L'opposizione e la scuola che cambia

Di Claudia Mancina Martedì 01 Giugno 2004 02:00 Stampa

La scuola italiana – rimasta per decenni uguale a se stessa, almeno dal punto di vista degli ordinamenti – sta attraversando un periodo di grandi trasformazioni. Al di là della propaganda, e degli stanchi luoghi comuni di un’opinione pubblica non abituata a discutere del mutamento sociale con serenità, si tratta di trasformazioni in buona misura inevitabili, e dovute alla nuova configurazione del contesto in cui opera la scuola. In parte queste trasformazioni, così come le loro cause, sono comuni a tutti i paesi europei; ma il caso italiano è diverso per una serie di ragioni, che vanno dalla maggiore rigidità originaria del sistema scolastico, alla maggiore dispersione (non si ripeterà mai abbastanza che il 30% dei nostri giovani lascia gli studi senza aver conseguito una qualifica), alla maggiore iniquità sociale (da un secolo circa il rapporto tra titoli di studio dei genitori e titoli di studio dei figli è rimasto pressoché invariato).

 

La scuola italiana – rimasta per decenni uguale a se stessa, almeno dal punto di vista degli ordinamenti – sta attraversando un periodo di grandi trasformazioni. Al di là della propaganda, e degli stanchi luoghi comuni di un’opinione pubblica non abituata a discutere del mutamento sociale con serenità, si tratta di trasformazioni in buona misura inevitabili, e dovute alla nuova configurazione del contesto in cui opera la scuola. In parte queste trasformazioni, così come le loro cause, sono comuni a tutti i paesi europei; ma il caso italiano è diverso per una serie di ragioni, che vanno dalla maggiore rigidità originaria del sistema scolastico, alla maggiore dispersione (non si ripeterà mai abbastanza che il 30% dei nostri giovani lascia gli studi senza aver conseguito una qualifica), alla maggiore iniquità sociale (da un secolo circa il rapporto tra titoli di studio dei genitori e titoli di studio dei figli è rimasto pressoché invariato). Ma, soprattutto, siamo alle prese in Italia con una gigantesca riorganizzazione delle istituzioni pubbliche, conseguente alla riforma del Titolo V della Costituzione (il cosiddetto federalismo), nella quale la scuola è uno dei principali soggetti coinvolti. Il processo è ancora in itinere. Le competenze relative di Stato e regioni, il ruolo dell’autonomia delle scuole e degli enti locali sono ancora soggetti a sistematizzazione ad opera della Corte costituzionale.

È chiaro tuttavia che si tratta di una trasformazione di enorme rilievo per il nostro sistema formativo nel suo insieme, una trasformazione che spiazza alcune delle questioni che da decenni si dibattono nella scuola e intorno ad essa. È anche un’occasione unica per attuare vere riforme, per ripensare la funzione della scuola nel mondo di oggi. Il federalismo fa parte di una tendenza generale a «deburocratizzare» i grandi sistemi e renderli più vicini ai cittadini, in una società che è sempre più percorsa da reti informative numerose e capillari, che rendono inefficiente la centralizzazione burocratica (lo vediamo già da tempo in relazione ai sistemi di welfare). La trasformazione del contesto istituzionale va di pari passo con la trasformazione del contesto culturale, segnato dalla fortissima incidenza delle nuove tecnologie, che mettono «in rete», senza bisogno di mediazioni, gli individui nella loro autonomia.

Nel caso della scuola, che ha la peculiarissima specificità di avere come utenti e protagonisti dei soggetti in età evolutiva (i cittadini di domani), questa tendenza si esprime nella crescente necessità di assumere come punto di partenza i processi di apprendimento dei soggetti, le capacità che sono in grado di sviluppare, e le competenze di cui hanno bisogno per essere cittadini attivi in una società complessa.

È questo spostamento del focus che ha determinato la scelta dell’autonomia, ormai irreversibile anche se non ancora pienamente realizzata in tutti i suoi aspetti, e che determina la riforma dei cicli, quella avviata dal ministro Berlinguer nella passata legislatura, così come quella intrapresa dall’attuale governo. Si tratta di qualcosa che va al di là dei meriti e dei limiti di un ministro, che si impone con la forza delle cose, oltre che delle raccomandazioni europee. Varrebbe quindi la pena di fare un dibattito non ideologico. Gli obiettivi sono gli stessi; la via è in gran parte obbligata; possono differire ritmi, tonalità, argomentazioni, in modo a volte non secondario. Noi non condividiamo, per esempio, la retorica familistica del ministro Moratti (tanto più se da questa retorica deriva l’indicazione di trasformare il tempo pieno in un servizio a domanda delle famiglie). La responsabilità della scuola, come istituzione, rispetto alla soggettività di bambini e ragazzi non può essere interamente ricondotta alla libertà di scelta delle famiglie, il cui interessamento alla vita scolastica dei figli è peraltro molto differenziato.

Ma la retorica egualitaristica può fare altrettanto danno, come appare chiaro nel dibattito sui due percorsi del ciclo secondario, cioè sulla formazione professionale. La legge delega che prevede la distinzione dei due percorsi (legge 53 del 2003) definisce il «dirittodovere all’istruzione e alla formazione» per almeno dodici anni o comunque sino al conseguimento di una qualifica nell’ambito di un «sistema educativo di istruzione e di formazione». L’innovazione terminologica, che abbandona il vetusto termine di obbligo scolastico (e trova un precedente nell’obbligo formativo introdotto dalla riforma Berlinguer), è conseguenza di uno spostamento concettuale, operato già dal nuovo Titolo V: il superamento della tradizionale e discriminante distinzione, presente nella Costituzione del 1948, tra «scuola» e «istruzione artigiana e professionale».

Parlare di un sistema educativo di istruzione e formazione che ha il fine unitario di «favorire la crescita e la valorizzazione della persona umana» significa porre le premesse di un rapporto del tutto nuovo tra i due percorsi del ciclo secondario, il percorso liceale e il percorso della istruzione e formazione professionale, attribuendo al secondo pari dignità culturale ed educativa rispetto al primo. Realizzare quest’obiettivo è certamente molto difficile: non basta proclamarlo, ma bisogna mettere in atto tutte le misure e le condizioni necessarie. Avviarne la realizzazione, tuttavia, equivale a superare la storica arretratezza culturale, prima ancora che educativa, del nostro paese, la cui denuncia fu uno dei punti cardine del programma di Prodi nel 1996, e che si esprime anche nel testo originario della Costituzione. La separazione e contrapposizione tra cultura e lavoro, e quindi tra scuola propriamente detta, che fornirebbe una cultura disinteressata, slegata da qualunque finalizzazione al mondo dei lavori, e ovviamente destinata alle classi superiori, e la formazione professionale, priva di cultura, direttamente finalizzata al lavoro subalterno, caratterizzata come non-scuola, e altrettanto ovviamente destinata alle classi inferiori.

È questa separazione e contrapposizione, che non ha riscontro nei paesi a noi vicini per storia e caratteristiche culturali, a determinare la dispersione scolastica di cui abbiamo già fatto cenno, e che costituisce da sola una enorme questione economica (per lo spreco di risorse umane che comporta) e democratica (per l’iniquità sociale che genera). Alcuni propongono di superare la situazione attraverso il canale unico, prolungato oltre le medie con un biennio di orientamento. Ma questa soluzione, ammesso che abbia mai avuto concreta validità, è oggi del tutto irrealistica. È irrealistico, in un mondo affamato di conoscenze e in un mercato del lavoro globalizzato e dunque altamente competitivo, dedicare un biennio della scuola superiore a attività di orientamento. È irrealistico, nel generale anticipo delle capacità cognitive dovuto allo sviluppo delle tecnologie informative e informatiche, collocare l’orientamento così avanti nel ciclo scolastico. E significa restare legati a un’idea tradizionale di scuola che la riforma del Titolo V e la sua attribuzione delle attività di istruzione e formazione alle regioni rende obsoleta.

La sinistra egualitaristica ha scatenato la protesta sull’anticipo di un anno rispetto alla riforma Berlinguer. È indubbio che la canalizzazione precoce è un fattore di iniquità sociale. Ma bisogna mettersi d’accordo su che cosa è precoce. Ricordare l’avviamento, al quale si accedeva dopo la scuola elementare, è del tutto fuori luogo. Inoltre, e soprattutto, la battaglia sull’età non ha consentito e non consente di mettere in luce le vere questioni: la qualità del percorso di formazione, le sue caratteristiche, il suo rapporto con l’altro percorso, il quadro complessivo unitario che ne deriva.

Si rischia così di sottovalutare, o di lasciar passare l’occasione rappresentata dalla fase di definizione dei decreti attuativi della delega sul ciclo secondario. È estremamente importante il modo in cui la distinzione dei due percorsi viene realizzata. Più del famigerato anno di anticipo, contano i seguenti punti: 1) che il percorso di formazione professionale abbia una precisa identità istituzionale e curricolare, realizzando in modo utile e chiaramente definito l’alternanza scuola-lavoro; 2) che sia abilitato a rilasciare titoli di studio progressivi, corrispondenti a standard concertati tra le regioni e lo Stato e riconosciuti in ambito nazionale; 3) che preveda sottocicli di diversa durata (tre, cinque, anche sette anni); 4) che sia in grado di proporre un’offerta didattica specifica, senza duplicati nel sistema scolastico; 5) che offra la reale possibilità di cambiare percorso ogni anno, e nelle due direzioni, in particolare consentendo ai più meritevoli e motivati di passare dal percorso professionale a quello liceale, per accedere all’università; 6) che l’attivazione dei due percorsi non si risolva in una licealizzazione spinta da una parte, e in una ghettizzazione della formazione professionale dall’altra.

Il punto 6 appare particolarmente delicato, anche perché ci sono già segnali che vanno in questa direzione, sia da parte del governo, che ha moltiplicato in modo preoccupante gli indirizzi liceali, sia da parte dell’opinione pubblica, che risponde all’incertezza della transizione con un aumento molto sensibile delle iscrizioni al liceo e, per non sbagliare, al liceo più liceo di tutti, quello classico.

È indubbio che un esito di questo genere pregiudicherebbe in partenza la nascita di un efficace sistema di istruzione e formazione nel nostro paese, lasciando irrisolti i problemi storici che esso si porta dietro, e scavando un solco ancora più profondo tra la scuola e la società italiana. Il lavoro di un futuro governo, in questo caso, non sarebbe certamente più facile.

È dunque il caso di impegnarsi attivamente, senza rinunciare alla polemica con il governo, per assicurare che l’istituzione del percorso formativo-professionale sia effettivamente quel passo avanti di cui il sistema educativo italiano ha bisogno, per cominciare a mettersi in linea con gli altri paesi europei e a rispondere alle domande di cittadinanza, per troppo tempo evase, dei nostri concittadini.