Enrico Berlinguer e la riforma del comunismo

Di Silvio Pons Martedì 01 Giugno 2004 02:00 Stampa

La figura di Enrico Berlinguer continua a essere oggetto di memoria viva, di polemica pubblicistica, di controversie politiche, mentre un’autentica riflessione storiografica stenta a prendere forma. La conseguenza è che le coordinate della discussione che si svolge oggi attorno al suo ruolo e alla sua eredità si presentano il più delle volte in una piatta continuità con i termini del dibattito politico dell’epoca. Così Berlinguer ha tuttora un suo partito di detrattori, che lo indica come un comunista mai davvero emancipatosi dalla lealtà verso l’«impero del male» sovietico e come un moralista fondamentalmente estraneo e ostile alla modernità italiana, e un suo partito di difensori, che lo vede come il leader che disincagliò il comunismo italiano dalle secche del comunismo internazionale e come uno dei pochi, se non il solo uomo politico italiano del suo tempo in possesso di una nozione della politica fondata su motivazioni etiche.

 

Il pci, l’Europa e l’Unione Sovietica nella tarda guerra fredda

 

La centralità della politica internazionale

La figura di Enrico Berlinguer continua a essere oggetto di memoria viva, di polemica pubblicistica, di controversie politiche, mentre un’autentica riflessione storiografica stenta a prendere forma. La conseguenza è che le coordinate della discussione che si svolge oggi attorno al suo ruolo e alla sua eredità si presentano il più delle volte in una piatta continuità con i termini del dibattito politico dell’epoca. Così Berlinguer ha tuttora un suo partito di detrattori, che lo indica come un comunista mai davvero emancipatosi dalla lealtà verso l’«impero del male» sovietico e come un moralista fondamentalmente estraneo e ostile alla modernità italiana, e un suo partito di difensori, che lo vede come il leader che disincagliò il comunismo italiano dalle secche del comunismo internazionale e come uno dei pochi, se non il solo uomo politico italiano del suo tempo in possesso di una nozione della politica fondata su motivazioni etiche. Persino nella sinistra italiana, come ha osservato Emanuele Macaluso, «c’è chi lo mitizza e chi ritiene che sia meglio dimenticarlo, chi pensa che sia stato il leader della sinistra che più di ogni altro ne ha espresso sentimenti e vocazioni, e chi gli rimprovera di essere stato uno (e non il minore) tra i responsabili di una crisi che inizia proprio dopo la sua scomparsa».1 Questo panorama potrà forse essere un po’ schematico, ma corrisponde alla sostanza delle cose nel dibattito pubblico. Il fatto è che ciascuna delle posizioni sopra menzionate appare povera e inadeguata per avviare una reale collocazione storica della figura di Berlinguer negli anni Settanta e Ottanta. Esse servono soltanto a individuare i dati di partenza per una riflessione storica: la crisi dei partiti di massa, il declino delle principali culture politiche, la questione della modernizzazione italiana e del suo rapporto con l’appartenenza nazionale; la crisi del bipolarismo, il declino dell’Unione Sovietica, il retaggio dell’identità comunista e della sua dimensione internazionale. E insieme, la questione della cultura politica e dell’identità della sinistra italiana.

Sull’aspetto relativo alla vicenda nazionale e a quella della sinistra, gli storici hanno dato vita di recente a quello che appare l’inizio di una seria ricerca, benché presentando giudizi assai diversi tra loro. L’attenzione si è concentrata sugli ultimi anni della vita di Berlinguer, visti come la premessa di una crisi profonda del comunismo italiano nel contesto più generale della crisi della Repubblica.2 L’aspetto internazionale attende invece ancora largamente di essere affrontato, salvo alcuni tentativi di inserire il ruolo del PCI di Berlinguer nella lunga durata dell’epoca della guerra fredda e nelle questioni di politica estera che segnarono la vicenda della repubblica durante gli anni Settanta.3 La trascuratezza verso il lato internazionale della politica di Berlinguer riflette forse un antico vizio della storiografia italiana: ma è soprattutto una conseguenza della tendenza a puntare i riflettori sul dualismo personale tra le figure di Berlinguer e di Craxi, che rischia di riattizzare nella memoria, piuttosto che spiegare storicamente, l’irriducibile tenzone tra due personaggi degni dei «Duellanti» di Conrad. Eppure, una comprensione del ruolo e dell’azione di Berlinguer risulta impossibile se ci si limita alla vicenda nazionale. Una simile affermazione rimanda a un richiamo metodologico, tanto ovvio quanto spesso ignorato nei fatti, da applicare a qualsiasi protagonista della storia repubblicana. Ma non rimanda soltanto a questo. È infatti esistita una specificità di Berlinguer, che ha reso decisivo il suo rapporto con la politica internazionale. La questione non riguarda esclusivamente il graduale distacco dall’Unione Sovietica e la nascita dell’eurocomunismo, che catturò l’attenzione di gran parte degli osservatori dell’epoca: anche se questo tema doveva mantenere una sua centralità fino alla fine, sia nei suoi risvolti positivi sia in quelli negativi. Coniato in sede pubblicistica con l’aspettativa che si rivelasse un fattore di cambiamento nazionale e internazionale, accolto dai comunisti italiani come il termine che ne poteva appropriatamente riassumere l’evoluzione, avversato dai sovietici come un tradimento e una minaccia, liquidato da molti anticomunisti dentro e fuori d’Italia come un’astuta operazione propagandistica, l’eurocomunismo non può essere visto retrospettivamente nella chiave delle relazioni bilaterali nel mondo comunista.4 Berlinguer fu in realtà l’artefice di una politica estera del PCI, senza la quale la proposta del «compromesso storico» non avrebbe avuto sufficiente forza e credibilità, e che assicurò al comunismo italiano una risonanza nel mondo mai possedute in passato e mai più recuperate dopo la sua scomparsa. I cardini di tale politica estera furono la visione della distensione europea come un processo strettamente collegato, ma distinto dalla distensione bipolare e dal dialogo tra le due superpotenze; il lancio di un «europeismo» dei comunisti italiani, sin troppo enfatico circa la necessaria autonomia dell’Europa nella politica internazionale, ma comunque volto a consolidare un giudizio positivo sulle conseguenze economiche e sulle istituzioni dell’integrazione europea, nonché a richiederne un ampliamento politico; il riconoscimento delle alleanze politico-militari dell’Italia e l’idea che un futuro «superamento dei blocchi» potesse nascere soltanto dalla presa d’atto della loro esistenza e dalla ripresa di un ruolo dei soggetti politici europei. Attorno alla formulazione di questa politica, che non rinnegava ma affiancava il tradizionale motivo dell’antiimperialismo, si creò un sostanziale consenso nel gruppo dirigente comunista italiano (salvo una frangia nettamente minoritaria di osservanza filosovietica), destinato a rappresentare anzi il suo principale punto di coagulo e a durare fino alla morte di Berlinguer.5

Più che un’innovazione originale, la politica di Berlinguer ci appare un adeguamento necessario e una liquidazione dei tratti più caduchi della politica comunista nelle relazioni internazionali. La nascita di una propria «politica estera» candidava il PCI a esercitare una funzione di supplenza rispetto alle ambizioni italiane di giocare un ruolo nelle relazioni Est-Ovest, appannatesi sensibilmente all’inizio degli anni Settanta specie a seguito degli orientamenti geopolitici fatti propri dalla presidenza Nixon.6 Il sostegno ai processi di integrazione europea nel contesto della distensione tra i due blocchi costituì il passaggio per un accostamento del PCI all’ispirazione delle forze del socialismo europeo e per la formulazione di un’appropriata visione dell’interesse nazionale, convergente con quella delle forze di governo.7 La conversione europeista del PCI ebbe così significato sotto il profilo di una ridefinizione del ruolo internazionale del partito, indispensabile nel momento in cui questo si trovò sulla soglia del governo del paese, durante l’esperienza dei governi di «unità nazionale» dal 1976 al 1979.

Tale ridefinizione presentava un significato più generale, destinato a investire il rapporto con la tradizione. Berlinguer governò il PCI in una chiave che invocava il solco della continuità con Togliatti, ma che implicava anche un cambiamento: non più la giustapposizione tra una peculiare «via nazionale» e l’ancoraggio internazionale ai princìpi e alle appartenenze tradizionali, ma la ricomposizione di un ruolo in grado di combinare l’elemento nazionale e quello internazionale, modificando soprattutto il secondo. Egli non prese soltanto atto della collocazione dei comunisti italiani nel mondo occidentale. Si pose il problema di offrire una risposta dei comunisti alla crisi e alle emergenze dell’Italia negli anni Settanta, integrando il quadro politico della democrazia italiana, quale aspetto di un cambiamento più generale della politica europea dopo la fase acuta della guerra fredda. Lo fece nella persuasione di difendere e di utilizzare una legittimazione che il PCI già aveva acquisito nella propria storia, senza poterla esercitare: una persuasione che evidentemente riduceva di molto la portata stessa della questione e rivelava una contraddizione intrinseca. Ma si dimostrò nondimeno consapevole che il comunismo occidentale non poteva eludere una revisione, se voleva sopravvivere alla perdita di rilevanza del comunismo sovietico e alla crescente percezione negativa del «socialismo reale» nelle giovani generazioni. Per questo la politica estera divenne parte qualificante del progetto politico di Berlinguer, e nello stesso tempo le circostanze internazionali dell’epoca incisero in modo particolare sui caratteri e sugli esiti della sua azione politica.8

È questo il contesto necessario per comprendere il rapporto tra la nuova politica del PCI e l’eredità del legame ideologico, organizzativo e finanziario con l’URSS. Non avrebbe alcun senso storico ignorare il peso enorme rappresentato dal legame con l’URSS quale momento costitutivo del PCI, rifondato nella seconda guerra mondiale tramite l’identità antifascista allora acquisita dal comunismo. Con questo lascito di Togliatti, Berlinguer dovette per forza fare i conti, e tale opera lo accompagnò fino alla fine. Diversamente da quanto viene frequentemente sostenuto nelle versioni contrapposte che ancora dominano il discorso pubblico, Berlinguer non si limitò a gestire con sapienti dosaggi tattici un rapporto sostanzialmente identico al passato, ma non ne operò neppure una rescissione chiara e definitiva. Benché il legame con l’URSS non fosse più quello diretto e forte dell’epoca togliattiana, esso rivelò una sua persistenza. Fu un legame debole. La sua influenza va letta alla luce di un carattere residuale, ma non per questo marginale e privo di significato. Proprio in ragione della sua residualità mai risolta, il legame con il comunismo sovietico interagì fino alla fine con le scelte, gli orientamenti, la cultura, l’immagine e le percezioni del comunismo italiano nel contesto nazionale e internazionale. Sarebbe arbitrario e ingiusto ridurre a questo la politica di Berlinguer: ma senza tenere conto di tale interazione, essa risulta letteralmente incomprensibile.9

 

Europa e distensione

Le tappe dell’emergere di questa politica sono ben delineate, ma occorre evidenziarne i nessi. Il primo è costituito dal sincronismo che si stabilì alla fine degli anni Sessanta tra il dissenso manifestato dai comunisti italiani dinanzi all’invasione sovietica della Cecoslovacchia e il loro sostegno alla Ostpolitik di Willy Brandt: ciò configurava un primo tentativo di revisione dell’«internazionalismo» comunista, destinato a restare patrimonio esclusivo del PCI.10 Negli anni successivi questo nesso originario non venne perduto e anzi si consolidò con la leadership di Berlinguer. Perciò la difesa della «primavera di Praga» da parte dei comunisti italiani non si ridusse a un episodio destinato a rientrare, come nel caso dei comunisti francesi: si legò a una scelta politica, che liquidava l’appartenenza incondizionata del PCI al «campo socialista» e faceva propria la distensione come terreno privilegiato della propria azione internazionale e come cornice per un cambiamento politico in Europa. Sotto questo profilo, i comunisti italiani assunsero tutta l’ambivalenza della Ostpolitik: il rifiuto della dottrina sovietica della sovranità limitata nell’Europa centro-orientale (la «dottrina Brezhnev») si accompagnava al riconoscimento della legittimità della sfera d’influenza sovietica, che portò tra l’altro a prendere atto della «normalizzazione» in Cecoslovacchia, e all’auspicio di un cambiamento interno promosso esclusivamente dalle classi dirigenti comuniste.11 Nel caso del PCI, l’ambiguità era ovviamente ancora più pronunciata per una serie di motivi che ne distinguevano le posizioni da quelle dei socialdemocratici tedeschi: l’incapacità di riconoscere che il dissenso sull’invasione della Cecoslovacchia avrebbe richiesto una revisione dell’allineamento filo-sovietico adottato all’epoca dell’invasione dell’Ungheria nel 1956; l’influenza dell’anti-atlantismo, che per il momento non conobbe soluzione di continuità e fu invece alimentato nel popolo comunista dall’opposizione alla guerra del Vietnam; il concepire la propria ragion d’essere non solo come una delle forze politiche favorevoli alla distensione in Europa, ma come una forza investita della specifica missione di costruire un ponte tra Est e Ovest, per la propria appartenenza al comunismo internazionale. Tutte queste ambivalenze condizionarono la politica di Berlinguer, e non tutte dovevano essere sciolte. Sta di fatto che egli non liquidò mai il nesso tra la difesa del «socialismo dal volto umano» e l’orientamento verso la distensione europea.

Il secondo nesso è costituito dall’interdipendenza tra la scelta del PCI in favore dell’integrazione europea e il tentativo di costruire un polo comunista occidentale. Si tratta di un duplice elemento che affiorò alla fine degli anni Sessanta, sull’impatto della repressione della «primavera di Praga», ma che venne davvero sviluppato soltanto all’indomani dei primi risultati tangibili della distensione (gli accordi sugli armamenti tra Stati Uniti e Unione Sovietica del 1972; i trattati tra Repubblica Federale Tedesca, Repubblica Democratica Tedesca e Unione Sovietica del 1970 e 1972) e dopo l’allargamento della CEE a nove membri (1972). Una revisione dell’originario giudizio negativo del PCI sulla Comunità europea e sulle sue conseguenze per l’Italia era stata avviata prima ancora del 1968. La realistica presa d’atto che l’adesione alla Comunità europea aveva invece favorito lo sviluppo economico italiano cedette gradualmente il passo a un giudizio positivo, e le parole d’ordine anti-monopolistiche furono sostituite dall’opzione per una democratizzazione politica delle istituzioni comunitarie.12 Tutto ciò finì per fare del PCI nei primi anni Settanta, da un late comer, una forza legittima dell’europeismo italiano, che contribuiva a orientare in questo senso fette importanti dell’opinione pubblica nazionale. Il nuovo «europeismo» del PCI provocò a sua volta una sterzata verso il tentativo di aggregare i comunisti occidentali. Le suggestioni emerse nel 1968 in questo senso, ispirate al «policentrismo» togliattiano, furono concretizzate da Berlinguer in una proposta politica rivolta anzitutto al Partito comunista francese, l’unico significativo partito comunista occidentale oltre al PCI. Attorno alla metà del decennio, la politica promossa dai comunisti italiani dette così luogo al fenomeno dell’eurocomunismo, ufficialmente lanciato da Berlinguer, Marchais e Carrillo nel 1977.13 Anche in questo caso, non è difficile rimarcare una fondamentale ambivalenza: soltanto per i comunisti italiani, infatti, questo termine alludeva sia all’ideale di un socialismo occidentale nella democrazia, sia a una scelta europeista; così non era per i francesi, alquanto più erratici, legati a una concezione tradizionale della sovranità nazionale, e soggetti al condizionamento del filosovietismo.14 Ciò compromise sin dall’inizio la possibilità che l’eurocomunismo divenisse un autentico movimento politico. Fu piuttosto un’invenzione dei comunisti italiani, e come tale ne enfatizzò il ruolo politico, occultandone però il sostanziale isolamento internazionale: le inconsistenti alleanze con i comunisti occidentali non potevano certo sostituire il vecchio asse con il comunismo sovietico, ormai relegato nel passato, mentre i rapporti con le socialdemocrazie erano ancora limitati, e soprattutto privi della volontà politica di un’integrazione dei comunisti italiani nel socialismo europeo.

Il terzo nesso è costituito dal tentativo di rimuovere la contraddizione tra europeismo e anti-atlantismo, che venne operato da Berlinguer tra il 1973 e il 1976. Secondo una successione che evidenzia la consapevole ricerca di una maggiore coerenza politica, Berlinguer coniò prima la formula dell’Europa «né antisovietica, né antiamericana» (gennaio 1973), poi dichiarò che il PCI rinunciava a chiedere la fuoriuscita dell’Italia dalle sue alleanze politico-militari (dicembre 1974), infine sostenne che anche la prospettiva del socialismo in occidente, perseguita dal PCI, fosse meno a rischio nel contesto della NATO di quanto lo sarebbe stata sotto il Patto di Varsavia (giugno 1976). In altre parole, Berlinguer giunse a esprimere un giudizio cautamente positivo sulle alleanze politico-militari dell’Italia. Ciò non valse a modificare l’estrema diffidenza nutrita da Henry Kissinger (ma anche dai principali governanti europei) all’indirizzo del comunismo italiano, visto alternativamente come una variante tattica del comunismo sovietico o come un fenomeno autonomo e a maggior ragione inaffidabile.15 Fu però la premessa per la partecipazione del PCI all’esperienza dell’«unità nazionale», e in particolare per il voto comune sulla politica estera italiana espresso dal parlamento nel novembre 1977. A questo punto, l’europeismo comunista non soffriva più della poco credibile distinzione tra Comunità europea e NATO, ancora viva alla fine degli anni Sessanta: questa deve anzi essere considerata una delle principali acquisizioni della leadership di Berlinguer.16 Tuttavia, il PCI mantenne l’ambizione di seguire una linea in grado di differenziarsi dalle altre forze politiche nazionali e da quelle della sinistra europea. Ciò si verificò, in particolare, dinanzi alla crisi interna dell’«unità nazionale» e alla crisi conclamata della distensione internazionale nel 1978-79.17 Ne fu un esempio la scelta di fare opposizione all’istituzione del serpente monetario europeo, ma soprattutto la scelta compiuta al momento della crisi degli euromissili, che contestava la decisione occidentale dell’installazione senza abiurare le posizioni espresse sull’appartenenza dell’Italia alla NATO.18 Questi ci appaiono i segni di una concezione che mentre disegnava i contorni di una politica estera autonoma, finiva anche per correre il rischio dell’isolamento e del velleitarismo.

 

Né ortodossia, né eresia

Se i tre nessi appena descritti costituiscono il cuore della politica estera di Berlinguer, ciascuno di essi rimanda all’eredità del legame con l’Unione Sovietica. Berlinguer non fu l’unico leader comunista occidentale ad avanzare una limitata critica del modello sovietico, compendiata nella modesta condanna dei «tratti illiberali» del regime: altri comunisti occidentali, come Santiago Carrillo, si spinsero oltre, almeno sul piano delle affermazioni.19 Tuttavia Berlinguer realizzò un distacco del principale partito comunista occidentale dal «campo socialista», il sistema di relazioni transanazionali dominato dalla politica di potenza di Mosca e dalla sua cornice ideologica. Benché ferma nei toni, anche sul piano riservato, l’iniziale polemica del PCI contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia non era necessariamente destinata a produrre questo esito. Longo e gli altri massimi dirigenti del PCI (a cominciare dallo stesso Berlinguer) si attestarono su una posizione di difesa delle proprie ragioni, ma anche volta a evitare ogni rottura con l’URSS. Divenuto segretario generale, Berlinguer doveva restare fedele a questa linea, che si potrebbe riassumere nella formula «né ortodossia, né eresia». Ma fu la sua azione politica a evitare che la ricucitura post-Cecoslovacchia si rivelasse un ritorno alla casa madre, come era nelle aspettative dei sovietici. Egli spostò per una parte essenziale gli elementi costitutivi del legame con l’URSS dal momento della fedeltà ideologica a quello dell’orientamento politico. Così facendo, mantenne una consonanza con la politica favorevole alla distensione propugnata da Brezhnev, ma sviluppò una concezione diversa e anche conflittuale con quella sovietica.

Il nesso tra la difesa della «primavera di Praga» e la distensione europea implicava un rovesciamento della visione politica sovietica, incentrata all’opposto sull’idea che proprio la repressione delle tendenze centrifughe nella propria sfera d’influenza costituisse la condizione primaria per la distensione bipolare. I sovietici non assegnavano alla distensione alcun significato per un cambiamento politico in Europa, ma soltanto per una stabilizzazione e una reciproca legittimazione tra i blocchi: il contrario di quanto era nelle aspettative e negli interessi sia dei socialdemocratici tedeschi, sia dei comunisti italiani.20 In più, la stessa associazione tra il messaggio di una concezione dinamica della distensione europea e quello di una compiuta conquista ai principi della democrazia, non poteva non essere visto da Mosca come un’autentica minaccia al proprio dominio nell’Europa centro-orientale. Per questo motivo, la vera radice politica della separazione tra il PCI di Berlinguer e l’URSS fu l’europeismo dei comunisti italiani e il suo corollario della costruzione di un polo comunista occidentale. Non fu tanto la rimozione dell’anti-atlantismo dalle posizioni dei comunisti italiani a preoccupare i sovietici, quanto il suo inserimento in una concezione che vedeva nella distensione un processo di cambiamento politico, e non soltanto di riconoscimento dei blocchi. L’europeismo del PCI presentava ai loro occhi l’aspetto di un possibile scisma gravido di pericoli non soltanto perché mostrava la perdita della residua influenza che Mosca ambiva a esercitare in Europa occidentale, ma soprattutto perché prefigurava un’incontrollabile modifica degli assetti politici, fuori dagli schemi preordinati della guerra fredda, e una probabile attrazione sui paesi satellite di Mosca nell’Europa centro-orientale.

Alla prova dell’ingresso del PCI nella sfera governativa, i sovietici dovettero prendere atto che la leadership di Berlinguer non consentiva loro di esercitare un’influenza su questo partito e perciò sulla situazione italiana, come tassello di quella europea occidentale; che l’evoluzione politica del PCI non era una manovra reversibile, ma invece una genuina trasformazione di questo partito; che, in particolare, né l’europeismo, né l’eurocomunismo, né la critica della repressione nei paesi dell’Est, costituivano aspetti transitori ed erano invece espressione della cultura politica del gruppo dirigente italiano. Infine ne trassero le conseguenze. La diffidenza da sempre nutrita verso Berlinguer generò una vera e propria ostilità. Le relazioni con il PCI si deteriorarono definitivamente a causa della rabbiosa reazione dell’Unione Sovietica alla crisi della distensione bipolare, largamente provocata dagli stessi sovietici sia ignorando i dettami di Helsinki sui diritti umani, sia dispiegando una nuova generazione dei missili di teatro in Europa, verosimilmente con l’obiettivo di impiegarli quale strumento di condizionamento. Fu allora che emerse una vera e propria aggressività di Mosca all’indirizzo del PCI, anche se ancora non manifesta pubblicamente. L’attacco portato a Berlinguer da Brezhnev, Suslov e Ponomarev nel 1977-78 equivalse a una richiesta di rimettersi in riga, di abbandonare l’eurocomunismo e di liquidare tutte le principali posizioni di politica estera fatte proprie dai comunisti italiani. Tale diktat venne del tutto disatteso da Berlinguer, e l’episodio ci appare, retrospettivamente, il punto di svolta e di non ritorno nelle relazioni tra le due parti.21 Risale ad allora sia la definitiva scelta di Berlinguer di rinunciare al finanziamento diretto dell’URSS,22 sia il tentativo dei sovietici di dare vita a una campagna di discredito nei suoi confronti, preludio di una possibile scissione del partito.23 Così l’ostilità di Mosca verso le prospettive di governo del PCI non si dimostrò inferiore a quella di Washington: fu anzi un fattore convergente con il veto americano a qualunque ipotesi di questo genere, rivelando il comune timore che l’eurocomunismo indebolisse la chiara divisione dei confini geopolitici in Europa.24

I cruciali accadimenti internazionali verificatisi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo costituirono il test fondamentale della separazione del comunismo italiano da quello sovietico. Berlinguer reagì con coerenza prima all’invasione dell’Afghanistan e poi alla crisi provocata dalla nascita di un movimento sindacale libero in Polonia. Egli non dette alcun credito agli atteggiamenti autogiustificatori dei sovietici, che anche nel caso della Polonia fecero appello al decrepito argomento già usato a proposito del dissenso nei paesi dell’Est e in Unione Sovietica, l’infiltrazione e l’azione di elementi alieni. Al contrario, Berlinguer criticò la politica di potenza sovietica e la propensione all’impiego di una risposta autoritaria, già evidente ben prima del colpo di Stato del generale Jaruzelski. Al momento del golpe militare, nel dicembre 1981, la sua dura condanna gli procurò il primo attacco pubblico da parte sovietica, che aveva tutto l’aspetto di una scomunica e passò alle cronache come lo «strappo» tra il PCI e l’URSS, conseguenza logica e ultima dell’eurocomunismo. Così il patrimonio autonomo accumulato dal PCI nel decennio precedente mostrò tutta la sua consistenza: la fine della distensione non provocò in alcun modo un ripiegamento verso gli schieramenti e le appartenenze tradizionali, e invece coincise con la più netta presa di distanza del comunismo italiano da quello sovietico. Il congelamento delle relazioni con Mosca segnò la politica estera dell’ultimo Berlinguer.

 

L’imperativo identitario

Tuttavia, la trama delle relazioni tra il PCI di Berlinguer e l’URSS deve essere letta anche in controluce. Essa non narra soltanto la storia di una separazione, ma anche quella di un divorzio mancato. Malgrado la consapevolezza della potenziale conflittualità delle posizioni assunte dal PCI nella politica internazionale sin dalla metà degli anni Settanta, e persino la constatazione della sostanziale incomunicabilità con i sovietici, Berlinguer evitò sempre di enfatizzare il momento del conflitto non soltanto in pubblico, ma anche negli incontri riservati e nelle sue relazioni alla direzione del partito. Il caso delle posizioni del PCI sul dissenso democratico all’Est è al riguardo emblematico: Berlinguer ne difese con fermezza i diritti di espressione sia in occasioni pubbliche che private, ma non giunse mai a sostenerne la causa senza riserve, neppure quando in Polonia dilagò il movimento di Solidarnosc. Le ragioni di questa diplomatizzazione della politica sono probabilmente più di una. Berlinguer rimase fedele al principio della «unità nella diversità», enunciato da Togliatti, nella convinzione che provocare una nuova rottura nel movimento comunista internazionale avrebbe compromesso le chance in possesso dei comunisti italiani al fine di esercitare un’influenza politica e culturale in favore di un cambiamento degli altri partiti, compreso quello sovietico, senza per questo migliorarne le posizioni nella società nazionale. Può essere opportuno ricordare che il consenso del gruppo dirigente attorno alla sua politica estera presupponeva e implicava precisamente un simile atteggiamento verso l’URSS. Ma molto probabilmente fu nelle corde dello stesso Berlinguer, fino alla fine, l’idea che una rottura con Mosca avrebbe costituito un passo falso, indebolendo il ruolo e l’identità del comunismo italiano. L’attaccamento a questa idea comportava un prezzo molto alto da pagare. Il distanziamento dai sovietici fu infatti sufficiente a provocare una loro reazione sempre più intransigente, ispirata da una mentalità dogmatica; non fu invece sufficiente a dissipare, se non con estrema lentezza, la diffidenza storica dei possibili nuovi alleati, le forze della sinistra europea; né fu adeguato a privare gli avversari interni e internazionali del PCI degli argomenti volti a negarne una legittimazione a governare. D’altro lato, l’aspettativa di contribuire a cambiare il comunismo sovietico, o almeno a modificare gli atteggiamenti repressivi del regime fuori e dentro l’URSS, nonché la sua rigida condotta nei negoziati sugli armamenti, venne costantemente disattesa: finché Berlinguer fu in vita, i leader sovietici non mostrarono alcuna sensibilità né verso la sua ispirazione politica, né verso specifiche posizioni del PCI. Anche la sua ultima battaglia politica, rivolta a svolgere una mediazione con Mosca sulla questione degli euromissili, si risolse in un nulla di fatto: né si vede come potesse essere diversamente, dato l’inquietante arroccamento sovietico del dopo Brezhnev.25 In altre parole, è molto difficile comprendere la linea «né ortodossia, né eresia», che accompagnò Berlinguer fino alla fine, in termini di redditività politica. Oggi ci appare chiaro che essa fu un principio negativo, prevalentemente fondato sul timore di traumi ed emorragie, il cui eventuale impatto era però aleatorio e tutto da dimostrare, specie dalla metà degli anni Settanta in avanti.

Dobbiamo allora chiederci se in Berlinguer non giocò seriamente il condizionamento di un riflesso d’appartenenza. La radice principale della difficoltà di Berlinguer di fare i conti fino in fondo con l’eredità del legame sovietico e con le compatibilità del sistema della guerra fredda va indicata nella necessità di mettere un argine alla trasformazione dell’identità del PCI e di evitare una sua «socialdemocratizzazione »: il medesimo motivo per cui la prospettiva di politica interna fatta propria da Berlinguer sembrava essere esclusivamente quella della conservazione istituzionale e della coalizione di governo, non quella dell’alternanza.26 Di qui l’oscillazione tra il «superamento dei blocchi» e il loro riconoscimento, tra il riferimento alla politica estera dell’URSS e il tentativo di realizzare un diverso posizionamento, tra identità e realismo, che continuò a costituire il dato centrale della politica internazionale di Berlinguer. Il consenso del gruppo dirigente del PCI attorno alla politica estera di Berlinguer nascose sempre una sostanziale divisione tra i fautori del realismo, propensi a concepire gli orientamenti internazionali come atti in gran parte svincolati da ogni altro principio che non fosse quello dell’interesse nazionale e insieme di partito, e i fautori dell’identità, volti a collocare quegli orientamenti entro una ridefinizione delle idealità iscritte nella costituzione materiale del partito, salvando l’essenziale del loro lascito storico. Da un lato, la ricerca di una deideologizzazione nella formulazione della politica, che affidava implicitamente il compito della revisione culturale all’opera e alla qualità della politica stessa; dall’altro, l’enfasi sulla missione storica ed egemonica del comunismo italiano, che puntava a plasmare un nuovo rapporto tra la tradizione e il rinnovamento come condizione per l’elaborazione della politica. Berlinguer unificò queste due componenti, ma non giunse a farne una sintesi. Il momento di più elevata conciliazione fu realizzato alla metà degli anni Settanta, quando egli pose in gran parte fine alla scissione tra europeismo e atlantismo, seguendo un’inconfondibile ispirazione realista, e nello stesso tempo pronunciò due sermoni eurocomunisti dinanzi a una audience sovietica e filosovietica a Mosca e a Berlino, esibendo la propria inclinazione a proporsi come un riformatore del comunismo.27

Ma un simile equilibrio tra realismo e identità doveva rivelarsi transitorio e insostenibile. L’elemento identitario erose gradualmente il terreno del realismo politico e acquisì un primato, significativamente, al momento del massimo isolamento interno e internazionale del PCI, dal 1979 in avanti. Il paradigma della «terza via» tra socialdemocrazia e socialismo reale, lanciato allora da Berlinguer, appare indicativo proprio di una strategia identitaria, assai più che di una strategia politica. La sua funzione fu di dare dignità ideale al crescente restringimento dello spazio nazionale del PCI, posto entro la cornice autoreferenziale di una presunta «diversità» e di un giudizio in chiave morale sugli altri partiti politici. L’appello etico di Berlinguer aveva un innegabile fondamento nell’Italia dell’epoca. Ma la sua combinazione con una strategia identitaria finì per costituire un improprio fattore sostitutivo della politica, privo dell’efficacia che gli orientamenti del PCI avevano dimostrato, con tutti i loro limiti, pochi anni prima.

Ciò vale anche per la politica internazionale. Nei primi anni Ottanta la convergenza del PCI verso le posizioni di Brandt, Palme e Kreisky attorno al tema del rapporto Nord-Sud, alle questioni della sicurezza europea e all’ispirazione pacifista non ebbe carattere effimero. Ma non venne vista da Berlinguer come l’occasione per dare vita a un nuovo progetto sulle ceneri dell’eurocomunismo, mai davvero decollato. La rivendicazione di alterità valeva anche e soprattutto nei confronti delle socialdemocrazie: in questo senso, il lascito dell’eurocomunismo presentava il volto ambiguo di un presupposto all’integrazione del PCI nella sinistra europea, come venne presentato a posteriori dai successori di Berlinguer, ma anche di un impedimento che teneva fermo l’anatema contro ogni «socialdemocratizzazione» e consegnava agli avversari politici uno strumento di esclusione.28 È altrettanto evidente che tale opzione finì per amplificare le ambivalenze politiche dei comunisti italiani: il «nuovo internazionalismo» del PCI non era più organico al «campo socialista», ma finì per posizionarsi in una «terra di nessuno» priva di solidi legami e riferimenti. Molto probabilmente come riflesso di questa situazione, il «nuovo internazionalismo» finì per assomigliare molto al vecchio. Questo non era vero nelle relazioni con il mondo comunista, che registrarono anzi la ripresa dei rapporti con i comunisti cinesi, la principale bestia nera di Mosca. Ma era vero nel persistente motivo anti-imperialista, che si manifestò, in particolare, tramite il rilancio del terzomondismo, anzitutto verso l’America Latina, e le prese di posizione decisamente identificate con la causa palestinese, assunte dal PCI sulla questione medio-orientale.29

In realtà, gli elementi distintivi della politica internazionale di Berlinguer erano stati formulati negli anni precedenti, e sarebbe vano cercare ulteriori innovazioni all’inizio degli anni Ottanta. È indicativo che mentre nel 1976, quando sostenne di sentirsi più sicuro all’Ovest che all’Est, Berlinguer si rivolse all’opinione pubblica nazionale, nel 1981, quando dichiarò che la «capacità propulsiva» delle società dell’Est europeo si era esaurita, egli si rivolse in realtà a un’opinione di partito, usando un argomento scarsamente rilevante persino per gran parte del proprio elettorato. Poco prima, alla ricerca di simbologie idonee ad assorbire la sconfitta, Berlinguer aveva lanciato lo slogan di una «seconda svolta di Salerno»: ma questa differiva dalla prima per almeno un elemento decisivo, l’assenza di una sponda internazionale per la politica dei comunisti italiani.

L’assunto fondamentale della politica di Berlinguer sin dalla formulazione della proposta del «compromesso storico» ci appare segnato da un rapporto con la tradizione che finiva per eludere parte essenziale della realtà internazionale degli anni Settanta, pur intuendone le potenzialità di mutamento: vale a dire, l’idea che il possibile cambiamento politico legato alla distensione europea dovesse essere inteso come un ripristino del sistema internazionale della coalizione antifascista, in vigore nei pochi anni di transizione dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio della guerra fredda. Se ciò fosse stato vero, si sarebbe conseguentemente creata una coerenza tra il sistema internazionale e la nascita di governi di coalizione analoghi, nelle loro componenti politiche principali, a quelli dell’epoca. In altre parole, la reciproca legittimazione tra i due blocchi avrebbe sgombrato il terreno dalla questione della legittimità dei comunisti a governare un paese occidentale come l’Italia, ripristinando una situazione originaria che era stata alterata dalla guerra fredda. Tale ottica non presentava soltanto una concezione per molti aspetti mitica dell’epoca della coalizione antifascista del 1944-47. Sottovalutava il problema della legittimazione a governare, considerandolo soltanto un espediente creato artificiosamente dalle classi dirigenti occidentali. E rivelava un’incomprensione degli autentici caratteri della distensione. Vincoli e compatibilità restavano dominanti nel sistema bipolare anche nel momento in cui questo cominciava a conoscere una crisi e una trasformazione. Dal punto di vista delle due superpotenze, la distensione fu anzi una risposta alle forze di movimento che agitavano le acque della politica e delle società europee alla fine degli anni Sessanta: uno strumento diplomatico rivolto a stabilizzare e assestare il sistema della guerra fredda, non a modificarne sostanzialmente il profilo.30

 

Realtà e illusioni del comunismo riformatore

Il punto qui è che la deriva identitaria del PCI non ebbe le sue radici soltanto in una sconfitta politica, segnata dalla sua mancata assunzione di piene responsabilità di governo, dal permanere dei vincoli del sistema bipolare e dalla fine dell’esperienza di «unità nazionale», ma anche nel venire al pettine di contraddizioni e di nodi irrisolti nella sua cultura politica. Non è paradossale che la questione riguardi, prima ancora della politica nazionale, la politica internazionale del PCI: quella che Berlinguer si era più impegnato a modificare e che era stata anzi la sua carta principale. Sul piano nazionale, la risposta del PCI alla crisi sociale ed economica del paese, e in particolare all’emergenza terroristica, non fu molto diversa da quella di alcune socialdemocrazie europee: soprattutto dal punto di vista dell’identificazione con le istituzioni e della difesa dello Stato.31 Sul piano internazionale, la visione del PCI continuava invece a essere sorretta da assiomi che impedivano una convergenza strategica con le principali forze della sinistra europea.32 Restava anzitutto profondo un pregiudizio negativo sulla politica americana, confrontata con quella sovietica, che fu anzi acuito dal rilancio ideologico in chiave anti-totalitaria del presidente Reagan. I comunisti italiani non riconobbero la minaccia di fatto rappresentata dall’Unione Sovietica alla sicurezza dell’Europa occidentale, e la loro critica della «politica di potenza» sovietica mantenne un distinzione di qualità da quella rivolta all’«imperialismo» americano. Essi attribuirono acriticamente agli Stati Uniti tutte le responsabilità della fine della distensione, in continuità con il loro stesso giudizio espresso sulle cause della guerra fredda, ampiamente assolutorio nei confronti dell’Unione Sovietica. Anche la valutazione, apparentemente realistica e disincantata, che assegnava all’URSS prevalentemente la funzione di un contrappeso all’egemonia americana negli affari internazionali celava in realtà un analogo pregiudizio, segnato da un persistente anti-americanismo.33

Ma il dato principale è che tale valutazione non esauriva affatto la percezione del «socialismo reale» presso il gruppo dirigente del PCI. Ormai sgretolati i pilastri del mito sovietico, a cominciare da quello della «superiorità» intrinseca del sistema sovietico su quello capitalistico, la cultura politica del PCI continuò a nutrirsi di aspettative, sia pure ridimensionate, verso l’Unione Sovietica. Se non era più la realtà del comunismo sovietico a costituire un riferimento, lo era l’idea di un suo potenziale inespresso, che per potersi dispiegare richiedeva una riforma. I comunisti italiani pensarono questa riforma come un processo più generale, nel quale sarebbe stato il comunismo occidentale a promuovere un nuovo socialismo europeo e ad assumere così una funzione di leadership nei confronti dell’arretrata esperienza sovietica: rovesciando le antiche gerarchie e garantendo il futuro di quella stessa esperienza, secondo un classico schema storicistico. La riforma del comunismo sovietico doveva essere concepita sia come il presupposto per un consolidamento della sicurezza e della pace europea, sia come un passaggio essenziale ai fini ideali del socialismo, in quanto il «socialismo reale» avrebbe comunque presentato una sua dignità in chiave anticapitalistica e anticonsumistica, specie dinanzi al protrarsi della crisi del sistema occidentale. Questa intera argomentazione venne formulata nel modo più chiaro in una corrispondenza riservata dal più stretto collaboratore di Berlinguer, Antonio Tatò, ancora all’epoca del colpo di Stato in Polonia: e non c’è motivo di pensare che, salvo sfumature di maggiore o minore fiducia, essa non fosse condivisa nella sostanza dal segretario generale.34 È anzi visibile qui l’influenza esercitata su Berlinguer da un pensiero di estrazione cattolica, riconducibile soprattutto alla figura di Franco Rodano, che si caratterizzava per un’ideologia visionaria della rivoluzione in occidente e per una nozione ipertrofica della missione del comunismo italiano: entrambe rivolte a presentare il «caso italiano», invece che come un’anomalia, come una testa di ponte per immaginari scenari di trasformazione epocale dell’Europa e del mondo. Implicita in una simile visione era anche una lettura della crisi economica capitalistica degli anni Settanta ancora impregnata di catastrofismo, che ignorava la nozione delle trasformazioni post-fordiste in atto nelle economie occidentali. Mentre l’aspettativa che si aprisse un nuovo corso di riforme nel socialismo reale diveniva una fede nella sua «riformabilità», e implicava un giudizio inadeguato circa la natura del sistema sovietico, il suo portato totalitario, la profondità della sua crisi.

La prospettiva del comunismo riformatore, fatta propria da Berlinguer, non era priva di una seria motivazione. La matrice comunista sovietica aveva generato nel corso del secolo tendenze assai diverse tra loro in diverse aree del mondo. Il carattere unitario del fenomeno era stato messo in discussione da rotture ideologiche e nazionali, prima fra tutte quella tra Unione Sovietica e Cina. In Europa si erano manifestati timidi tentativi di modifica dei caratteri più repressivi ed elitari del comunismo al potere, speculari all’azione di quei partiti che, nella parte occidentale del continente, erano stati in grado di impiantare radici di massa e si erano dovuti adeguare alle regole del gioco di una civiltà liberale e democratica: un compito che il PCI aveva assolto meglio degli altri. La «primavera di Praga» costituì un momento storico di evoluzione e di riconoscimento tra le tendenze che aspiravano a un cambiamento, e l’ingresso dei carri armati sovietici in Cecoslovacchia fornì loro un’identità, sia pure tenue e minoritaria. La frustrazione per la repressione delle riforme di Dubček fu sensibile, ma non impedì che la «primavera» venisse elevata al rango di un modello. Nel contempo, il declino dell’immagine del comunismo sovietico in Europa divenne rapidamente un elemento di senso comune sulla spinta degli eventi e dei movimenti del 1968 all’Est e all’Ovest.

Berlinguer esercitò la propria azione politica in un mondo in cui non era più possibile predicare semplicemente il valore dell’unità del movimento comunista e affidarsi all’idea di una sua forza espansiva, come aveva fatto Togliatti nel Memoriale di Yalta. Egli avvertì che la tradizione comunista si confrontava ormai con un dilemma identitario e ritenne che quella tradizione fosse dotata delle risorse politiche e culturali per farvi fronte.

Non tutto era wishful thinking in questa visione, ma in gran parte doveva rivelarsi tale. Poco dopo la morte di Berlinguer, l’avvento al potere di Gorbaciov in Unione Sovietica rivelò la presenza di aspirazioni riformatrici soggettivamente esistenti nel mondo comunista e riscattò a posteriori le speranze che i comunisti italiani avevano a lungo nutrito, di stimolare idee di cambiamento nelle classi dirigenti dell’Europa centro-orientale e dell’URSS. A lungo relegate ai margini, le tendenze volte a contestare le categorie e le concezioni tradizionali della politica estera sovietica si insediarono al centro della sfera politica sovietica.35 Sotto questo profilo, l’eurocomunismo del PCI ci appare uno dei fattori che contribuirono a modificare l’ambiente della guerra fredda in Europa, contestando un rigido ordine dicotomico che non corrispondeva più alla realtà delle cose e che era divenuto un baluardo del comunismo sovietico. Ciò significa che il messaggio politico lanciato dall’eurocomunismo fu parte di quel complesso di soggetti e di eventi che ebbero un ruolo attivo nel porre fine alla guerra fredda.36

Tuttavia questo ruolo scontò anche un limite preciso. L’esperienza della perestroijka doveva soprattutto gettare luce sull’inadeguatezza delle risorse politiche e culturali per un’autoriforma del comunismo, che finì per segnare il destino fallimentare del gruppo riformatore sovietico. Espressione di un’aspirazione trasversale nel mondo comunista, compresa l’URSS, la ricerca di un «socialismo dal volto umano» si rivelò un punto di non ritorno, ma anche un fattore di destabilizzazione.37 Gorbaciov non fu in grado di offrire una convincente narrazione delle radici e delle basi di una riforma del comunismo e del sistema sovietico: proprio in quanto egli tentò di porsi all’altezza di un vero cambiamento, e non di realizzare un’operazione trasformistica, il suo discorso politico finì piuttosto per suggerire un’autocritica radicale, e infine autodistruttiva.38

Le illusioni e le aporie del comunismo riformatore potevano già essere colte quando Berlinguer era in vita. All’inizio degli anni Ottanta, l’emergere di un movimento antisistemico di massa in Polonia mostrò che il tempo storico delle «riforme dall’alto» promosse dalle classi dirigenti dell’Est rischiava di scadere prima ancora di essere davvero arrivato e fornì il modello di un cambiamento «dal basso» che avrebbe caratterizzato le «rivoluzioni di velluto» alla fine del decennio.39 Nell’altra metà del continente, l’eurocomunismo non aveva fatto proseliti e la sua spinta propulsiva si era esaurita senza generare un movimento politico degno di questo nome, identificabile con una «tradizione riformatrice» interna al comunismo: il suo fallimento significava anzi la marginalizzazione dell’ultima cultura politica organizzata che si qualificava in Europa occidentale come l’erede del socialismo rivoluzionario.40

Malgrado le sue ambizioni egemoniche, il progetto di Berlinguer mostrava così, più modestamente, il volto di un comunismo nazionale che aveva spinto all’estremo le proprie peculiarità e mantenuto una sua vitale raison d’être, adattandosi al mutamento civile e sociale post-1968. La trasformazione della cultura politica del comunismo italiano era un dato autentico, ma era anche un dato anomalo nel panorama delle culture politiche europee. La sua problematica identitaria rispondeva a un’esigenza reale, ma rifletteva l’elusione di profonde contraddizioni culturali e politiche. Il bilancio della politica internazionale di Berlinguer era quello di una formidabile risonanza, e insieme di una paradossale solitudine. Poteva vantare una trasformazione irreversibile, ma rivelava anche una crisi senza prospettive.

 

 

 

Bibliografia

1 E. Macaluso, 50 anni nel PCI, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 172.

2 Si vedano i saggi di P. Craveri, L’ultimo Berlinguer e la questione socialista, in «Ventunesimo secolo», marzo 2002; di F. Barbagallo, Il PCI dal sequestro di Moro alla morte di Berlinguer, in G. De Rosa e G. Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Sistema politico e istituzioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003; e di R. Gualtieri, Il PCI tra solidarietà nazionale e alternativa democratica nelle note di Tatò a Berlinguer, Ivi. Per le parti dedicate a Berlinguer, cfr. anche Gualtieri, L’ultimo decennio del PCI, in P. Borioni (a cura di), Revisionismo socialista e rinnovamento liberale. Il riformismo nell’Europa degli anni Ottanta, Carocci, Roma 2001; e A. De Angelis, I comunisti e il partito, Carocci, Roma 2002.

3 Si vedano gli interventi di Silvio Pons, L’URSS e il nel sistema internazionale della guerra fredda, e di Gualtieri, Il PCI, la DC e il vincolo esterno, in Gualtieri (a cura di), Il PCI nell’Italia repubblicana 1943-1991, Carocci, Roma 2001. Cfr. anche i seguenti saggi di Pons: La formazione della politica internazionale di Berlinguer, in Craveri e G. Quagliariello (a cura di), Atlantismo ed europeismo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003; La politica internazionale di Berlinguer negli anni dell’unità nazionale, in A. Giovagnoli e L. Tosi (a cura di), Un ponte sull’Atlantico. L’Alleanza occidentale 1949-1999, Guerini e associati, Milano 2003; L’Italia e il PCI nella politica estera dell’URSS di Brezhnev, in Giovagnoli e Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Tra guerra fredda e distensione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003.

4 È questa la visione della principale ricostruzione storica fatta in epoca pre-archivistica: cfr. J. Urban, Moscow and the Italian Communist Party. From Togliatti to Berlinguer, Tauris, Londra 1986.

5 Macaluso, 50 anni nel PCI, cit., p. 220. La più completa ricostruzione della politica estera di Berlinguer resta quella, tra memorialistica e saggistica, di Antonio Rubbi, Il mondo di Berlinguer, Napoleone, Roma 1994.

6 Cfr. A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992, Laterza, Bari-Roma 1998, p. 182.

7 Per un panorama della politica estera italiana e della collocazione dell’Italia nelle relazioni internazionali negli anni Settanta, si veda Giovagnoli e Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, cit.

8 Il primo storico a rimarcare questo punto è stato Franco De Felice, cfr. Nazione e crisi: le linee di frattura, in «Storia dell’Italia repubblicana», vol. III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, t. 1, Einaudi, Torino 1996.

9 Pons, L’URSS e il PCI nel sistema internazionale della guerra fredda, cit.

10 Si veda il lavoro di Maud Bracke, Is it possible to be Revolutionary without being Internationalist? West European Communism, Proletarian Internationalism and the Czechoslovak Crisis of 1968-69. A Comparative Study of the French and Italian Communist Parties, IUE, Firenze 2004.

11 Sull’ambivalenza della Ostpolitik, cfr. T. Garton Ash, In nome dell’Europa, Mondadori, Milano 1994.

12 Cfr. M. Maggiorani, L’Europa degli altri. Comunisti italiani e integrazione europea (1957-1969), Carocci, Roma 1998.

13 Per un profilo storico dell’eurocomunismo, si veda A. Agosti, Bandiere rosse Un profilo storico dei comunismi europei, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 280-87.

14 Sulla visione dell’eurocomunismo nel PCF, cfr. S. Courtois, M. Lazar, Histoire du Parti communiste français, PUF, Parigi 1995, pp. 363-68.

15 Cfr. D.H. Allin, Cold War Illusions. America, Europe and Soviet Power 1969-1989, Macmillan, Londra 1998, pp. 125 sgg. Si vedano ora i saggi di M. Del Pero, Distensione, bipolarismo e violenza: la politica estera americana nel Mediterraneo durante gli anni Settanta. Il caso portoghese e le sue implicazioni per l’Italia; e di U. Gentiloni Silveri, Gli anni Settanta nel giudizio degli Stati Uniti: un ponte verso l’ignoto, in Giovagnoli e Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, cit.

16 Pons, La formazione della politica internazionale di Berlinguer, cit.

17 Sulla crisi della distensione, si veda O.A. Westad (a cura di), The Fall of Détente. Soviet-American Relations during the Carter Years, Scandinavian University Press, Oslo 1997.

18 La scelta di una «posizione terza» del PCI viene rivendicata da Rubbi, Il mondo di Berlinguer, cit., pp. 309 sgg.

19 S. Carrillo, L’eurocomunismo e lo Stato, Editori Riuniti, Roma 1977.

20 Sulla concezione sovietica della distensione, cfr. M. Kramer, The Czechoslovak Crisis and the Brezhnev Doctrine, in 1968: The World Transformed, Cambridge University Press 1998. V. Zubok, The Brezhnev factor in Détente 1968-1972, in «Cholodnaja vojna i politika razrjadki: diskussionnye problemy», vol.2, IVI RAN, Mosca 2003. M.J. Ouimet, The Rise and Fall of the Brezhnev Doctrine in Soviet Foreign Policy, The University of North Carolina Press, Chapel Hill-Londra 2003. W. Loth, Overcoming the Cold War. A History of Détente, 1950-1991, Palgrave, New York 2002.

21 Pons, Meetings between the Italian Communist Party and the Communist Party of the Soviet Union, Moscow and Rome, 1978-80, in «Cold War History», vol. 3, 1/2002. Cfr. anche Rubbi, Il mondo di Berlinguer, cit., pp. 141 sgg.

22 Cfr. V. Riva, Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al PCI dalla Rivoluzione d’Ottobre al crollo dell’URSS, Mondadori, Milano 1999, cap. XXII. Si veda anche G. Cervetti, L’oro di Mosca. La verità sui finanziamenti sovietici al PCI raccontata dal diretto protagonista, Baldini&Castoldi, Milano 1999.

23 Cfr. V. Bukovskij, Gli archivi segreti di Mosca, Spirali, Milano 1999, pp. 217-19. C. Andrew, L’archivio Mitrochin. Le attività segrete del KGB in occidente, Rizzoli, Milano 2000, pp. 372-73.

24 Si veda il giudizio di R. L. Garthoff, A Journey Through the Cold War. A Memoir of Containment and Coexistence, Brookings Institution Press, Washington D.C. 2001, p. 388.

25 Sull’immobilismo dei sovietici nei negoziati internazionali del 1983-84, si veda Garthoff, The Great Transition. American-Soviet Relations and the End of the Cold War, The Brookings Institution, Washington D.C. 1994.

26 G. Vacca, Vent’anni dopo. La sinistra tra mutamenti e revisioni, Einaudi, Torino 1997, p. 13.

27 Sulla figura di Berlinguer come comunista riformatore ha insistito, in particolare, Massimo D’Alema: cfr. M. D’Alema, P. Ginsborg, Dialogo su Berlinguer, Giunti, Firenze 1994.

28 Per una visione dell’eurocomunismo come semplice anticipazione del concetto di «eurosinistra» nel PCI si veda V. Fouskas, Italy, Europe, the Left. The Transformation of Italian Communism and the European Imperative, Ashgate, 1998, p. 63.

29 Sulle motivazioni del «nuovo internazionalismo» di Berlinguer cfr. Rubbi, Il mondo di Berlinguer, cit., pp. 170 sgg.

30 J. Suri, Power and Protest. Global Revolution and the rise of Détente, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) e Londra 2003.

31 Cfr. D. Sassoon, One Hundred Years of Socialism. The West European Left in the Twentieth Century, Tauris, Londra 1996, p. 587.

32 Si veda Pons, Il socialismo europeo, la sinistra italiana e la crisi del comunismo, in S. Colarizi, Crateri, Quagliariello (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004.

33 Su questa visione dell’Unione Sovietica da parte dei comunisti occidentali negli anni Ottanta, si vedano le memorie di Hobsbawm: Eric J. Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico, Rizzoli, Milano 2002, pp. 308-9.

34 Cfr. A. Tatò, Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer 1969-1984, Einaudi, Torino 2003, pp. 227-41.

35 R.D. English, Russia and the Idea of the West. Gorbachev, Intellectuals, and the End of the Cold War, Columbia University Press, New York 2000.

36 Westad, Beginnings of the End: How the Cold War Decayed, in Pons, F. Romero (a cura di), The Late Cold War and the End of Communism, Frank Cass, Londra 2004.

37 S. Kotkin, Armageddon Averted. The Soviet Collapse 1970-2000, Oxford University Press, Oxford-New York 2001.

38 F. Benvenuti, Pons, The End of Soviet Communism: a Review, in Pons e Romero (a cura di), The Late Cold War, cit.

39 Cfr. C. Maier, Il crollo. La crisi del comunismo e la fine della Germania Est, Il Mulino, Bologna 1999.

40 Cfr. G. Eley, Forging Democracy. The History of the Left in Europe, 1850-2000, Oxford University Press, Oxford 2002, p. 414.