue conseguenze politiche. Uno dei fenomeni emersi dal crollo della fine del 2001 fu quello sociale, già concretizzatosi con una connotazione provinciale nel periodo intermedio del governo Menem: manifestazioni di piazza, più o meno violente da parte di poveri e disoccupati, riuniti in piquetes, nella città di Buenos Aires e in quella che era la sua periferia industriale. La crisi della società salariale ha sottratto ai sindacalisti il centro della scena (l’antica «colonna vertebrale» del peronismo che mise in scacco il governo Alfonsìn con 13 scioperi generali) per consegnarla ai piqueteros. Questo è l’aspetto per così dire sociale del fenomeno, che però non ha mancato di dar luogo ad alcune derive politiche. Il peronismo tradizionale è stato sostituito alla direzione degli ex lavoratori e dei poveri vecchi e nuovi da piccoli gruppi di una sinistra marginale che hanno trovato in tal modo una maniera eloquente e rumorosa per farsi posto nel panorama politico nazionale, pur senza aver mai superato, dal punto di vista elettorale, il 2 o 3% dei suffragi. Il governo, giustamente, ha scelto di non percorrere la strada della repressione violenta, contando sul fatto che con il passare del tempo si attenui un fenomeno che trasforma le città argentine, e soprattutto Buenos Aires, in caos continuo di gruppi di manifestanti che bloccano il passaggio delle automobili nelle strade cittadine. Le classi medie hanno però già cominciato a dar segni di irritazione e stanchezza nei confronti della situazione e, come già detto in precedenza, le classi medie sono state finora le principali sostenitrici del governo Kirchner. La mancata risoluzione di questo problema potrebbe rappresentare una svolta di grande difficoltà per il presidente e per il suo legame con l’opinione pubblica.

E infine, come inquadrare ideologicamente il gruppo di Kirchner? Il suo operato lo colloca nel «centrosinistra», simile al governo di Lula in Brasile, più radicale del governo Lagos in Cile, meno bellicoso rispetto agli Stati Uniti di Chavez in Venezuela. Ma è anche un governo che mantiene il proprio tratto peronista seppure sbandieri oggi i vessilli della democrazia repubblicana. Il fatto è che il peronismo non è una scienza immobile. Da sessanta anni assume infatti le forme più svariate: il nazionalismo popolare del primo Peròn; la sinistra radicalizzata di Campora nel 1973, la destra terrorista di Isabél Peron e Lopez Rega di poco tempo dopo; l’ultra liberismo di Menem negli anni Novanta. In questa saga Kirchner incarna il riavvicinamento alla fase del 1973 (a cui partecipò in modo marginale), configurando una sorta di neo camporismo senza lotta armata.

Questa onnipresenza del peronismo, in tutte le sue possibili sembianze, costante e mutante al tempo stesso, sembra non aver rivali politici oggi in Argentina, dopo il fiasco del tentativo di creare un’alternativa con l’Alianza del 1999 tra Unión Cívica Radical e Frepaso. La sua potenza deriva dalla sua volontà di accedere al potere, visibile in tutte le sue forme, e nella sua capacità di far convivere al suo interno tendenze antagoniste, fino al punto di costituire un sistema politico in sé, con una destra, una sinistra e un centro.

Kirchner cerca oggi di ampliare ulteriormente questo spettro incorporando nella propria gestione soggetti di punta dei raggruppamenti della sinistra moderata: ha chiamato questa operazione «trasversalità», senza che ciò implichi una pari apertura a una convergenza con altri partiti. Il futuro ci dirà fino a che punto questo presidente sarà in grado di fungere da ponte verso il post peronismo o se rimarrà una mera variante di questo già lungo processo politico.