Europa-Stati Uniti: una nuova partita

Di Laurent Fabius Martedì 01 Giugno 2004 02:00 Stampa

Le relazioni tra Europa e Stati Uniti hanno vissuto di recente una stagione di gravi turbolenze. La crisi irachena ha segnato l’apice di una vera e propria crisi il cui momento peggiore è oggi senza dubbio superato, ma le cui ferite non si sono completamente rimarginate. Anche le nostre relazioni economiche (dal fiasco di Cancùn ai vari contenziosi commerciali) in questi ultimi anni sono andate progressivamente degradandosi dopo il lancio della «Nuova agenda transatlantica» nel 1995.

 

Le relazioni tra Europa e Stati Uniti hanno vissuto di recente una stagione di gravi turbolenze. La crisi irachena ha segnato l’apice di una vera e propria crisi il cui momento peggiore è oggi senza dubbio superato, ma le cui ferite non si sono completamente rimarginate. Anche le nostre relazioni economiche (dal fiasco di Cancùn ai vari contenziosi commerciali) in questi ultimi anni sono andate progressivamente degradandosi dopo il lancio della «Nuova agenda transatlantica» nel 1995. La situazione a cui siamo giunti su entrambe le rive dell’Atlantico mostra chiaramente che nessuno ha tratto grande beneficio da questa «deriva» tra i nostri rispettivi continenti. Nutro la convinzione che gli americani e gli europei abbiano bisogno di un partenariato equilibrato. Qualsivoglia impostazione politica che scelga di non prendere atto di questa esigenza è destinata a generare prima o poi effetti nefasti. È dunque tempo di prevedere il rilancio delle relazioni transatlantiche per il nostro comune vantaggio, e tale rapporto sarà equilibrato solo se l’Europa riuscirà a essere ancora più unita. È ciò che io definisco «il nuovo giro di carte» che dovrà unire i nostri due continenti.

Tale rilancio non è utopistico, e per capirlo dobbiamo fare un passo indietro. Sostenuto dalla superpotenza americana, il governo di Gorge W. Bush ha scavalcato l’opposizione internazionale e l’assenza di un esplicito mandato dell’ONU per lanciarsi in una spedizione militare in Iraq. Sul campo gli Stati Uniti hanno riportato una rapida vittoria militare, ma per il momento questo è davvero l’unico successo di cui possono gloriarsi. L’unilateralismo e la tentazione egemonica dei neoconservatori hanno gravemente macchiato l’immagine degli Stati Uniti. La guerra in Iraq aveva ufficialmente l’obiettivo di ristabilire la democrazia, favorire la pace in Medio Oriente e lottare contro il terrorismo, ma oggi possiamo dirci ben lungi da tutto ciò. L’Iraq è un paese diviso, che pullula di fazioni religiose e gruppi terroristici. Le truppe della coalizione hanno finora impiegato più tempo a garantire la propria incolumità che a ripristinare sicurezza e legalità per il popolo iracheno.

Il circolo virtuoso che la caduta del regime di Saddam Hussein avrebbe dovuto innescare nella regione per il momento non è altro che una spirale infernale. E il terrorismo tristemente prospera, come dimostrano gli attentati di Madrid e gli attacchi di Al Quaeda contro l’Arabia Saudita e altrove. Il fatto che la guerra sia priva di un fondamento giuridico, l’incapacità di trovare le armi di distruzione di massa che ne erano state il pretesto, gli abusi perpetrati dall’esercito americano, tutto questo facilita in qualche modo l’azione degli estremisti e dà sostanza ai loro discorsi.

Da parte europea, la Francia ha chiaramente mostrato la propria opposizione agli Stati Uniti e, sul fondo, ha avuto ragione a rifiutare la logica della guerra. Il modo in cui la nostra opposizione ha preso forma ha contribuito ad alienarci l’appoggio di paesi, come la Polonia, fortemente francofili per tradizione. Come i nostri amici tedeschi, non potremo essere veramente credibili di fronte agli Stati Uniti se non nel quadro di una posizione condivisa a livello europeo. Ed è questo il limite della politica di Jacques Chirac: preferendo una posizione diplomatica a una vera e propria strategia ci siamo privati di una parte di quell’influenza che avrebbe invece potuto giustificare il progetto di un mondo non già «multipolare», ma autenticamente multilaterale. In ogni caso, il cammino dell’unità degli europei è da riprendere. Sarà una priorità assoluta se i socialdemocratici torneranno al potere. Non si tratta soltanto di edificare questa unità contro gli Stati Uniti, ma semmai di farlo nel quadro di un partenariato equilibrato con loro.

La storia di questi ultimi due anni, sia da una parte che dall’altra dell’Atlantico, è una storia di caos. Il governo americano comincia forse a rendersi conto che, malgrado la loro potenza, gli Stati Uniti non possono facilmente fare a meno dei propri alleati tradizionali in Europa, segnatamente della Francia e della Germania. Oggi si rivolgono dunque all’Europa per ottenere aiuto in merito alla situazione irachena. Dal Medio Oriente all’Afghanistan non sono in grado, da soli, di assicurare la stabilità di questa regione essenziale del mondo. Sono di fatto molti gli americani che ritengono che sarebbe stato più salutare per il loro paese tenere conto dell’esperienza dei nostri «vecchi» paesi; paesi che hanno accumulato una conoscenza storica del mondo arabo musulmano che ci permette di evitare certi errori, sia psicologici che morali o politici.

In Europa, in un primo tempo, l’atteggiamento nei confronti della politica americana ha diviso i governi, e le prese di posizione di alcuni hanno trasformato le divisioni in rancori. La crisi irachena ha inciso sul dibattito relativo alla Costituzione europea. In un clima più sereno i nostri Stati sarebbero probabilmente giunti a un progetto più ambizioso e più fruttuoso. Ma contemporaneamente l’opposizione al conflitto ha riunito i popoli, facendo emergere una vera e propria opinione pubblica europea. Il secondo atto ha avuto inizio con la vittoria dello PSOE in Spagna e con l’elezione di José Luis Zapatero. La Spagna ha abbandonato la coalizione e su questa scia l’Italia e la Polonia cominciano a dubitare della fondatezza della propria partecipazione. La scelta britannica di consolidare l’alleanza con gli americani per potere esercitare una maggiore influenza sulle loro politiche suscita seri interrogativi e la delusione per molti è davvero cocente. Anche tra i membri della coalizione, sono in molti a riconoscere oggi che l’opposizione alla guerra non mancava di giuste ragioni e che sarebbe stato più utile per tutto il mondo che l’Europa potesse unirsi attorno a una reale proposta alternativa.

L’unilateralismo e la tentazione egemonica di Gorge W. Bush evidentemente non sono un fattore di stabilizzazione per le relazioni internazionali. Al contrario, rappresentano un pericolo per gli interessi a lungo termine degli Stati Uniti e del popolo americano. Un’Europa forte e unita è funzionale per evitare in futuro gli errori di questi ultimi due anni. Ma un’Europa politica dovrà essere accompagnata da un partenariato solido tra i due fronti atlantici. Ed è proprio questa l’equazione che si tratta di risolvere adesso. L’Europa come entità politica non ha ragioni di assumere una posizione di rottura con gli Stati Uniti: questa è la condizione di un rapporto equilibrato e di un’alleanza di cui abbiamo assoluto bisogno. In questa prospettiva, non c’è alcun dubbio che l’elezione di un presidente democratico negli Stati Uniti faciliterebbe il raggiungimento dell’obiettivo: rappresenterebbe una vittoria per l’America, di cui condividiamo i grandi valori e delle cui forze abbiamo celebrato lo sbarco sessanta anni fa sulle coste della Normandia per liberarci dal nazismo. È l’America di Roosevelt, straordinaria nella sua generosità, e il cui ricordo è il migliore antidoto a qualsiasi forma di anti-americanismo primario, atteggiamento politico e intellettuale da rifiutare categoricamente.

Tuttavia, al di là degli avvenimenti degli ultimi due anni, la crisi delle relazioni transatlantiche ha cause profonde. La fine del bipolarismo e la scomparsa del nemico comune hanno reso le relazioni transatlantiche meno centrali, sia per gli Stati Uniti che per l’Europa. Per gli europei occidentali la funzione di protezione della potenza americana è venuta meno, mentre per gli americani la priorità dichiarata non è più il mantenimento del fronte occidentale ad argine della minaccia sovietica. Gestire questa alleanza induceva gli americani, negli anni della guerra fredda, a fare concessioni ai propri alleati, soprattutto alla Francia, facilitando l’esercizio di una diplomazia autonoma senza mettere in questione l’alleanza con gli Stati Uniti. Gli eventi drammatici dell’11 settembre non sono stati analizzati esattamente nello stesso modo dai due lati dell’Atlantico. Per gli Stati Uniti gli attentati hanno legittimato un’impostazione delle relazioni internazionali basata sul ricorso alla forza. Per l’Europa invece, la lotta al terrorismo comporta implicazioni politiche di ben diversa entità a cui il solo ricorso alla forza non può certamente fornire le risposte adeguate. Gli americani hanno ritenuto che i loro alleati europei non condividessero più la loro valutazione di tale minaccia e hanno considerato che un’impostazione delle relazioni internazionali di stampo più unilaterale rispetto al passato fosse divenuta necessaria. A lungo termine, essi potrebbero valutare la gestione del rapporto con i giganti asiatici, Cina e India prime fra tutti, prioritaria rispetto a quella con le nazioni europee. L’identità «pacifista» degli Stati Uniti potrebbe avere la meglio sulla componente «atlantista». Mentre la vocazione principale dell’Europa è quella di guardare all’area mediterranea e mediorientale.

Anche le relazioni economiche e commerciali hanno subito l’impatto della nuova agenda politica americana. Se gli anni Novanta avevano lasciato intravedere la speranza di un riavvicinamento economico, commerciale e normativo di grande portata, le condizioni si sono in seguito notevolmente deteriorate. Pur pretendendosi paladini del liberalismo economico, gli Stati Uniti manifestano in molteplici settori un protezionismo rampante e impongono oggi come oggi all’Europa sanzioni commerciali per centocinquanta miliardi di dollari. Questi attriti spiegano in parte il fallimento dei negoziati di Cancùn e l’impantanamento del ciclo di Doha, la cui priorità presupposta doveva essere lo sviluppo. Siamo di fronte a un dato di fatto: se le relazioni transatlantiche peggiorano, è il mondo intero a risentirne. Buone relazioni transatlantiche non sono condizioni sufficienti, ma senza dubbio necessarie ai fini di una reale strategia mondiale a favore dello sviluppo. E si tratta di una responsabilità comune.

Esistono indubbiamente differenze di fondo. Gli americani, in termini di scelte sociali, hanno una maggiore tolleranza di fronte alle ineguaglianze rispetto agli europei. In tema di ambiente le reciproche posizioni sono sempre state opposte: l’Europa è favorevole agli accordi di Kyoto, l’Amministrazione Bush è apertamente ostile. Tuttavia la società americana è in evoluzione e i democratici sono più vicini a noi. I temi di convergenza possono essere molti. In materia di sicurezza, i nostri interessi sono analoghi. La lotta contro il terrorismo e contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa rappresentano priorità condivise. La democrazia e i diritti dell’uomo sono di fatto un comune impegno. A separarci è soprattutto la strategia da mettere in atto. Militare e unilaterale per Bush; globale – cioè comprensiva degli aspetti economici e sociali – e multilaterale per gli europei. Ora sta all’Europa unirsi per far sentire la propria voce.

Anche in materia economica gli interessi comuni sono evidenti. È quindi urgente che il dialogo transatlantico riprenda vigore per essere all’altezza della partita. Cominciando con la stabilità monetaria. Se è vero che le questioni preoccupanti sono molte (fra le altre, il disavanzo della bilancia americana, la svalutazione della moneta cinese), allora urge un miglior coordinamento. Altro settore comune è lo sviluppo. Per ragioni morali, così come anche economiche e politiche, l’aiuto allo sviluppo costituisce una priorità riconosciuta su entrambe le sponde dell’Atlantico. Il fallimento di Cancùn ha messo a nudo la necessità di un accordo transatlantico. Lo stesso vale per l’occupazione e per l’insieme delle norme sociali nel contesto della globalizzazione. Europa e Stati Uniti si avvalgono di modelli sociali senza dubbio differenti, ma tale opposizione non esclude l’emergere di timori comuni in relazione agli effetti della globalizzazione sull’occupazione, soprattutto quella del settore industriale, e sulle norme sociali. La questione della delocalizzazione sarà tema di dibattito nella campagna presidenziale americana proprio come sarà al centro delle discussioni in Europa. La lotta contro la deindustrializzazione, lo sviluppo di un commercio etico e la responsabilità sociale delle imprese sono, o dovrebbero essere, preoccupazioni condivise. I democratici americani riconoscono come la sinistra europea che la promozione delle norme sociali internazionali rappresenta una necessità. Sull’ambiente, l’evoluzione dell’opinione pubblica americana può condurre a delle modifiche nella posizione statunitense.

Su queste basi, dare vita un nuovo partenariato è possibile su entrambe le coste atlantiche. Un partenariato che potrebbe articolarsi su tre assi principali.

Il primo asse è quello che vede l’Europa attore politico e strategico a pieno titolo. Mai sarà possibile riequilibrare le relazioni transatlantiche senza un miglior coordinamento da parte degli europei e senza che vengano rafforzate le loro capacità d’azione comune. Gli europei devono in particolar modo dotarsi di mezzi di difesa credibili. È da favorire lo sviluppo di forze militari europee, mettendo in comune i mezzi e l’acquisizione dei materiali. Il nostro orizzonte in un arco temporale definito dovrà essere quello della costituzione di un vero e proprio esercito europeo. In seno alla NATO, l’Europa dovrà poco a poco divenire un pilastro integrato.

Sulla base di un secondo asse, americani ed europei dovranno avviare una fattiva cooperazione nell’area mediterranea e mediorientale. Dal 1995, l’Unione europea ha lanciato a Barcellona una strategia d’associazione dei paesi mediterranei. Recentemente gli Stati Uniti hanno lanciato il loro progetto su di un «Grande-Medio Oriente». Per il momento, i due progetti restano in parallelo. Inoltre, l’iniziativa europea manca ancora di vere ambizioni, mentre quella statunitense rimane oggetto di discussione. L’unione dei nostri sforzi permetterebbe di costruire un ponte tra l’Oriente e l’Occidente e costituirebbe l’antidoto migliore contro lo «choc tra civiltà». Un’impostazione comune ai nostri due continenti potrebbe esser lanciata sulla base degli accordi di Ginevra: è necessario infatti un nuovo inizio tra israeliani e palestinesi, e gli accordi di Ginevra ci consentirebbero di farlo.

L’ultimo asse deve prevedere di intavolare un reale dialogo economico e sociale transatlantico. Trascendendo dalle discussioni economiche in senso stretto, i soggetti d’interesse comune non mancano: una migliore gestione monetaria tra euro e dollaro; la risposta alla delocalizzazione; il finanziamento dello sviluppo; misure contro l’aumento della temperatura del pianeta. Cerchiamo di progredire su ognuno di questi punti e di proporre nuove soluzioni.

Il nuovo partenariato rafforzerebbe un rapporto costruttivo con gli Stati Uniti e dimostrerebbe che l’Europa può operare concretamente per la stabilità del mondo, rilanciando la costruzione europea: l’esercito europeo potrebbe essere materia per un nuovo approfondimento, e la cooperazione nel Mediterraneo contribuirebbe a dar corpo a questo terzo cerchio che l’Europa non può esimersi dal costruire, al di là dei suoi nuovi membri. Tutto ciò sarebbe sembrato un’utopia solo qualche mese fa, ma gli ultimi sviluppi, in Iraq come in Europa, e la speranza di un’alternanza ai vertici degli Stati Uniti permettono di prefigurare seriamente tale rilancio della cooperazione e dell’amicizia transatlantica. Siamo più forti quando siamo uniti. È importante che l’Europa e gli Stati Uniti possano di nuovo progredire insieme.