Vecchio e nuovo antisemitismo

Di David Meghnagi Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

Le origini politiche e sociali dell’antisemitismo classico sono state largamente studiate, i codici mentali e culturali ampiamente analizzati. Si sa che l’insegnamento del disprezzo, coltivato dal cristianesimo per secoli, ha fatto da sfondo all’affermazione e allo sviluppo nell’Europa moderna dell’ideologia propriamente razzista. Ma si sa anche che tra le due forme d’ostilità antiebraica, quella tradizionale di matrice religiosa e quella moderna, esiste un salto logico irriducibile, costituito dal razzismo moderno.

 

Le origini politiche e sociali dell’antisemitismo classico sono state largamente studiate, i codici mentali e culturali ampiamente analizzati. Si sa che l’insegnamento del disprezzo, coltivato dal cristianesimo per secoli, ha fatto da sfondo all’affermazione e allo sviluppo nell’Europa moderna dell’ideologia propriamente razzista. Ma si sa anche che tra le due forme d’ostilità antiebraica, quella tradizionale di matrice religiosa e quella moderna, esiste un salto logico irriducibile, costituito dal razzismo moderno.

Ben diversa è la situazione di fronte al nuovo antisemitismo, che si alimenta della tragedia del conflitto arabo-israeliano e ha come sfondo un’ostilità irriducibile nei confronti degli ebrei come Stato, se non come nazione. Un antisemitismo che non scaturisce necessariamente dall’ostilità verso gli ebrei come singoli, anche se poi alla fine è contro di loro che si rivolge. Ma verso gli ebrei in quanto comunità politica, simbolicamente rappresentata dall’esistenza di uno Stato che assume su di sé tutte le simbologie negative che un tempo erano rivolte contro gli ebrei e l’ebraismo. Un gioco di spostamenti simbolici dove l’ambivalenza e l’ostilità possono liberamente dispiegarsi, senza incorrere nell’accusa d’antisemitismo.

Non tutti coloro che criticano la politica dei governi che si sono succeduti in Israele sono antisemiti. Tale premessa è necessaria per evitare fraintendimenti. Non è il diritto alla critica a essere in discussione, bensì la sua rappresentazione, la forma che assume l’accusa, i diversi pesi e misure utilizzati per argomentarla, i luoghi comuni che animano la scena del discorso, il gioco perverso dei simboli, con le «vittime» che si trasformano in «carnefici». Per non parlare della falsificazione dei fatti, la demonizzazione di una parte rispetto all’altra, quando invece le due parti avrebbero tanto bisogno di essere aiutate a riscoprire la comune tragedia che le affligge.

L’antisemitismo non è necessariamente collegato a un’ostilità personale verso gli ebrei. L’antisemitismo affonda le sue radici in stereotipi che si sono formati lungo l’arco di secoli e decenni. Quando il presidente Chirac reagisce male se qualcuno gli ricorda che in Francia non c’è giorno in cui non si verifichi un attentato contro le persone e le istituzioni ebraiche, significa che quella consapevolezza si è in parte appannata. Allora non ci si può meravigliare se il Consiglio d’amministrazione di una prestigiosa università francese chiede di boicottare le istituzioni universitarie israeliane; né stupirsi se il direttore di una rivista inglese può sentirsi autorizzato a espellere due ricercatori dal comitato, per il solo fatto d’essere cittadini israeliani.

Qualche tempo fa, un autorevole accademico dell’Università di Bologna ha comunicato la sua indisponibilità a partecipare a un convegno sulle espulsioni dei docenti ebrei dalle università durante il fascismo, fintanto che gli ebrei italiani non avessero espresso un’identica solidarietà verso i palestinesi. L’autore di questa sciocchezza non è un antisemita, almeno nel senso classico del termine, ma il suo discorso va in quella direzione, in quanto unifica in un tutt’uno indifferenziato gli ebrei e gli israeliani, rendendoli partecipi di una colpa collettiva come, di fatto, accadeva un tempo con le accuse cristiane contro gli ebrei. Non a caso gli ebrei che hanno contestato la recente e vergognosa decisione del consiglio d’amministrazione dell’Università Parigi VI, hanno dovuto ricordare che il boicottaggio colpiva le istituzioni impegnate per la pace. La sottolineatura, utile sul piano politico, perché mette in evidenza la stupidità degli autori di tale mozione, è la spia di quanta strada abbia fatto il pregiudizio. Se, ogniqualvolta una persona denuncia l’antisemitismo collegato alla crisi mediorientale deve in ogni caso premettere che è contro la politica di Sharon e che è per la pace, vuol dire che gli stereotipi hanno fatto molta strada. Uno studio delle figure retoriche utilizzate per parlare del conflitto mediorientale potrebbe occupare un intero libro.

Per accettare pienamente l’esistenza di Israele la Chiesa cattolica ci ha messo mezzo secolo, dopo Auschwitz. Paolo VI quando visitò i Luoghi santi si guardò bene dal nominare la parola Israele. Giovanni Paolo II per compiere la sua storica visita ha dovuto attendere il suggello della fine del millennio.

Il comunismo sovietico, che ha avuto un ruolo nel plasmare i vissuti collettivi di milioni di persone in Occidente, non ha fatto in tempo a elaborare la logica del rifiuto che lo aveva opposto al sionismo. L’Unione Sovietica fu il primo Stato ad appoggiare la nascita d’Israele, ma non ne accettò mai la legittimità morale. I fondamenti di quella nascita restavano avvolti in una logica di eccezionalità, che contraddiceva il ciclo di lettura che si voleva imporre alla realtà. Come era avvenuto prima nell’universo religioso del cristianesimo, l’esistenza di Israele costituiva uno scandalo, qualcosa che stava a segnalare una mancanza, un vuoto nel sistema di rappresentazione simbolica e ideologica della realtà.

Negli anni della guerra fredda il conflitto arabo-israeliano ha assunto il carattere di una metafora di scontro tra occidente e comunismo, democrazia e totalitarismo, imperialismo e antimperialismo, colonialismo e anticolonialismo. Il conflitto rischia oggi di essere avvolto nella spirale di uno scontro radicale di identità e simboli religiosi, con un rovesciamento speculare di posizioni. Nel Medioevo gli ebrei trovarono rifugio in un Oriente più ospitale, oggi il rifugio è in Occidente. Oggi come allora si trovano in mezzo, quasi a simboleggiare l’etimologia della parola ebreo (‘ivrì) che significa passare, essi si trovano nel bel mezzo, come tramite e ponte tra civiltà e culture, con il rischio di diventare ostaggi se il dialogo tra le civiltà si spezza.

Nell’epoca delle crociate gli ebrei trovarono rifugio nei paesi islamici, che allora erano di gran lunga più tolleranti dell’Occidente cristiano. Come ogni «protezione», quella islamica comportava una relazione ambigua di dominio e di asimmetria, con le sue paure e le sue angosce. Gli ebrei erano una popolazione tollerata e assoggettata, la cui condizione di subalternità e inferiorità era suggellata dal pagamento di un’imposta per la «protezione» ricevuta.

Dopo il grande esodo dal mondo arabo, gli ebrei vivono principalmente nei paesi dell’area occidentale. Il loro «rifugio» è in Occidente, dove sono percepiti nell’ambigua veste di cittadini membri dei singoli Stati e «parte» di una nazione posta nel punto di maggiore frizione dei rapporti internazionali, dove si gioca una terribile partita dai molteplici volti per il controllo delle fonti d’approvvigionamento della civiltà occidentale, nell’attesa che si passi a un nuovo ordine economico basato sull’uso dell’idrogeno.

Nell’ostilità contro Israele, il radicalismo islamico proietta le angosce di un futuro incerto quando le risorse petrolifere saranno esaurite. Sotto quest’aspetto il terrorista che si fa saltare in aria uccidendo indiscriminatamente il più ampio numero di persone, rischia di diventare una metafora del destino tragico che attende una grande civiltà in una logica di cupio dissolvi, se non si affronterà con saggezza e lungimiranza la transizione verso il nuovo.

Quanto più violento sarà l’impatto con l’esaurimento di tali risorse e il conflitto tra diversi sistemi economici e sociali, tanto più alto sarà il rischio di conflitti a catena che si riverbereranno sul resto del mondo, rischiando di far impallidire i problemi di oggi. La questione va oltre il conflitto arabo-israeliano e la tragedia israelo-palestinese. È in gioco qualcosa di più ampio, ed è terribile solo pensarci. Per questo, non ci si pensa o si fa finta di poterlo comprendere e analizzare come se il mondo fosse ancora quello di trent’anni fa.