Liberare le intelligenze, cambiare l'apprendimento

Di Andrea Ranieri Martedì 01 Giugno 2004 02:00 Stampa

La prima sostanziale alternativa che hanno davanti a sé l’economia e la società della conoscenza è quella di pensarsi come un mondo in cui viene valorizzato il sapere di pochi, rassegnandosi alla precarizzazione o alla dequalificazione del lavoro dei più, con un’idea di trasmissione del sapere che si limiti a rivisitare la vecchia segmentazione della formazione dell’età tayloristica. Oppure quella di pensarsi come capaci di valorizzare il sapere che c’è nel lavoro di tutti, promuovendo quindi un approccio alla formazione che valorizzi le diverse intelligenze dei bambini, degli adolescenti, dei giovani, degli adulti. Stiamo, non solo per motivi di equità sociale, sulla seconda sponda.

 

La prima sostanziale alternativa che hanno davanti a sé l’economia e la società della conoscenza è quella di pensarsi come un mondo in cui viene valorizzato il sapere di pochi, rassegnandosi alla precarizzazione o alla dequalificazione del lavoro dei più, con un’idea di trasmissione del sapere che si limiti a rivisitare la vecchia segmentazione della formazione dell’età tayloristica. Oppure quella di pensarsi come capaci di valorizzare il sapere che c’è nel lavoro di tutti, promuovendo quindi un approccio alla formazione che valorizzi le diverse intelligenze dei bambini, degli adolescenti, dei giovani, degli adulti. Stiamo, non solo per motivi di equità sociale, sulla seconda sponda. La prima non farebbe che riprodurre la contraddizione in cui l’economia della conoscenza sta già avvitandosi: quella di promuovere l’idea di flessibilità, di autonomia, di creatività personale nel lavoro. E di continuare poi a rinchiuderlo in gerarchie e caselle; in modalità organizzative e in tavole di corrispondenza fra formazione e lavoro, che riproducono culturalmente e praticamente le vecchie rigidità del mondo fordista.

La storia che ci sta davanti sarà, da questo punto di vista, la storia della liberazione dell’intelligenza individuale e collettiva dalle vecchie modalità di inquadramento del lavoro e di riproduzione del sapere che il taylorismo ci lascia in eredità, e che tendono per inerzia a riprodursi anche quando cambiano i contesti di lavoro e di vita che li avevano generati. Compresa l’idea di orientamento come adeguamento della trasmissione del sapere alle richieste «date» dal mondo del lavoro. In stridente contraddizione, tra l’altro, con un’idea del lavoro attraversato da una strutturale e irrefrenabile spinta al cambiamento.

L’orientamento a cui occorre pensare, se ci schieriamo sulla sponda della valorizzazione dell’intelligenza che c’è in tutti i lavori, e della necessità che tutti sappiano più di quel che fanno, perché questa è la condizione, dal punto di vista delle persone, di un cambiamento consapevole e non solo subito come incertezza e come paura, è l’orientamento come fattore permanente di tutta l’attività educativa, a partire dalla prima infanzia. E ha come scopo la valorizzazione delle diverse intelligenze, delle diverse predisposizioni di ciascuno, senza che la diversità generi gerarchizzazioni ed esclusioni. Ha a che fare con la rivoluzione copernicana connessa al passaggio del centro dei processi formativi dall’insegnamento all’apprendimento, che è la precondizione necessaria per una personalizzazione dei percorsi formativi che sia inclusiva, e che non si limiti a riprodurre le differenze sociali ed economiche dei contesti familiari di origine, da cui i bambini derivano gli stili di apprendimento.

La rivoluzione dell’apprendimento è lunga e difficile; richiede un cambiamento profondo nella vita concreta della scuola, una capacità di leggere i contenuti didattici in termini di competenza che è in gran parte da costruire, una nuova professionalità degli insegnanti, un’apertura della scuola ai saperi del mondo e al modo in cui quei saperi entrano nella testa dei bambini e degli adolescenti, che nessuna riforma degli ordinamenti è di per sé in grado di garantire. Vive, questa prospettiva, nelle autonomie delle scuole, nella loro concreta progettualità e nella loro capacità di sperimentare e di riflettere sugli esiti della sperimentazione, nella loro disponibilità a valutarsi e a farsi valutare. Ma la riforma degli ordinamenti può essere un importante indicatore della direzione che si prende, può aprire o chiudere un quadro di opportunità a quella parte del mondo reale della scuola che ha imboccato la strada dell’innovazione e del cambiamento.

Da questo punto di vista la legge Moratti chiude porte invece di aprirne. E proprio su quei punti in cui la legge Berlinguer-De Mauro aveva provato a innestare processi di cambiamento reale.

L’analisi degli effetti del «duale» (istruzione liceale da una parte, formazione tecnico-professionale dall’altra alla fine delle medie inferiori) sulla dispersione scolastica e sull’effettiva capacità di fornire le competenze necessarie a confrontarsi col lavoro e col mondo durante tutto l’arco della vita, non può limitarsi a prendere in esame i ragazzi di quattordici anni per rispecchiarne le propensioni, ma deve collocarsi in una dimensione diacronica rivolta sia al loro percorso passato – come la scuola li ha portati a quel punto – sia alle prospettive future. Sul futuro le indagini a disposizione – per tutte la sintesi che Treelle ha fatto degli studi disponibili in Europa – dicono che la separazione precoce dei percorsi, mentre è del tutto irrilevante per combattere la dispersione, è correlata positivamente al crescere delle differenze nella capacità di apprendimento e nella disponibilità a cogliere opportunità formative in età adulta. Ha a che fare, cioè, con l’idea che abbiamo della società della conoscenza, con la possibilità di essere inclusiva e di diffondere sapere e qualità nell’insieme del mondo del lavoro. Ma il fatto più preoccupante è che quei ragazzi arriveranno a quel punto, secondo la legge Moratti, dopo un percorso scolastico che complessivamente ci propone un’idea di personalizzazione come un rispecchiarsi delle condizioni socio-culturali delle famiglie, già «orientati» a una scelta che rischia di apparire come un destino fin dall’inizio della vita scolastica.

I ragazzi italiani arrivano infatti alla fine delle scuole medie inferiori con livelli di apprendimento medio-bassi secondo tutte le analisi comparate a livello internazionale effettuate in questi anni. Precipitano al ventitreesimo posto delle graduatorie, dopo essere stati i primi alla fine della scuola dell’infanzia, e nei primi sette alle fine delle elementari. Non precipitano tutti insieme, ma secondo discriminanti precise: i «distinti» e gli «ottimi» nei giudizi finali si addensano su chi ha perlomeno uno dei due genitori laureato, la maggioranza degli altri si accontenta del sufficiente.

L’ultimo rapporto IARD ci ha spiegato in maniera analitica come questo risultato segni la vita – non solo scolastica – delle persone. Chi sarà disperso e chi continuerà gli studi. Chi andrà al liceo e chi non ci andrà.

Ma anche chi maturerà curiosità per il mondo, la cultura, la politica. Chi mostrerà propensioni a un uso interattivo e personalizzato dei media, e chi al contrario vivrà in un atteggiamento di difesa verso il cambiamento e l’innovazione. Chi entrerà nelle schiere di quell’individualismo massificato di cui è fatto gran parte del pubblico della società della comunicazione e dello spettacolo. Tutta la storia della parte migliore della scuola italiana è stata contrassegnata – dalla riforma della scuola media unica in poi – dall’impegno consapevole per evitare questa divaricazione, per costruire un’idea di personalizzazione dei percorsi capaci al contempo di esaltare le diversità e di evitare il formarsi di differenze irreversibili.

Lo hanno fatto le scuole dell’infanzia di Reggio Emilia, che sono state, fin dagli anni Sessanta, l’incubatore di una straordinaria esperienza educativa – quella della scuola materna italiana – che ha saputo tenere insieme il sostegno alla genitorialità con un percorso educativo vero per i bambini, considerati in quanto tali portatori di diritti e protagonisti del progetto educativo. E lo sono state le prime esperienze del tempo pieno nate nelle periferie delle grandi città industriali negli anni Settanta, sulla scia della straordinaria esperienza della scuola «contadina» di Barbiana, col compito di togliere dalla minorità culturale, di dare dignità e valore ai percorsi educativi dei figli dei lavoratori immigrati che lavoravano nelle fabbriche di Torino, di Milano, di Genova.

Bruno Ciari, che dirigeva le scuole comunali di Bologna, descrive così nel 1966 le caratteristiche di una scuola che, a cominciare dalla materna, doveva essere «emancipatrice, liberatrice, democratica nella sostanza». «Tutti i ragazzi debbono trovare nella scuola, e nell’intera giornata, gli stimoli, la guida, gli strumenti, i contatti e gli scambi, le esperienze che diano loro la possibilità di manifestare e sviluppare ogni capacità potenziale. L’inferiorità di parecchi ragazzi, il loro basso rendimento, riguarda solo le strutture formali che non hanno potuto assimilare; sotto la cenere degli errori di grammatica, della scarsa capacità di esprimersi, cova un’intelligenza vivace e una personalità originale, tutte potenzialità che una scuola cattiva scaccia e disperde. La giornata scolastica piena s’impone, dunque, come necessità democratica, come l’unica soluzione che può attuare fino in fondo il precetto costituzionale della piena e armonica formazione di ogni personalità. Scuola a tempo pieno, dunque (…) e non dopo-scuola obbligatorio».1

Si forma, nella scuola primaria italiana, l’idea e la pratica della molteplicità delle intelligenze, della diversità dei modi di apprendere, e per questa via la nostra scuola incontra la grande pedagogia di Gardner e di Bruner, che faranno della scuola dell’infanzia italiana un punto di riferimento della loro rivoluzione educativa. E nasce in quel contesto l’idea stessa di autonomia, come necessità per la scuola di ridisegnare i percorsi nei concreti contesti territoriali, nel confronto con i volti, le storie, le potenzialità e le debolezze dei bambini che riempiono le sue aule, con la flessibilità e l’attenzione alle diversità che solo il tempo «disteso» può consentire. Le grandi performance della scuola dell’infanzia ed elementare italiana hanno questa origine, e da qui partiranno le stesse riforme successive: la compresenza, il team educativo, i nuovi percorsi formativi per gli insegnanti. Il vero, grande problema della scuola italiana è che la centralità dell’apprendimento, la consapevolezza della molteplicità delle intelligenze, si ferma alla fine delle elementari. In seguito la scuola italiana è la progressiva riduzione delle intelligenze a una sola, quella logico-deduttiva, quella delle discipline. E i processi di inclusione e di esclusione avvengono su quella base.

La scuola media unica è lo snodo decisivo di questa reductio ad unum. È nata e ha avuto un ruolo decisivo nell’affermare la scuola come canale di mobilità sociale; ha permesso ai più bravi e intelligenti figli delle famiglie meno ricche e meno colte di accedere ai gradi superiori dell’istruzione. Ma non è stata in grado, per la sua natura disciplinare e per la sua intrinseca priorità dell’insegnare sull’apprendere, che ne caratterizza i programmi e l’organizzazione didattica, di essere per tutti inclusiva, di dare a tutti un’opportunità reale e non solo formale di successo educativo. La riforma Berlinguer-De Mauro partiva da lì: come evitare, attraverso un ciclo di base unitario, un’idea forte di comprensività tra tutti i livelli dell’istruzione primaria – la scuola dell’infanzia, la scuola elementare, la scuola media – che la cesura fra le elementari e le medie sacrificasse le intelligenze «diverse». E come far sì che attraverso un biennio unitario a forte valenza orientativa gli esiti delle medie, la divaricazione sociale fra i distinti, gli ottimi e i sufficienti diventasse un destino di vita.

È a partire da lì, da una solida base unitaria capace di valorizzare il sapere e il saper fare i ciascuno, che i percorsi differenziati successivi (la scuola, la formazione professionale, l’apprendistato) possono essere davvero reversibili, dare luogo a modalità di apprendimento trasferibili e confrontabili, che diventano realistiche le possibilità per tutti di accedere a percorsi formativi durante tutto l’arco della vita.

Era ed è un compito difficile. E richiede un grande cambiamento della professionalità insegnante, a partire da una formazione universitaria capace di evidenziare come il sostrato comune di questa professione sia la necessità di baricentrare tutti i livelli d’insegnamento sulle capacità di apprendimento degli alunni. Una progettazione comune e condivisa dell’attività didattica nelle scuole comprensive, che sappia trasformare in passaggio il salto fra la scuola elementare e la scuola media, e soprattutto una grande riforma del biennio, che si confronti con i diversi modi in cui i ragazzi si aprono al sapere, alle nuove opportunità e alle incertezze crescenti. Con un’idea del saper fare che non sia soltanto il lavoro, ma la capacità di interpretare e riprodurre i diversi linguaggi con cui parlano al mondo e con cui il mondo parla loro: la musica, le immagini, le parole del corpo e del territorio. Da questo punto di vista un biennio inclusivo e orientativo, capace di tener dentro quelli che la scuola respinge, non è molto diverso da quel percorso di eccellenza pedagogica che Edgar Morin ci propone per formare «la testa ben fatta».

La legge Moratti appare come una cesura di questa storia e di questa prospettiva. Apre spazi a una dimensione puramente assistenziale della scuola dell’infanzia, con l’anticipo a due anni e mezzo motivato sull’esclusiva necessità delle famiglie. Snatura il tempo pieno. Reintroduce lo stacco netto fra le elementari e le medie anche dal punto di vista dei percorsi formativi dei docenti, accentuando la natura eminentemente disciplinare che deve avere la formazione universitaria degli insegnanti delle medie. Propone, al posto del prolungamento dell’obbligo, un generico diritto-dovere, che ha come effetto immediato quello di mettere in mora le esperienze di biennio integrato e di costringere le famiglie e i ragazzi a una scelta precoce, il cui unico retroterra sono gli esiti della scuola media.

Il canale dell’istruzione e formazione professionale appare così inesorabilmente riservato agli studenti più deboli, ai figli delle famiglie più «bisognose». L’apprendimento del sapere è separato dall’apprendimento del saper fare.

Difficilmente questo cambio di marcia avrà successo. Contrasta con qualcosa di più profondo della riforma che sostituisce: con il movimento reale della scuola italiana e con la consapevolezza diffusa nella società italiana del valore dell’istruzione come canale di mobilità sociale e come requisito fondamentale della cittadinanza. Non è forse più riproponibile il ciclo unico di base prescritto per legge, ma le scuole comprensive sono ormai la maggioranza delle scuole italiane. E tante di esse progettano in maniera unitaria la propria offerta formativa. Il biennio unitario integrato è la realtà concreta su cui molte province e regioni basano la loro programmazione dell’offerta formativa e affrontano il problema della dispersione scolastica. L’autonomia scolastica è un valore per la maggior parte delle scuole italiane, col supporto attivo in molte situazioni del sistema degli enti locali. E questa autonomia è difficilmente riducibile negli schemi del «duale». Gli stessi centri di formazione professionale che più hanno investito per la crescita qualitativa della propria offerta, verso l’educazione degli adulti e la formazione postobbligo, mal si adattano a essere schiacciati in un’offerta povera, per cui non sono in generale attrezzati, e che oltretutto rischia di drenare il grosso delle risorse decrescenti del Fondo Sociale Europeo.

Contrastano con questa prospettiva le stesse tendenze del mercato del lavoro e il mutamento tecnologico e organizzativo che le imprese italiane dovranno affrontare se vogliono mettersi in grado di competere sul terreno dell’innovazione e della qualità.

Anche su questo terreno le contraddizioni fra le esigenze reali del mondo delle imprese e le strettoie del «duale» non tarderanno a manifestarsi.

 

 

 

Bibliografia

1 B.Ciari, Riforma della Scuola, 1-2/1966, p. 66.