Diario americano 3

Di Giulio Sapelli Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

R. P. è un uomo affascinante, dagli occhi scuri e ombrati, come un intellettuale dell’Ottocento romantico. L’incontro avviene nella sede di uno di quei pensatoi che vent’anni di opposizione contro la politica democratica hanno trasformato, negli USA, da centri di pura elaborazione intellettuale in palestre dei policy makers. Neppure Reagan soddisfò quei pensatoi e quei pensatori. Le scelte che fece tanti anni or sono Lindon Johnson (da un lato la great society e dall’altro l’impegno nel Vietnam, che non si trasformò in una vittoria e questo fu ed è il problema da tenersi a mente), hanno creato un humus politico-culturale neonazionalistico e neoimperiale che è tra i fenomeni più interessanti della vita culturale e politica nordamericana.

 

Incontro con i «neoimperiali» e l’Italia

R. P. è un uomo affascinante, dagli occhi scuri e ombrati, come un intellettuale dell’Ottocento romantico. L’incontro avviene nella sede di uno di quei pensatoi che vent’anni di opposizione contro la politica democratica hanno trasformato, negli USA, da centri di pura elaborazione intellettuale in palestre dei policy makers. Neppure Reagan soddisfò quei pensatoi e quei pensatori. Le scelte che fece tanti anni or sono Lindon Johnson (da un lato la great society e dall’altro l’impegno nel Vietnam, che non si trasformò in una vittoria e questo fu ed è il problema da tenersi a mente), hanno creato un humus politico-culturale neonazionalistico e neoimperiale che è tra i fenomeni più interessanti della vita culturale e politica nordamericana.

P. è un essere inquietante. Guarda i suoi interlocutori con le palpebre socchiuse e non manca mai di sorridere quando gli occhi s’incontrano, creando una sorta di complicità molto gradita per gli astanti, che si sentono in tal modo gratificati dalla sua attenzione. È l’emblema del potere che si costruisce in lunghi anni di riflessione e di meditazione, di studi accaniti e di consenso costruito su una linea politica e culturale dapprima ignorata e poi via via sempre più importante per il peso che essa acquista allorché avviene, circa dieci anni or sono, il grande mutamento nell’orientamento della business community nordamericana. Mutamento che fa sì che essa identifichi nei democratici l’anello debole della nuova politica di potenza, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e del sistema che a essa era così intimamente collegato. I neoconservatori nascono, molti di essi, come democratici delusi e scontenti dell’incapacità di Carter di realizzare un’iniziativa internazionale e militare all’altezza dello scontro con l’Unione Sovietica. Divengono poi il punto di riferimento nazionale e internazionale del pensiero neoimperiale che non crede che la partnership tra Europa e Nord America possa rispondere alle incognite che derivano e deriveranno per l’ordine mondiale dal crollo dell’impero sovietico

Solo la potenza neoimperiale degli USA può arginare i fondamentalismi e i terrorismi che si affacciano sulla scena mondiale. Al disordine non si può opporre la concertazione e tanto meno la democrazia internazionale, già così tanto inferma su scala nazionale…

P. ha costruito con grande finezza questa alternativa concettuale alla collaborazione tra Europa e USA che ha dominato la scena mondiale dal 1945 a oggi, collaborazione a cui il Giappone si è via via affiancato con sempre più autorevolezza, sino a giungere alla soglia della trasformazione del suo assetto costituzionale e a disporre di una capacità di contenimento e di aggressione militare in Asia.

P. è contento di conoscere questo professore italiano così curioso da partecipare a riunioni a cui non è stato invitato ufficialmente, ma informalmente, da una simpatica persona alla quale il professore è molto affezionato. Il professore, inoltre, e questo lo mette al riparo da ogni osservazione, si dispone di buon grado a subire il serrato interrogatorio di uno degli uomini più interessanti e più vicini al potere degli USA.

L’interrogatorio verte in primo luogo su Silvio Berlusconi e sulle sue mire, sulle sue idee più profonde. Mi sforzo di fargli comprendere che non sono molto interessato a questa discussione e preferirei, invece, ascoltare lui, per ore, tanto il suo periodare è ricco di nuances e di sforzi innovativi. Per me il suo pensiero è una scoperta dialettica che nessun libro dei suoi amici e collaboratori può sostituire. Ma non posso resistergli e allora aggiro l’ostacolo della mia noia indicibile – tutto vorrei fare, ma non parlare dell’Italia, ora che ne sono felicemente lontano – e ragiono, allora, del fenomeno Berlusconi, che a parer mio è attivo e presente anche in USA come manifestazione dello spirito assoluto. «Siamo due vecchi hegeliani pentiti» mi dice. «Forse potremmo andare d’accordo», continua.

Inizio, con un bicchiere in mano e una tartina che non riuscirò a mangiare. A prima vista potrebbe sembrare che si sia dinanzi, tanto in Italia quanto negli USA, a una nuova forma di neopatrimonialismo, ossia a una appropriazione dello Stato, o di segmenti di esso, in guisa di assimilazione al patrimonio, da parte di soggetti privati, che usano tali risorse per i loro voleri e per ampliare la loro area di influenza. Il che è vero solo in parte e in ogni caso non costituisce l’essenza del fenomeno incarnato da Bush e da Berlusconi. Esso è assimilabile, invece, nell’assunzione da parte dei privati di quote sempre più rilevanti di competenze e di risorse materiali e simboliche che dovrebbero costituzionalmente appartenere, di converso, allo Stato di diritto. Si tratta di una destatualizzazione illegale dello Stato che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.

Argomento con calma questi concetti e il romantico conservatore mi fissa negli occhi, e dice: «È vero, lei comprende esattamente quello che sta accadendo, ma ciò è esattamente ciò che deve accadere. Deve accadere inevitabilmente, se non vogliamo che il dispiegamento del disegno neoimperiale sia irrimediabilmente interrotto e si ritrovi pieno di costrizioni e di limiti. Ciò che lei vede in Italia è un fenomeno che qui da noi ha delle correzioni e che ritrova una sua costituzionalità grazie al rispetto delle regole del gioco che sono, tuttavia, incarnate da altri giocatori, diversi da quelli dell’imbelle multilateralismo. Il problema, tuttavia, anche per noi è quello del conflitto d’interessi, ma questo è un prezzo che dobbiamo pagare per dispiegare ora e subito la politica di potenza: poi le radici della democrazia americana riporteranno all’ordine il gioco e i giocatori, ma il mutamento che avremo introdotto sarà irreversibile».

Attorno a lui si muovono ragazze ben vestite, con tailleur di un rigore inconsueto e che nulla hanno a che vedere con il look delle università americane. Sono quasi tutte bionde e le sole more sono chiaramente ebree che si accompagnano con giovanotti anch’essi ebrei, che sfoggiano spesso lo zucchetto e si muovono con grande disinvoltura sorseggiando in calici di cristallo acqua minerale e bevande di gran tono. Ecco la risposta anche sul piano del costume e della moda simmelliana che i neoconservatori, i neocons, vogliono dare al degrado comportamentale del pensiero democratico e utopicamente non violento: ritorno a uno stile di comportamento che dia l’immagine di una società e di una civiltà dello spirito non rilassata, virile, dotata di valori condivisi ma non conformisti. Il conformismo è, infatti, lo spirito bohemienne, l’andazzo generale che riduce tutto a una sorsata senza bicchiere da una bottiglia di plastica e che si traduce in un susseguirsi di sfilate di ragazze dai capelli arruffati e di ragazzi con il marchio Nike ovunque, senza cravatta e senza buona educazione. Mi accorgo di quanto profonda e decisiva potrà essere la lenta ricostruzione di un pensiero neoimperiale nordamericano proprio da questi aspetti di costume. Essi vanno di pari passo con la radicalità delle scelte politiche e ideologiche.

«Il diritto d’intervento umanitario è un orpello che è meglio lasciar cadere per non alimentare l’ipocrisia imperante». Così afferma, mentre bevo un aperitivo in questa stanza spaziosa, dove il gruppo di lavoro ha offerto un piccolo party al termine del seminario – così mi dice una delle collaboratrici di Pearle. È una donna volitiva, con grandi occhi neri, che anch’ella ha cerchiati di nero e questo mi colpisce. E mi parla ininterrottamente dell’Italia. Un paese così pieno di folclore e di colore e di calore, mi spiega, e che io faccio male a disprezzare, almeno così le sembra… Positano è bellissima e così Amalfi e Ravello, e non parliamo poi di Taormina e di Venezia: di cosa ci lamentiamo? Insomma, dovremmo essere più comprensivi verso coloro che ci governano e meno impietosi con noi stessi. Ma tutti gli italiani sono così, anche quelli che hanno idee diverse dalle sue, mi dice, senza sapere quali idee io abbia. Leggo, però, il «New Yorker», che prima di raggiungere il seminario avevo finalmente trovato e quindi mi ha incasellato in una categoria che evidentemente non le piace.

Capisco che questa ragazza è veramente pronta a divenire un’amazzone del pensiero e delle pratiche neoimperiali. Ha anche scelto in quale dei paesi dell’impero vorrà passare le sue vacanze o la sua vecchiaia.

 

Scarpe e armeni, camicie e signora cinese…

Disporre di un piccolo alloggio a New York non vuol dire poter disporre dei servizi di un grande albergo. Questo mi cruccia, perché sono un inguaribile vizioso e vorrei solo dedicarmi alla vita dello spirito, e per far ciò è indubitabile che la divisione del lavoro sociale può offrirci un aiuto inestimabile, purché la sorte ci abbia collocato dalla parte «giusta» di essa. Il denaro può aiutarci, naturalmente, e quindi anche non disponendo di collaboratori domestici, ossia di quel che un tempo l’aristocrazia chiamava «servitù», possiamo riconquistarcela, la libertà per lo spirito, delegando ad altri i lavori domestici. New York, da questo punto di vista, abbonda di attività a ciò preposte. I piccoli negozietti sono una miriade e stupisce, a prima vista, che ciò accada nel luogo per eccellenza della grande distribuzione e del consumo di massa. E qui il senso comune sbaglia. Il piccolo commercio è quanto mai vivo e fiorente e contribuisce a rendere vivibile e interessante la città. Ed è pur significativo che a far ciò siano in primo luogo le attività economiche delle minoranze etniche. Molto si è scritto su questo tema e anch’io ho detto la mia in tempi lontani. Rimane la sostanza di quelle ricerche, che sono confermate dalle nuove, che si affollano via via. La vita associata è fondata sulle cerchie sociali omofiliache e fa sì che, quando è possibile, gli esseri umani, anche nell’attività economica, cerchino di massimizzare rapporti di fiducia e di reciprocità, costituendo, appunto, reticoli, tramite i quali scambiare beni materiali o immateriali, dalla produzione al consumo. Si forma come una catena imitativa che facilita i nuovi arrivati e li conduce per mano nei pori dello sviluppo capitalistico. Vuoi aprire un negozio di articoli per scarpe e specializzarti nella loro riparazione? Se sei armeno, ciò diviene un prolungamento naturale dell’esistenza: lo fanno già i tuoi predecessori a New York e sono pronti a fornirti tutta l’assistenza dovuta. Ti indicano i fornitori (armeni, molto spesso), ti indicano i finanziatori che possono aiutarti a sostenere gli impegni (armeni, per la maggior parte dei casi), ti forniscono i lavoratori di cui potresti avere bisogno (senza alcun dubbio armeni, naturalmente), ti aiutano a trovare lo stabile in cui puoi operare (e qui il problema è difficile, perché non sempre la reciprocità religiosa può aver luogo e te la devi cavare da solo).

Le mie scarpe continuano ancora, dopo alcuni mesi, a godere dei benefici di una straordinaria crema nera che mi difende dalle intemperie e rende la pelle morbida e immune da ogni screpolatura. È il premio che mi assegnai un pomeriggio piovoso, quando, non riuscendo a trovare un taxi, dovetti percorrere un’infinita serie di vie, viuzze, grandi viali, che ancora mi stordiscono, preoccupato per lo stato dei miei calzari. Finché Martorian con la sua piccola insegna luminosa e la sua luce fioca apparve dinanzi a me e mi offrì rifugio dalla pioggia, un caldo luogo dove sedermi e parlare del più e del meno (risposi a ininterrotte domande sull’Italia e ottenni rifiuti cortesi ma espliciti che si manifestavano con il silenzio di far domande sull’Armenia e sugli armeni, a New York e nel mondo). E infine pagai pochi dollari per una spazzola di pura setola dolce e suadente che avrebbe accarezzato le mie scarpe, due barattolini di crema che dovevo usare come un balsamo speciale e infine un panno miracoloso che avrebbe acceso su di esse i brillantini delle lampade di Aladino. «Le donne si conquistano con le scarpe luccicanti, credi a me» mi diceva Martorian, mentre mi infilava in una sacchetto la crema di suo fratello, la spazzola di suo cugino e il panno che invece, diceva, veniva direttamente dal Galles, dall’Europa, pensa un po’!

Fuori aveva spiovuto e potevo riavviarmi per il mio cammino. Non pensavo neanche più a cercare un taxi, eppure li avrei trovati, ora che l’acquazzone era finito; ma non mi importava. Avevo un’incredibile voglia di passeggiare e soprattutto mi sentivo protetto come non mai dalle briciole luccicanti di Aladino…

Giunto a casa, eccomi dinanzi al problema di sempre, quando si è in viaggio o ci si reca in una nuova città: la mia riserva di camicie e di biancheria intima andava assottigliandosi e dovevo porre rimedio a tale scarsità. Ritornando a casa avevo visto a pochi passi dall’incrocio con Washington Square le insegne luminose celestine di una lavanderia, ampia, spaziosa, con forti luci che ne illuminavano l’interno e che parevano quasi la trasposizione – dall’immaginario dei bar a quello di un luogo affatto diverso come può essere una lavanderia – di un quadro di Ben Shan. Quadri dove forti luci illuminano donne girate di spalle dinanzi a baristi senza volto e immaginari clienti guardano dai vetri, come voi che state fuori, quasi come se si trattasse di una eterna messa in scena di una fiction senza fine.

Dentro alla lavanderia non c’era il bancone di un bar e neppure una signora di spalle. C’era una signora alta, bella, che guardava dritto negli occhi ed era cinese. Una cinese del nord, evidentemente, perché era sinuosa, altera, di belle forme e con dei magnifici occhi neri dalle lunghissime ciglia e dai bei capelli fluenti che anche lei, come la ragazza della manifestazione, portava legati in una crocchia che era una delizia. Il portamento era quello di una principessa. Non si chinava mai e non girava mai il capo. Dietro alle sue spalle una serie di piccoli messicani correvano ai suoi ordini ritirando indumenti di ogni specie, forma e misura, a lei li porgevano e appena ella verificava dallo scontrino che la coincidenza con quello portato dal cliente era indubitabile, batteva di conto su una elaborata tastiera di un computer vecchiotto assai, ma sempre tirato a lucido e ben pulito. Entrati nel negozio, sulla sinistra sedeva a un tavolino una signora anch’essa cinese, ma grassa, ben vestita e carina, con un sorriso incantevole, ma che non osava neppure alzare il capo dal suo lavoro. E il suo lavoro era di far piccole riparazioni agli abiti, alle camicette che via via si ammonticchiavano in bell’ordine in più ceste di vimini che ella disponeva attorno a sé, secondo un ordine che certamente rispondeva a una segnaletica immediatamente leggibile e che richiamava il tipo di indumenti, il tipo di riparazione e, infine, il tipo di clienti che avevano consegnato i loro beni così preziosi. Ancora dietro la vecchia vi era un vano piccolo e luminoso, chiuso da una tenda dove le clienti e i clienti si intrufolavano seguiti dalla dama cinese del nord per prendere le misure di una gonna da accorciare, di una spalla da alzare, di un bottone da spostare. Solo la dama vi entrava: alla vecchia era vietato e tanto più vietato lo era ai messicani. Insomma, la dama cinese controllava il lavoro come una dea infallibile e temuta. Vi era qualcosa di diverso dalle altre lavanderie newyorkesi, anch’esse gestite da cinesi oppure da pachistani. Qui vi era innanzitutto una divisione etnica del lavoro: i messicani obbedivano e svolgevano i lavori di fatica, come era evidente dai loro volti sudati e dalle camicie spesso fradice con cui si presentavano in negozio, sbucando dal retro, dove i bollitori per lavare e le macchine per stirare lavoravano indefessamente. La signora li rimproverava per il loro presentarsi in questo modo e rapida li ricacciava giù, negli inferi. Alla vecchia cinese quell’inferno era risparmiato, ma non l’onta della subalternità esaltata e così evidente da essere imbarazzante, tanto era manifesta e totale. Passò un lungo tempo prima ch’io fossi accettato come un cliente gradito dalla signora. Innanzitutto anche per lei ero un enigma: il mio nome era impronunciabile ed ero italiano, e quindi sospetto. Non mi disse mai nulla, ma certo la vicinanza tra cinesi e italiani in città non le faceva pensare a nulla di buono. Mi chiese solo una volta se ero siciliano. Io gli dissi di no, dicendo la verità, ma non aggiunsi, come faccio spesso, che lo era la mia povera mamma, siciliana puro sangue, nel bene e nel male. Questo aumentò in lei il rispetto nei miei confronti. Non mi chiese mai nulla della mia professione, ma certo l’aveva compresa quando, comunicatole che ebbi il mio indirizzo (le serviva per l’archivio e nel caso si fossero presentati problemi rispetto alla mia biancheria, mi disse) affermò che la casa era molto bella e che aveva avuto già dei clienti stranieri che abitavano lì. Si sentiva pienamente nordamericana, dunque, se mi considerava uno «straniero», e questo mi colpì non poco. Infine, superai anche la sua diffidenza rispetto allo scambio economico: a un certo punto, dopo che manifestai la mia fedeltà indefessa con l’abbondanza di biancheria di ogni genere che le portavo – e che sempre mi consegnava perfetta – mi permise di non pagarla più anticipatamente e fece ciò addirittura neppure registrando l’importo dovuto, a futura memoria, sul suo straordinario computer. Esso, lo compresi a poco a poco, era il suo formidabile tesoro di informazioni di ogni genere su una infinità di clienti ch’ella via via trasformava in persone, ossia in individui con cui attraverso il tempo e l’affidabilità che le dimostravano, stabiliva un rapporto di fiducia.

Cominciammo a conoscerci e ad apprezzarci. Non furono necessarie molte parole. Bastava un sorriso. Ormai passavo da lei anche quando non avevo nulla da consegnarle o nulla da ritirare. Mi piaceva guardarla e sentire la sua voce. E mi piaceva indossare le camicie che mi ricordavano di lei.

 

Impossibile vivere soli

«Qui è impossibile vivere soli», mi ripete affannata la bionda segretaria dell’Istituto. E anche il direttore esce dallo studio in cui sta tutto il giorno ermeticamente rinchiuso senza ricevere mai nessuno per dirmi: «Non siamo in Europa, qui è impossibile vivere soli, devi capirlo». Senonchè la discussione sul vivere soli non inizia dal mio, che so, manifestare l’intenzione di non volermi sposare mai, oppure di non voler condividere mai una scrivania di lavoro o un tavolino al bar dove si fa colazione. Il «vivere soli» significa che sono un temerario, un incosciente e un vero pazzo. Nevica, le strade sono coperte di sottili strati di ghiaccio, pozzanghere in ogni dove nascondono buche e buchette in ogni strada e i marciapiedi, in gran parte sbrecciati, possono divenire trappole infernali. Insomma, io posso cadere in ogni momento, e grande e grosso come sono potrei fare delle cadute rovinose, rompermi femore, tibia e perone ed essere ricoverato all’ospedale più vicino. E qui comincerebbero i miei guai. Posseggo, certo, una carta di credito, ma in breve tempo essa sarebbe, secondo quanto dicono i miei interlocutori, prosciugata e severamente colpita nella sua consistenza… Il non «vivere soli» significa, nel loro linguaggio tutto simbolico e plasticamente aderente alla realtà dell’esserci nel mondo, che non si può vivere in un contesto così periglioso senza un’assicurazione. Un’assicurazione ampia, che da tutto ti protegga, ma in primo luogo ti protegga dalle malattie e dagli infortuni, che qui possono essere all’ordine del giorno. Anche in casa, mi dice la mia serafica amica, succedono una quantità d’incidenti che possono anche essere mortali o possono ferirti gravemente: dietro ogni elettrodomestico si nasconde un nemico. Non posso dirle che l’unico strumento che uso a casa è il gas che accendo al mattino per farmi il caffè e poi tutto il resto è rimasto come l’aveva lasciato il precedente inquilino e come lo lascia la signora – che non ho mai visto – che due volte la settimana viene a far pulizie tra l’una e le quattro in un appartamento che, salvo il letto, è intonso, perfetto, così come me l’hanno consegnato un mese fa. Come io abbia potuto sopravvivere «solo» per tutto questo tempo è, per i miei amici e colleghi, un mistero. Par loro impossibile ch’io dorma tranquillo senza sognare disastri in cui sono coinvolto e accidenti di ogni genere che distruggono irrimediabilmente la mia situazione economica. Penso che in definitiva mi credano pazzo. Mi hanno consegnato i moduli per contrarre un’assicurazione presso un’agenzia che ha i suoi uffici lì, sulla strada, dinanzi a La Guardia Square, a due passi dalla lavanderia della signora cinese del nord. «Sono di origine italiana», mi hanno detto, per invogliarmi a vincere la mia riottosità a riguardo. In effetti, un paio di volte quando ripassavo dinanzi ai loro uffici dopo aver consegnato o ritirato la mia biancheria, tutto felice e contento, mi è venuta la tentazione di entrare e firmare qualsiasi modulo mi avessero presentato in forma di contratto. Quei contratti invisibili che vi fanno firmare gli assicuratori e che solo uno spirito che ha per dimensione l’eternità può leggere per intero, tanto sono lunghi, complessi, involuti e soprattutto pieni di clausole a cui si rimanda in note scritte in caratteri invisibili.

Mi sono addirittura sognato, una notte di biancore assoluto che scendeva dal cielo nel giardino – era la neve più bella ch’io avessi mai visto – che la segretaria del Remarque veniva trascinata via da un cavallo alato, mentre io giacevo ferito (ma da che? da che cosa? e come? non lo sapevo…) e il signore che s’intravede negli uffici dell’assicurazione mentre vi si guarda dalla piazza, mi salutava con la mano.

Tutte queste pressioni psicologiche sono divenute enormi quando anche gli amici della colonia degli espatriati italiani mi hanno severamente rimproverato per la mia incoscienza. Tutti a dirmi che ero un pazzo: potevo farla in Italia, l’assicurazione, era meno cara. E tutti a discutere di prezzi, ossia di premi e di opportunità ch’io avrei perduto e di rischi enormi a cui continuavo a sottopormi. Sfortuna volle che le nevicate si susseguissero e io – lo confesso – un lunedì, giorno di chiusura della Public Library, invece di girare per la città come facevo di solito, ebbene, quel lunedì (era il lunedì che seguiva al sogno che ho prima ricordato) rimasi in casa. A studiare, a leggere, ad ascoltare la musica, ripetevo a me stesso, ma in verità per paura, una paura infernale che mi aveva raggiunto e paralizzato.

Insomma, senza assicurazione in un mondo senza welfare, ci si sente veramente soli. Ossia esposti al rischio di essere abbandonati agli eventi come non mai, senza un appiglio e continuamente inseguiti dall’ansia.

Ricordavo, in alcuni scritti di … Jung?, oppure di Anna Freud? (ho come un vuoto di memoria ermeneutica, ma non contenutistica) una descrizione di crisi respiratoria per l’ansia. Comprendo che tali crisi possano essere diffuse quando si vive sospesi in un mondo in cui la vita associata non ti offre protezione alcuna e la sola protezione può venirti dalla scienza attuariale divenuta business e riparo insieme per chi al business contribuisce, ponendo al riparo se stesso e via di seguito in una serie di infiniti rimandi. Viva le assicurazioni, quindi. Meglio di nulla. Ma che esse siano presenti nell’immaginario collettivo di persone che ho imparato ad apprezzare e verso le quali provo affetto e riconoscenza, ecco, mi pare veramente inquietante e triste. Capisco la grandezza di Riesman e del suo ragionare sulla cosiddetta «folla solitaria», ossia sulla solitudine della vita associata allorquando questa non diviene sostegno di reciprocità e di forza distribuita che riequilibri tanto gli accidenti della vita, quanto le crudeltà del mercato. Crudeltà che si rivelano quando si vuole allocare tramite esso beni pubblici come la salute, l’educazione, la difesa dai rigori dell’invecchiamento.

Temerario, incosciente, continuo a vivere nell’incertezza e nel rischio, ma ormai vinco il tormento ansioso che viene dall’ascoltare i discorsi degli assicurati, mentre penso alla mia stella, che lassù, in cielo, continua a brillare.

«Un comportamento tipicamente italiano», mi dice l’impietosa e affettuosa critica presenza che mi sta a fianco.

 

L’introvabile Lermontov e i ragazzi indiani

«Avete “Un eroe del nostro tempo”, di Lermontov?». Oggi pomeriggio avrò posto questa domanda a circa sette o otto librerie, risalendo su su da Washington Square sino alla Quinta, cercando in tutte le sedi famose e celebrate della rete della vendita libraria newyorkese. E pure qui le librerie sono spesso immense, a più piani e tutte cercano di avere un luogo in cui il lettore più esigente possa concentrarsi e rilassarsi e addirittura leggere qualche pagina del libro che non acquisterà e che riporrà in bell’ordine sugli scaffali, attento a non infrangere la continuità alfabetica che presiede l’ordinamento bibliotecario.

Ma Lermontov non lo vende proprio nessuno. Non mi stupisce che le belle ragazze o i muscolosi ragazzi sbarrino gli occhi dinanzi a me e mi chiedano, i più cortesi, chi sia questo Lermontov. Non mi stupisce davvero. L’unica volta che mi sono sorpreso è stato quando mi hanno risposto, le due signorine, una nera e l’altra indiana, che stavano dietro un grande computer che dovrebbe tutto trovare e ricercare e addirittura fornirvi una piantina della libreria e degli scaffali, cosicché voi possiate raggiungere il vostro libro senza difficoltà. Esse mi hanno detto: «Non abbiamo questo suo autore italiano». Scacco matto. Chiedo da che cosa deducano ch’io sia italiano. «Dai suoi vestiti», rispondono in coro, guardando il mio cappotto e il mio abito grigio e la mia camicia e la mia cravatta con cupidigia. Mi spiace che non guardino me, con cupidigia, ma ben presto il mio narcisismo è sotto controllo, sconvolto come sono dalla loro innocente perversione. Non riesco neppure a trovare la forza di dir loro di quale nazionalità sia Lermontov: a che pro? Le stupirei soltanto e forse le vedrei ridere, come capita spesso qui quando riprendi degli studenti e indichi loro la retta via… Eppure sono due studentesse della NYU confessano (mi hanno visto spesso nei dintorni del loro dipartimento: pensa un po’ che razza di incontri puoi fare in questo piccolo sobborgo…). Frequentano i corsi di humanities… Sono piuttosto alterato. Ho fatto una coda non breve, in piedi, con un caldo asfissiante, con davanti e dietro signore e signori che bevono alla canna e che si siedono in terra dinanzi e dietro e che si spostano con piccoli balzelli sulle mani mentre strisciano il sedere su una moquette dal colore indefinibile e ti guardano beati e tranquilli, spesso addirittura sgranocchiando salatini o mangiando mele lucidissime. Quando giungo dinanzi alle due signorine sono esausto e non posso più perdere tempo per sentirmi dire delle stupidaggini. Riesco a controllarmi e me ne vado.

Sugli scaffali ci sono un’infinità di libri, ma la stragrande maggioranza di essi sono stati pubblicati nell’ultimo anno, spesso negli ultimi mesi e non v’è speranza di ritrovare un testo che non sia di attualità.

Anche i book shop specializzati nei testi universitari, ossia adottati dalle università, sono pieni di trabocchetti. Qui certo si trovano volumi che hanno alle spalle anni di pubblicazione, ma vi sono solo quelli adottati dalle università di cui si diceva o che potrebbero essere adottati perché segnalati dai professori o dai distributori che i professori o i direttori di dipartimento hanno contattato.

Anche nei favolosi antri delle librerie dell’usato, e ve ne è una che è il sogno di ogni bibliofilo del modernariato, anche in quei favolosi antri, non trovo Lermontov. Qui trovo tuttavia un po’ di comprensione e taluni sguardi benevolenti: capiscono il mio dramma e mi dicono che posso rivolgermi all’Istituto di lingua e letteratura russa, lì lo troverò senza dubbio e forse possono farmi delle fotocopie.

Ma l’incontro più bello e straordinario è quello che ho con il commesso di una libreria fuori dal tracciato consueto che percorro. È l’unico che si occupi dei clienti, in verità, perché gli altri due, un ragazzo e una ragazza, stanno alla cassa e battono rari scontrini, perché qui non è un luogo di grande passaggio: è una piccola libreria lontana dal campus, perduta tra le vie dell’immensa città e in cui mi rifugio spinto dalla disperazione e dalla rabbia. È un giovanotto indiano, dagli occhi di un nero profondissimo e bellissimo. Mi guarda sorridendo sempre, con un misto di superiorità e di rispetto, come è tipico delle caste superiori indiane, che sanno che sono già state e che ancora saranno e quindi non hanno neppure bisogno di pensare assertivamente: lo sono, assertivi, e questo basta.

Sa tutto di Lermontov e mi dice che quello è veramente un gran bel libro. Non frequenta nessuna università. La sua passione è la musica, il pianoforte e per questo studia al conservatorio. Lavora qui in questa piccola libreria per due motivi. Il primo è il più importante: la commessa della cassa è la sua fidanzata. Lo sono da dieci anni, da quando sono molto giovani e furono le loro famiglie a predestinarli al matrimonio. Si innamorarono uno dell’altro e tutto continuò bene, di bene in meglio, mi dice, tanto che sperano di potersi sposare quanto prima, appena lui avrà terminato gli studi e potrà trovare un lavoro come musicista. Aspira a diventare un grande interprete, ma sa che la strada sarà lunga e difficile. Sono disposti a ritornare in India, del resto, se qui in America non ci sarà posto «per il mio successo». Mi dice proprio così: «Per il mio successo», e questo mi colpisce. È la prima volta che sento quest’affermazione così forte. Lei è bellissima. Siede sulla piccola sedia alta della cassa con la grazia di una statua di un tempio induista, con dei seni sodi e composti come se fossero scolpiti nel granito e un sorriso dolce e sensuale. I capelli sono lunghi e sciolti e il leggero strabismo di cui vi accorgete quando vi accostate alla splendida creatura non fa che darle un fascino in più. Molti pensionati, il pubblico che frequenta maggiormente questa libreria fuori mano e periferica, ma con un’aria un po’ snob, rimangono ad ammirarla di sottecchi, mentre sprofondano nei due sfondati divani che accolgono i lettori pensosi e curiosi.

La seconda ragione per cui fa questo lavoro, dice, è «che così si può leggere moltissimo e ininterrottamente e, in tal modo, non diventare un americano. Ossia una persona che pensa solo al lavoro. Sa perché non trova Lermontov? – afferma – È perché di Lermontov non c’è bisogno, né per laurearsi, né per diventare qualcuno in questo paese. E se le cose non servono, né si cercano, né si usano. Nulla si fa per piacere e per diletto, per diventare migliori dentro». Insomma, mi dà una lezione sulla differenziazione sociale estrema di questo paese, di questa società, delle relazioni umane che la caratterizzano e dell’impoverimento spirituale che ne deriva per i più. «Vedi, se vuoi leggere Lermontov puoi andare in una biblioteca pubblica, oppure ordinarlo qui da me: ci vuole un mese, ma alla fine arriva. Ma nessuno lo terrà mai sugli scaffali: è troppo costoso e non serve a nulla, neppure alla nostra reputazione di libreria intelligente, che pur ci sforziamo di rinnovare».

È impietoso, quasi crudele, mentre mi dice queste cose e mentre guarda la sua ragazza, che ricambia il sorriso e gli fa cenno che l’ora della chiusura sta per scoccare e la loro vita – la vera vita – sta per iniziare.

 

Più soli…

Ricordo sempre quel che mi successe a Tokio molti anni or sono, nel periodo in cui il paese del Sol levante iniziava a essere al centro di un’attenzione spasmodica degli intellettuali, dei manager, dell’opinione pubblica in genere. Tutti pensavano che quello fosse il miglior paese possibile, un modello da imitare, una strada da seguire. Dimentico, per carità di patria, i volumi scritti da famosi docenti e da ben pagati imbonitori di cervelli aziendali, e con prefazioni di adoranti seguaci nelle lingue più disparate, in cui la libido della moda era talmente evidente da essere ributtante. Nel pieno dell’orgia nipponica mi recai in quella capitale per un soggiorno di un mese, su invito della più grande e famosa fondazione di quel paese. Tante cose vidi e imparai… Ma ora qui, in questa mattinata di sole, mentre gli sfiatatoi della metropolitana offrono riparo e sicuro calore alle forme che si muovono sotto i cartoni e le sdrucite tele, ora che l’umanità sommersa di New York mi si presenta dinanzi, ebbene, solo il ricordo della metropolitana di Tokio mi sale alla mente. E rivedo la lunga fila di pareti di plastica erette lungo i corridoi immensi della metropolitana dietro ai quali nessuno osava guardare e neppure accostarsi: tutti di passo svelto, a occhi quasi chiusi e a pugni stretti dopo una giornata di lavoro che pareva non terminare mai.

Solo io, una sera, sgusciato via tra le maglie dei miei accompagnatori, volli superare quelle quinte e li vidi, lì, tutti accovacciati, coperti sin sul capo, che mangiavano broda e succhiavano sigarette senza poterle fumare, sennò sarebbero stati cacciati fuori al freddo. Una di queste forme leggeva un libro della Pléiade, un libro di quella carta di riso su cui ho passato la mia giovinezza e su cui mi sono cavato gli occhi. E in francese. Gli chiesi cosa stesse leggendo. Leggeva Montaigne, ma non aveva nessuna voglia di parlare con me. Poté solo dirmi che non era un barbone per povertà, ma per stanchezza, per fatica da competizione, per fatica da stress e che aveva scelto quella vita come si sceglie la libertà.

Barboni e barboni, dunque…

Questi di New York non sono post-materialistici, ma al limite della sopravvivenza e debbono lottare contro la tolleranza zero che va benissimo contro i criminali grandi e piccoli, ma che è devastante per loro. Perché li sospinge sempre più lontano, fuori dal centro, fuori dal calore, fuori dalla benevolenza, lontano da quella filantropia delle classi agiate che non supera i confini di Central Park e di Manhattan e che è quindi un bene prezioso, ma raro, rarissimo. È il barbone che deve avvicinarsi a lei e non viceversa. La borghesia americana compassionevole e benevolente li ama, i barboni, ma solo se sono a due passi dall’isolato e solo se sono barboni veri, che non leggono nulla, solo se fumano e solo se si picchiano ubriachi. Debbono essere completamente diversi dal soggetto benevolente, per non generare terrore, paura, sconcerto. Spettacolo desolante, umiliante, ma rassicurante: tutti sono al loro posto.

Ma questa paura sempre risorge e ora neppure più dei barboni ci si può fidare, dopo il terrorismo, il crollo del mito dell’invincibilità e della separatezza sociale assoluta. Li vedo ogni giorno da qualche tempo, i barboni, e aspetto quell’ora della notte o del primo mattino quando non li troverò più: caricati su camion ben riscaldati e portati lontano, dalle parti di Queens, dove la filantropia non li raggiungerà mai più e nessuno, nessuno, potrà neppure sognare di trovare qualcuno di loro che legge Montaigne. E la società, per incanto, ritornerà in squadra. E tutti noi saremo più soli e più poveri.

 

Ricordo di Fuà

È una donna di età indefinita. Dalla pelle liscia e piena e dalla figura minuta, con occhi vivissimi e simpatici. Tutto sprizza attivismo, energia, volontà di fare e di vivere. La incontro, a volte, quando lascio il Remarque dopo le mie visite la sera molto tardi o, spesso, a notte fonda, quando ritorno in ufficio per verificare se mi hanno lasciato qualche messaggio. La luce del suo ufficio è sempre accesa e s’intravede dalla mia finestra. Per raggiungerlo devo salire una piccola rampa di scale, svoltare a destra, percorrere un corto corridoio ed eccola lì, che, indefessa, scrive sino a notte tarda, finalmente libera da telefonate, visite di inaspettati amici o amiche, di studenti che arrivano trafelati per esporle un problema, per raccontarle le loro avventure. Svolge una funzione delicatissima, fondata sulle relazioni personali e sul buon funzionamento della grande quantità di attività che la città di New York e la sua università mettono a disposizione per gli studenti e per tutti coloro che vogliono avere rapporti duraturi e proficui con l’università. La sua esperienza nel campo dell’istruzione superiore è straordinaria. Ha girato il mondo. Ha visitato le principali istituzioni internazionali di istruzione superiore, parla correttamente lo spagnolo e il francese, legge il tedesco – virtù rarissima tra la classe dirigente nordamericana, che altro non sa, molto spesso, che il suo inglese e vive in una sorta di completo isolamento culturale dal resto del mondo. Vederla, per me, è sempre un piacere. Lei tira fuori dal suo armadietto due bicchierini di plastica e vi versa uno sciroppetto di ribes o di lamponi che, mi dice, fa con le sue mani quando ha un po’ di tempo, durante i weekend. È ormai una sorta di rito. Parliamo di tutto. Finalmente né dell’Italia, né degli USA e questo è quasi un miracolo, qui negli States. Parliamo soprattutto del Sud America, che entrambi amiamo e conosciamo assai bene. Lei ha un vantaggio nei mie confronti: conosce anche il Centro America, che a me è completamente sconosciuto e sul quale so solo ciò che ho appreso dai libri e dalle letture dei quotidiani latinoamericani nel corso dei miei soggiorni in quei paesi. Siamo entrambi convinti che quel continente avrà un grande futuro, ora che la guerra fredda è terminata e che le politiche neoliberiste saranno applicate con una mano più leggera e meno rivolta a sostenere soprattutto le fortune dei grandi capitali privati, anziché dei paesi a cui si impongono politiche forsennatamente ortodosse. Siamo entrambi seguaci di Hirschman e delle sue teorie riformiste ed endogene sulla crescita e sullo sviluppo. Il tempo non passa mai quando discutiamo. È una dimensione che scorre su di noi e a cui ci abbandoniamo felici di poter riflettere in libertà e con una ampiezza che qui non si trova così facilmente.

Una sera, saranno state le ventidue, ora locale, la vedo rabbuiata e triste e ascolto, non posso farne a meno, una sua telefonata a un amico medico, o così credo di capire, a causa del mio inglese maccheronico e della concitazione della conversazione.

Mi svela l’arcano. «Questa sera – mi dice – non parleremo di Mexico City e neppure del Tigre di Buenos Aires, ma dell’America e delle sue relazioni sociali». Mi fa vedere le statistiche che ha appena ricevuto. Sono relative alle condizioni di salute delle ragazze che alloggiano nei campus delle università nordamericane. Una lettera ufficiale invita tutti i responsabili dei servizi sociali a tenerne conto e a prendere, laddove è possibile, i provvedimenti del caso. Non capisco la sua tristezza e la sua indignazione. C’è di tutto: dalle malattie polmonari a quelle veneree, ma in complesso mi pare il ritratto di una popolazione sana, bene assistita e ben curata, con un invidiabile livello di vita che si riflette negli indicatori che leggo frettolosamente e un po’ irritato e sorpreso. Irritato perché avrei voluto chiederle un consiglio su quale fosse il libro più interessante da leggere sulla violenza in Colombia oltre a quello di Pecaud e ora non posso più farlo. E sorpreso, perché è la prima volta che mi coinvolge in un aspetto del suo lavoro, sino a ora riservatamente svolto e sempre lontano dalle nostre discussioni.

Questa sera è diverso. Non ne può più. Vuole sfogarsi e sul suo viso si profilano tutti i segni degli anni, che sono molti, anche se spesso lei e coloro che la circondano se ne dimenticano. Apro io l’armadietto e verso nei due bicchieri quel tanto di sciroppo che so farle piacere e vi aggiungo un po’ d’acqua. E le chiedo di che cosa si tratti, scusandomi per la mia ignoranza. Mi indica una data. Negli ultimi dieci anni il livello assoluto e la media percentuale annuale delle ragazze affette da mononucleosi è aumentata in modo esponenziale. È vero. Confesso che non l’avevo notato, distratto com’ero dai dati relativamente buoni riferiti alle altre affezioni. Non so neppure che cosa sia la mononucleosi e come si trasmetta. E lei mi spiega, con poche parole, quanto rapida possa essere la caduta delle difese immunitarie, allorché si passi da un ambiente super-igienizzato, dilavato da saponi, saponette, creme e cremine di ogni genere e per ogni luogo del nostro corpo (e in primis quelli più intimi), a un ambiente promiscuo, dove la pulizia è standardizzata, come appunto nei college, dove ci si lava da soli o in comune, ma si usano sempre servizi spesso non personali, si mangia in grandi mense e si condividono germi e bacilli. E soprattutto, come pare che ovunque accada, l’attività sessuale sia diffusa e molto praticata in forma stocastica e da cacciatori e cacciatrici che hanno ormai sconvolto ogni antica regola di prevenzione e di riservatezza. Il problema è che questa promiscuità segna una profonda soluzione di continuità con l’universo di vita dei giovani che passano dalla vita fondamentalmente familiare a una vita fondamentalmente collettiva. E che questa soluzione di continuità colpisce in primo luogo le ragazze, anziché i ragazzi. Sono le prime, infatti, a essere bombardate dalla propaganda ininterrotta e sono le prime a stabilire con la madre un legame fondato proprio sulla condivisione di questo universo simbolico. Per esso e tramite esso la donna diviene portatrice di una femminilità asettica e tutta connotata da un valore «reputazionale» ferocemente igienista: «Siamo più pulite che mai e quindi siamo sane e belle». Si tratta di una relazione madre-figlia caratterizzata dall’orrore per la sporcizia – un mito proprio dell’universo nordamericano per cui si preferisce fare il bagno nel cloro della piscina piuttosto che tra il placton del mare con il pulviscolo delle alghe – e dall’assolutilizzazione del mito della pulizia integrale. Esso sostituisce, ormai, quello della verginità. Non si è vergini, ma si è pulite. Al college non si è vergini e neppure si è pulite, o meglio, non si può più essere pulite come lo si era nell’universo parentale della grande madre dei detersivi per l’igiene intima.

Le conseguenze di tutto ciò non sono soltanto di ordine morale, con una accentuazione della fragilità dell’esistenza, esposta ai miti di un’industria della persona che non cura, ma espone, invece, ai peggiori tormenti allorché si viene in contatto con la vita vera, quella che non passa per le tonnellate di creme intime e di saponi liquidi. Le conseguenze sono stati febbrili continui, stanchezze che debilitano e rendono estremamente esposte a tutte le malattie le donne nel pieno della loro giovinezza, creando problemi organizzativi, logistici, finanziari e, non ultimi, di immagine, ai college di ogni ordine e grado.

Di questo, dunque, parliamo stanotte.

E a me, ma certo anche a lei, passano dinanzi agli occhi i ninos de rua brasiliani, i figli dei minifundisti del Nord argentino, su a Salta e a Entre Rios, i piccoli indios delle Ande dell’Ecuador e delle tribù del sud del Cile, che tanto hanno bisogno di igiene per vincere le malattie fondamentali e per sopravvivere.

Ricordo allora, come in una epifania, ciò che mi diceva Giorgio Fuà prima di morire, in quel di Ancona, sul terrazzo della sua modesta casa collinare e lo ripeto anche alla mia notturna amica sconsolata: «Compito degli economisti della mia generazione fu quello di produrre più merci in Europa e nelle aree periferiche del centro dell’accumulazione. Il compito vostro sarà produrre meno merci e passare dalla crescita allo sviluppo su scala planetaria».

Questa sera cerchiamo insieme un taxi: la accompagno nella notte, e mentre chiudo la porta dell’auto che la riporta a casa e mi avvio verso il mio appartamento, mi accorgo che è quasi l’alba e che un altro giorno sta per iniziare.