La morte non si vive. Medico e paziente di fronte al testamento biologico

Di Ignazio R. Marino Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

L’ingannevole banalità del passo di Derrida introduce un argomento delicato come quello del testamento biologico (o testamento di vita o dichiarazioni anticipate di trattamento) che impone un’analisi dell’essere e del morire e del loro profondo rapporto. Alla base dello stesso concetto di persona, elaborato nella filosofia occidentale da pensatori come Kant e Stuart Mill, resta l’idea di un agente autonomo, dotato di intenzionalità e libertà di azione. La morte, d’altro canto, è tuttora rappresentata come limite, confine o il passaggio di un confine.

 

L’ingannevole banalità del passo di Derrida1 introduce un argomento delicato come quello del testamento biologico (o testamento di vita o dichiarazioni anticipate di trattamento) che impone un’analisi dell’essere e del morire e del loro profondo rapporto. Alla base dello stesso concetto di persona, elaborato nella filosofia occidentale da pensatori come Kant e Stuart Mill, resta l’idea di un agente autonomo, dotato di intenzionalità e libertà di azione. La morte, d’altro canto, è tuttora rappresentata come limite, confine o il passaggio di un confine. Ed è anche un tabù di cui nessuno vuole parlare, soprattutto quando riguarda se stessi. Eppure entrambi i concetti, l’essere e il morire, per quanto antitetici, sono necessari l’uno all’altro.

Lo sviluppo della pratica della cosiddetta dichiarazione di volontà anticipata, che è stata recente oggetto del lavoro del Comitato nazionale di bioetica (CNB) e che è approdata lo scorso marzo in commissione Affari sociali della Camera dei deputati, prima di essere votata in parlamento, legittima anche una rivisitazione di quella che Derrida definirebbe «antropologia della morte».2 L’atteggiamento dell’uomo davanti alla propria fine è sensibilmente cambiato nel tempo: considerata fino alla fine del XVIII secolo come il destino naturale, il limite insuperabile, il confine che non può essere spostato e su cui l’uomo non ha alcun potere di arbitrio, con l’evoluzione della medicina a partire dagli inizi del Novecento e con la possibilità di morire in un luogo diverso dalla casa, ossia in ospedale, la morte giunge a dipendere da un sapere tecnico, quello medico. Come scrive Ariès: «la morte [nel Novecento] è un fenomeno tecnico ottenuto con l’interruzione delle cure, cioè, in modo più o meno confessato, con una decisione del medico e dell’équipe ospedaliera […] la morte è stata scomposta, frazionata in una serie di piccole tappe di cui, in definitiva, non si sa quale sia la morte vera, quella in cui si è perduta la conoscenza, o quella in cui è venuto meno il respiro…».3

La percezione dell’operato del medico come frutto di una tecnica e non più come rituale religioso emerge già a cavallo fra V e VI secolo A.C. all’interno dello stesso Giuramento Ippocratico. Fin da allora, il paradosso della medicina consiste nel fatto che, mentre per definizione il prodotto tecnico non è naturale, la tecnica medica opera specificatamente in vista di uno stato naturale, la salute.

La morte oggi è morte tecnica e proprio in virtù di questa caratteristica emerge quello che può essere definito il paradosso dell’uomo che, pur padrone della tecnica, non è mai padrone della propria morte. Ecco quindi che si apre la strada all’esercizio di una responsabilità maggiore di quella di qualsiasi altra problematica etica, una responsabilità che si pone sul limite tra la necessità della tecnica e la libertà che essa ci offre. Del resto, l’analisi del Dasein (l’esserci) contenuta in Sein und Zeit introduce il concetto di una morte che è impossibile da raggiungere, che, per dirla con Wittgenstein, «non è evento della vita, non si vive».4

È partendo da questo tipo di riflessioni storico-filosofiche che un argomento come quello del cosiddetto testamento biologico dischiude sfumature che richiedono un approccio complesso e articolato, il cui filo si dipana e riconduce al tempo stesso al cuore dell’essenza dell’uomo: entrano in gioco concetti come quelli di autonomia, libertà, dignità, ma anche l’esplorazione dei limiti, spesso invalicabili al di là del credo religioso, di onnipotenza e superomismo. E ancora, aspetti forse di più immediata urgenza, sfumature legali e culturali, ad esempio, intimamente legate all’idea stessa delle dichiarazioni anticipate di trattamento a prescindere dal paese di applicazione.

In Italia, i principali contenuti dell’accordo raggiunto dal Comitato nazionale di bioetica nel dicembre 2003, configuratosi come linee guida per un disegno di legge, definiscono il testamento biologico come uno strumento che soddisfi l’esigenza di espandere il principio di autodeterminazione nei confronti dei trattamenti sanitari anche nelle situazioni in cui la persona interessata non sia più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso informato. Secondo la proposta del CNB, il medico deve tenere in considerazione le volontà espresse dal paziente nel testamento, ma non ha l’obbligo assoluto di rispettarle. Nel caso non le rispetti dovrà giustificare la sua scelta con un atto formale scritto da inserire nella cartella clinica del paziente che spieghi perché ha disatteso quelle richieste. Inoltre, come in altri modelli di testamento biologico già utilizzati all’estero, ad esempio negli Stati Uniti, viene contemplata la figura del tutore, una sorta di garante indicato dal firmatario del testamento con il compito di intervenire nel caso in cui si dovessero presentare difficoltà di interpretazione delle volontà. Il testamento di vita potrà essere formalizzato da cittadini maggiorenni, per iscritto, in presenza di un medico, su una scheda molto circostanziata dove sono previste alcune situazioni in cui potrebbe essere richiesta l’interruzione delle cure. La Consulta di bioetica, organismo non governativo distinto dal Comitato, ha addirittura già pronto un modello di cosiddetta «biocard».

Il lavoro del CNB prende avvio dai principi di autonomia decisionale del paziente il cui fondamento filosofico è già stato ricordato e che sono già contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nella Convenzione sui diritti umani e la biomedicina nota come Convenzione di Oviedo (1997) e nel Codice di deontologia medica. Proprio ribadendo tali principi, la proposta italiana ne sollecita un’attuazione coerente e corretta. Ai fini di un auspicabile intervento legislativo e della definizione di una normativa chiara, il CNB individua quattro aree di particolare attenzione: il pericolo di una formulazione troppo generica ed astratta delle direttive anticipate, l’accettabilità del loro contenuto, l’affidabilità del documento e le modalità di attuazione dei desideri espressi dal firmatario. La soluzione individuata per ogni diverso punto riconduce sempre alla necessità di stabilire, mantenere e promuovere un dialogo aperto fra medico a paziente. È importante infatti difendere il paziente dall’atteggiamento paternalistico del medico, ma al tempo stesso tutelare il personale clinico dalla possibilità di cattiva interpretazione (e dalle conseguenze legali) di una dichiarazione di volontà anticipata sommaria e compilata in modo approssimativo, che non preveda, per esempio, la possibilità di interpellare uno o più soggetti fiduciari nominati in precedenza da un paziente incapace di intendere e di volere perché in coma. Risulta cruciale la chiarezza di informazione e la comunicazione fra medico e paziente, fattori imprescindibili affinché si instauri la necessaria fiducia. Perfino la difficoltà o impossibilità di prevedere tutte le opzioni pratiche future, le condizioni cliniche, le terapie, gli scenari, e di costruire il testo delle direttive anticipate nella maniera meno generica possibile dipende in grande misura dalla capacità (e volontà) degli operatori sanitari di comunicare efficacemente, in modo da permettere al futuro possibile paziente terminale di prendere decisioni autonome, estreme e delicate, con cognizione di causa.

Il documento preparato dal CNB ha integrato con grande misura le disposizioni già fatte proprie da altri paesi, segnalando al tempo stesso alcuni punti di possibile dubbio o di pericolosa interpretazione. Per esempio, a chi guarda con sfiducia al testamento biologico per timore di una subdola introduzione dell’eutanasia, la proposta italiana offre una chiara certezza: è impossibile confondere i concetti di testamento biologico e «dolce morte». Sia la legge che il codice deontologico dei medici nel nostro paese condannano ogni forma di eutanasia e di accanimento terapeutico, ossia il prolungare le terapie anche quando ogni prospettiva di miglioramento sia tramontata. Le direttive anticipate di volontà mirano a proteggere il paziente, non più in possesso delle proprie facoltà di intendere e di volere, proprio nei confronti della seconda eventualità. Le indicazioni del Comitato sottolineano infatti che «(...) il diritto che si vuol riconoscere al paziente di orientare trattamenti a cui potrebbe essere sottoposto, ove divenuto incapace di intendere e di volere, non è un diritto all’eutanasia, né un diritto soggettivo a morire che il paziente possa far valere nel rapporto col medico (...) ma esclusivamente il diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche anche nei casi più estremi e tragici di sostegno vitale, pratiche che il paziente avrebbe il pieno diritto morale e giuridico di rifiutare, ove capace». È chiara e più volte esplicitamente ribadita l’idea che le direttive impartite dal firmatario del testamento sono da intendersi come «desideri», come la possibilità di scegliere una fine dignitosa, limitare le sofferenze e rifiutare l’accanimento terapeutico. Essi sono, inoltre, reversibili e/o modificabili in qualsiasi momento. In quest’ottica, il testamento di vita offre anche l’occasione per ridefinire il concetto generale di cura che si traduce, soprattutto nella fase conclusiva, nell’avere diritto a diagnosi, terapie e controlli accurati, nel condurre un’esistenza piena fino alla fine e nel morire come «sperato», appunto.

Un’altra osservazione che viene spesso avanzata dai detrattori del testamento di vita riguarda il supposto limite insito nella temporalità di applicazione delle direttive e la conseguente temuta perdita del ruolo centrale da assegnare al paziente. È il medico, in questo caso, a dovere e potere valutare, al meglio delle sue capacità, quando ha inizio ciò che un gergo tecnico-legale ancora troppo vago definisce come «condizione terminale» o «malattia incurabile» o ancora «seria incapacità». Gli scettici si domandano, come si può essere certi che quello che oggi siamo sicuri di desiderare sarà un bene per noi anche in un futuro in cui i nostri bisogni saranno così considerevolmente diversi? Insomma, come possiamo accettare di proiettare il concetto di autonomia e autodeterminazione in un futuro, anche molto lontano, in cui non saremo più empiricamente autonomi? In realtà non sussiste alcun paradosso, poiché è la stessa teoria della persona, citata in apertura, che rende legittimo il riconoscimento della competenza passata circa l’incompetenza presente. Poiché sento affettivamente, do forma a ordini, gerarchie e strutture di valore, che orientano il mio agire e la mia valutazione dell’agire, ma anche il modo peculiare che ho di comportarmi, sentire, pensare, progettare e, dunque, ciò che segna al tempo stesso la mia integrità e coerenza morale e la mia riconoscibilità come persona, senza limitazione temporale. Sul versante della protezione della classe medica, invece, rispettare un testamento biologico non dovrebbe mai portare ad agire contro il miglior interesse del paziente. Da un lato, infatti, nessun testo firmato e autenticato può contenere direttive contrarie al Ccodice di deontologia medica. In secondo luogo, la nomina di uno o più tutori, suggerita nella proposta del CNB, mira a diminuire ulteriormente la possibilità di dubbia interpretazione. Siamo ben lontani dal caso rappresentato dall’Olanda, in cui il medico può addirittura decidere di porre fine alla vita del paziente anche in assenza di desiderio eutanasico espresso, se ritiene che ciò rientri nel suo «miglior interesse».

Negli Stati Uniti il diritto all’autodeterminazione del paziente (Patient Self-Determination Act) è stato sancito dal Congresso nel 1991 ed obbliga tutte le strutture che usufruiscono del servizio sanitario nazionale (Medicare e Medicaid), quindi la quasi totalità degli ospedali pubblici e privati, ad informare per iscritto i pazienti adulti del diritto di prendere le proprie decisioni in campo medico. Al momento del ricovero vengono, infatti, consegnate al paziente dettagliate informazioni sul diritto di ricevere e/o rifiutare trattamenti medici o chirurgici e di formulare direttive anticipate. L’istituzione deve inoltre accettare di documentare nella cartella clinica se il paziente ha stabilito di avvalersi della dichiarazione di volontà anticipata. Si impegna altresì a fornire la migliore assistenza possibile al paziente e a mettere a disposizione del personale medico e infermieristico un training mirato per la gestione delle dichiarazioni di volontà anticipata.

Personalmente ho sottoscritto il mio living will, il mio testamento di vita, negli Stati Uniti e ho indicato fino a che punto desidero che si spingano le terapie mirate a prolungare la mia esistenza nel caso sia colpito da una malattia terminale. Ho anche designato un tutore o garante delle mie volontà. Per motivi legati alle mie convinzioni, non credo di potere né di dovere decidere della mia morte, ma penso di avere il diritto di scegliere una fine dignitosa, possibilmente non dolorosa e di allontanare il rischio dell’accanimento terapeutico. Sono convinto che, così come li ho indicati nel mio testamento di vita, i miei desideri siano di facile comprensione ed esecuzione da parte di un medico. Ben diverso è il caso di un testo che entri eccessivamente nei dettagli tecnici delle terapie richieste o rifiutate, limitando pericolosamente l’operato del personale sanitario. È in casi simili che si corre il rischio di minare l’essenziale equilibrio fra accanimento terapeutico e giudizio professionale dell’equipe medica. La proposta formulata dal CNB affronta con misura il difficile problema della definizione della tenue linea di confine che spesso separa la benefica ostinazione clinica dall’accanimento terapeutico fine a se stesso. Da un lato, infatti, il Comitato ha voluto evitare la genericità di chiedere solo di astenersi dall’accanimento terapeutico, dall’altro ha giustamente scelto di non imporre al paziente indicazioni troppo dettagliate ma che, al tempo stesso difficilmente esaudirebbero tutte le possibili situazioni future.

Ricordo ancora dolorosamente il caso di un paziente americano trapiantato di fegato ed entrato in coma dopo l’intervento. Nonostante le sue condizioni fossero momentaneamente critiche, avevo la certezza che ce l’avrebbe fatta, che entro pochi giorni si sarebbe risvegliato, avrebbe avuto probabilmente un decorso post-operatorio complesso, ma sarebbe ritornato e casa, a vivere e lavorare normalmente. Tale convinzione mi derivava dall’esperienza passata, dall’osservazione di casi simili, dalla conoscenza approfondita della patologia e dei suoi molteplici possibili sviluppi. Eppure, a niente servirono le mie accorate raccomandazioni e il mio appello al Comitato etico dell’ospedale. Il fratello, giunto urgentemente dal Texas dove viveva, insistette affinché venissero rispettate le dettagliate volontà del congiunto, che imponevano l’interruzione immediata dell’utilizzo di qualsiasi mezzo di supporto vitale, in quel caso la dialisi. Sono tuttora convinto che se avessimo aspettato solo pochi giorni quel paziente si sarebbe risvegliato dal coma ed avremmo potuto condurlo alla guarigione. È in casi come questo, quindi, che un testamento di vita, soprattutto se compilato in maniera troppo vincolante, rischia non di scongiurare l’accanimento terapeutico bensì la concreta possibilità di recupero di un paziente non spacciato. Esiste quindi la necessità di assicurare con strumenti giuridico-legali che il giudizio professionale del personale medico debba essere esercitato, sempre e solo nell’interesse della salute e della dignità del paziente. Questo include, talvolta, l’opportunità di chiamare in causa l’esperienza, la casistica pregressa, l’autorità della letteratura scientifica. Non dimentico la telefonata ricevuta a sei mesi di distanza dal decesso del paziente: il fratello teneva a spiegarmi le sue ragioni, a sottolineare che aveva ritenuto giusto procedere come indicato nel testamento biologico del paziente. Ma io ebbi l’impressione che lo volesse fare accettare soprattutto a se stesso.

Se un tale atteggiamento può apparire più tipico di una cultura come quella americana, dove all’interno del tessuto sociale e dello stesso nucleo familiare valori come indipendenza ed individualità vengono celebrati spesso a discapito di sentimenti di solidarietà e comunione, nel nostro paese è inevitabile un più debole concetto di autonomia personale anche in presenza di un documento come il living will. Forse anche per questo la proposta del CNB auspica una compilazione non generica delle indicazioni rivolte all’equipe medica, ma insiste soprattutto sul ruolo giocato dall’auspicabile figura del «fiduciario», che dovrebbe interloquire con il personale sanitario in tutti quei casi in cui le direttive non siano chiare.

È certamente prioritaria una campagna di informazione corretta e capillare, che prenda spunto, anche in maniera critica, da simili operazioni promosse in passato dal ministero della salute. Come, ad esempio, all’applicazione della legge n.91 del 1 aprile 1999 sulla donazione degli organi. In quel caso si sollevarono controversie proprio sulla modalità di fornire informazioni chiare a tutti i cittadini. Sulla base di tale esperienza, il testamento biologico potrebbe essere formalizzato in un modulo standard e contenere anche una clausola relativa alla volontà di donare (o non donare) organi e tessuti destinati al trapianto; d’altra parte la decisione sulla eventuale donazione dei propri organi dopo la morte è intimamente legata alle considerazioni che ognuno di noi dovrebbe fare sulla fine della propria vita. La morte non si vive e quindi è logico meditare in vita e prendere decisioni atonome e ragionate in relazione alla propria morte. Il living will potrebbe divenire un documento da distribuire ad ogni paziente che, anche per una procedura banale, venga ricoverato in una struttura ospedaliera, ovviamente con il supporto e l’assistenza di personale preparato ad illustrare il modulo, la sua applicazione e le sue conseguenze con la dovuta competenza e l’atteggiamento più adeguato. L’esempio americano, in questo caso, potrebbe veramente aiutarci a rendere un argomento così delicato immediatamente accessibile ai pazienti ed ai loro familiari e amici. Al tempo stesso, la proposta potrebbe anche concorrere a risolvere il problema della compilazione del database nazionale delle dichiarazioni di volontà in tema di trapianti d’organo.

La stampa italiana ha recentemente riportato la notizia della morte di una donna che ha rifiutato l’amputazione di un arto devastato dalla cancrena. Malgrado gli appelli e gli inviti a tornare sulla sua decisione, nonostante la mobilitazione di politici, medici e religiosi, ha aspettato che l’aggravarsi del suo diabete mal curato la uccidesse. È sempre doloroso assistere alla morte di un malato e immagino la frustrazione dei medici della paziente che ha scelto di rifiutare le cure essendo ancora nel pieno possesso delle proprie facoltà. È un caso, questo, molto diverso dalla scelta permessa negli Stati Uniti dai cosiddetti DNR o “do not resuscitate orders”, ossia la volontà espressa dal paziente di non venire sottoposto ad alcuna tecnica rianimatoria, mirata ad esempio al ripristino dell’attività cardiaca in caso di arresto cardiocircolatorio.

Senza giungere a casi così estremi, emerge chiara la necessità di aumentare l’impegno di medici e istituzioni per migliorare le condizioni di vita dei pazienti terminali, così come la continua promozione della pratica di una medicina veramente centrata sulla persona, di un orientamento epistemologico fondato sul riconoscimento che il valore e la valorizzazione dell’uomo, dal concepimento alla morte naturale, è il fine del sapere medico. La persona non può essere per nessun motivo strumento di conoscenza, di interessi economici o politici, di ideologie, leggi, teorie o dogmi religiosi. I medici in particolare sono chiamati a modificare l’approccio riduzionista alla scienza, lavorando per un’integrazione che faccia del paziente e del rapporto medico-paziente i protagonisti veri della scena sanitaria. La dignità della persona risiede nella realizzazione della sua libertà e nel rispetto di ogni decisione, comprese quelle che riguardano le terapie da applicare o non applicare nelle fasi finali della vita. Un medico deve essere in grado di valutare quando è il caso di proseguire le terapie e quando, invece, è più giusto fermarsi, evitando un accanimento terapeutico che non rispetterebbe la dignità del paziente.

D’altra parte, l’esistenza di direttive anticipate scritte dal paziente stesso costituiscono un supporto straordinario in momenti decisionali così complessi, come quelli relativi all’eventuale sospensione delle cure. Forse il percorso migliore da seguire per un parlamento è quello di riconoscere la legittimità di un testamento biologico, lasciando però i dettagli tecnici a linee guida che possono essere modificate ed adattate nel tempo. Infatti, viviamo in un’epoca straordinaria dal punto di vista dei progressi medici e criteri terapeutici che potevano sembrare fantasie solo alcuni anni addietro costituiscono oggi concrete possibilità. Questo, tuttavia, non significa che ognuno sia obbligato a usufruire di tutte le terapie d’avanguardia. Se giunti in una età avanzata soffriamo di una malattia che può divenire terminale se non curata con mezzi straordinari, è giusto poter disporre della libera scelta e decidere se lottare per la propria sopravvivenza o accettare la conclusione della propria vita. È il caso, ad esempio, di pazienti tumorali con sintomatologia già conclamata; per loro un ente privato impegnato nello studio e diffusione delle cure palliative ha proposto una «carta delle volontà del malato», un documento che, sfruttando la prevedibilità dell’evoluzione della patologia in corso, presenta una lista dettagliata di scenari ed opzioni aperte al paziente. Si tratta della cosiddetta pianificazione di cure avanzate. Nel corso della mia esperienza di medico mi sono confrontato con molteplici situazioni, una diversa dall’altra e in alcuni casi ho ritenuto giustificabili delle terapie «estreme», sulla base di alcuni obiettivi perseguiti con forte determinazione dal paziente. Ricordo con chiarezza il caso di un uomo affetto da un tumore molto esteso che decise di sottoporsi a un trapianto multiviscerale di fegato, stomaco, pancreas e intestino, allora estremamente sperimentale, per poter vedere l’unico figlio conseguire la laurea. Soffrì molto, ma visse gli anni necessari per realizzare il suo desiderio, l’ultimo progetto di una vita.

Altri pazienti, in situazioni cliniche simili ma in assenza di analoghe forti motivazioni, hanno optato per scelte diverse. Entrambe le strade sono legittime, ma credo che se ognuno potrà maturare individualmente la propria scelta, nella serenità di valutazioni personali, ciò costituirà un notevole progresso rispetto a decisioni prese paternalisticamente per i pazienti da medici o familiari. Al tempo stesso, mi auguro che la medicina non venga mai ridotta ad una mera esecuzione di prestazioni a richiesta. A tale, duplice fine, è necessario un intervento legislativo che tuteli innanzitutto la dignità della persona (medico e paziente). Per questi motivi auspico una discussione serena e ragionata all’interno delle aule parlamentari che sono chiamate a valutare il disegno di legge, affinché il testamento biologico venga introdotto celermente anche in Italia nell’interesse di ogni cittadino libero e responsabile.5  

 

 

 

Bibliografia

1 J. Derrida, Aporie, Bompiani, Milano 1999.

2 F. Ferrari, Morte, Natura e Tecnica, in «Etica & Politica», 1/2003, Vol. V.

3 Ph. Ariés, Storia della morte in Occidente, Rizzoli, Bur saggi, Milano 1998, p. 70.

4 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1968, proposizione 6.4311.

5 Ringrazio Claudia Cirillo per il prezioso aiuto nella stesura dell’articolo e Alessandra Cattoi per la revisione editoriale. Sono grato al prof. Demetrio Neri (coordinatore del gruppo di lavoro del Comitato nazionale di bioetica sul testamento biologico) per la cortese consulenza critica.