Lo strano caso delle Hawaii. Diario dall'America più lontana

Di Alessandro Agostinelli Giovedì 01 Gennaio 2004 02:00 Stampa

6 gennaio. Sono arrivato all’aeroporto di Honolulu alle 10,45 pm (ora locale); ero partito da Pisa alle 7,50 (ora locale). Ho preso quattro aerei. Ho volato per circa ventotto ore. Ora sono a casa di Carol e Dan, due bravi ragazzi che sembrano una coppia perfetta. La casa è sull’isola di Oahu, all’estremità del paese di Kaneohe.

6 gennaio

Sono arrivato all’aeroporto di Honolulu alle 10,45 pm (ora locale); ero partito da Pisa alle 7,50 (ora locale). Ho preso quattro aerei. Ho volato per circa ventotto ore.

Ora sono a casa di Carol e Dan, due bravi ragazzi che sembrano una coppia perfetta. La casa è sull’isola di Oahu, all’estremità del paese di Kaneohe.

Dan ha la nonna italiana, di Ponza; Carol ha il padre italiano di Canale di Agordo, era il cugino di Papa Giovanni Paolo I, cioè Albino Luciani. Lei un po’ gli assomiglia, al Papa voglio dire, ha il naso uguale.

La casa è piccola. Sono brave persone. Sono venute a prendermi all’aeroporto e mi hanno accolto infilandomi un «lei» – si chiama così la collana di fiori tipica delle Hawaii.

Ho sonno. Vado a letto. Domani devo fare le prove per il giorno successivo, quando avrò l’intervento al congresso.

 

7 gennaio

Mi sono svegliato alle 7.

Sta arrivando il sole. Qui il sole va giù alle 7 di sera e spunta alle 7 di mattina. Ora è forte e luminoso. Entra da tutte le finestre. Sto togliendo la copertura alla gabbia del pappagallo, come mi ha chiesto Carol. Loro sono già andati a lavorare. Lui lavora in una concessionaria di automobili; lei in una ditta che installa allarmi. Dalla finestra del soggiorno, giù dalla collinetta si intravede Kaneohe e il golfo là sotto. Vado in bagno, mi guardo allo specchio. Sono alle Hawaii, un posto dove di solito un italiano del mio tempo arriva raramente. Anni fa, in Europa, il nome Hawaii aveva un certo appeal. Se qualcuno intendeva parlare di un luogo esotico o voleva ammiccare a un posto dove spassarsela, diceva senza dubbio Hawaii. Insomma, tra i ‘50-’60-’70 del Novecento, Hawaii era sinonimo di vacanza esotica, forse anche per i film hollywoodiani – penso a quelli con Elvis Presley... Poi arrivarono le Bahamas, e poi le Maldive. Ora sembra che pochi cerchino più il posto esotico – cosa vorrà dire questa parola? Il turismo è cambiato. Si muove più gente, si spende meno, si parte all’ultimo momento, si cercano viaggetti brevi, di pochi giorni, a distanze ravvicinate. Si viaggia un po’ a caso, ma secondo coordinate precise, decise da altri.

Io sono qui per lavoro. Devo parlare degli italoamericani nei film sui gangster degli anni ‘40; della fama di mafiosi degli italiani all’estero e soprattutto in America; della errata interpretazione che gli italoamericani e gli irlandesi (entrambi cattolici) avevano dell’individualismo. Insomma tutta una ricerca che sto facendo per l’università sulle cose culturali americane e italiane a confronto.

Mi metto al computer a lavorare; devo rivedere il mio intervento per domani. Ci passo tutta la mattina.

È un po’ diverso il mondo visto dalle Hawaii. Siamo pulci nel mezzo dell’Oceano Pacifico; il posto più distante da tutte le terre emerse; picchi di verde intenso che svettano nel blu del mare; un’aria ventosa che ti tiene leggero.

Ho percorso la salita di Mokulele drive, da casa verso la fermata del bus. Ho visto delle case di legno, a due piani, quel tipo di case americane, col giardino e il posto macchina, un classico. Ragazzi che giocano, un’oca che passeggia per strada, fruscii nei fiori del prato (una piccola guida locale alle avvertenze in loco mi rassicura, dice che qui non esistono né serpenti né insetti velenosi).

E poi il cielo. Il cielo è così alto e tutto si perde alla vista, e alberi enormi. Siamo al Tropico del Cancro. E il bus non arriva.

Qui si ha anche la sensazione che l’Europa non sia niente, che la nostra cultura conti poco. Le Hawaii si pongono come crocevia tra est e ovest e sono ai nostri antipodi (11 ore di fuso orario di differenza).

Sì, è vero, ogni luogo pone se stesso al centro del mondo o di qualcosa. Qui siamo geograficamente al centro del Pacifico, del nulla umanoide, eppure quella delle Hawaii è una delle popolazioni più eterogenee del mondo, dove le culture più materialiste incrociano quelle più spirituali.

Ora sono salito sul bus. Alla guida c’è una signora di oltre cinquanta anni, con capelli tinti di rossastro, raccolti con un grande addobbo floreale. Ha orecchini vistosi e un paio di occhiali da vista con lenti da sole che ricordano le mamme degli anni ‘70, Moira Orfei e una cantante soul della Motown, tutto in un unico personaggio.

Ho infilato un box (un dollaro) e 4 quarter nella macchinetta davanti a lei che mi ha chiesto se volevo un transfer, io ho annuito anche se non capivo. Forse è il biglietto per proseguire un’altra corsa con un altro bus. Accanto a me c’è un tipo che si è appisolato. Prima guardava una rivista dedicata all’hockey. Anche Dan è un giocatore di hockey. Qui, fuori Honolulu, c’è un Ice Palace e sembra che siano un po’ fissati. Hockey su ghiaccio alle Hawaii? Mah!?

Sono sceso nel parco di fronte ad Ala Moana Centre, accanto al porticciolo di Waikiki. Sono sotto un Banyan tree. In questo parco ci sono tantissimi homeless. Alcuni hanno soltanto una borsa, altri hanno un carrello della spesa, qualcuno ha portato anche un grande tappeto e altri oggetti ingombranti: ha messo su casa sotto un albero, qui, nei presso del centro finanziario di Honolulu. Una signora mette a posto delle cose dentro un carrello. È molto grassa e indossa un accappatoio bianco. Ha le sue cose (non sono poche per una che vive all’aperto) raccolte lungo un muretto, proprio sul ciglio del lungomare di Ala Moana boulevard, dove sfrecciano auto in su e in giù, lungo la costa sud di Oahu.

Qualcuno passa facendo jogging, qualcuno uscendo dal mall di fronte, con le borse degli acquisti. Io ho finito ora di mangiare un prime cheesburger e un doughnut. La tipa ha anche messo su un grembiule da cucina, sopra l’accappatoio. C’è scritto sopra: I love Jesus.

Pare che abbia proprio ragione Robert Reich quando dice: «La crescente disuguaglianza è uno scandalo nazionale, che minaccia di spaccare la nostra società».

Sto osservando altri Banyan tree. Forse, per la prima volta in vita mia, ho capito che cos’è una liana. Ho visto com’è fatta. O comunque è qualcosa di molto simile a questi rami finissimi e resistenti che penzolano fino a terra. Penso a Tarzan.

Giro per l’albergo. Il congresso inizia domani. Leggo il catalogo e controllo il mio nome. Tutti noi «intellettualini» (così De Gasperi chiamava i giovani del suo partito) controlliamo sempre se in fondo agli indici dei nomi ci hanno inserito, se quel libro che parla dell’argomento che noi studiamo da tempo ci cita....

Sto andando verso la postazione Internet messa a disposizione per i congressisti. Lungo la strada che dalla costa e dai lussuosi alberghi porta verso l’interno, vedo dei pali della luce e del telefono (imperversa anche qui Verizon) di legno. Roba antica che non avevo visto neanche nel far-west di Salinas o di Modesto.

Ormai è buio.

Ala Moana è un mall smisurato. A piano terra c’è un parcheggio per auto che sale anche ad altri livelli. C’è il capolinea di tutte le corse dei bus e una stazione dei taxi. Alle Hawaii non esiste la ferrovia. Sarebbe troppo costoso fare una strada ferrata

Dentro Ala Moana c’è il mondo del commercio in vetrina: falsi «lei» di fiori finti accanto all’Emporio Armani (che ha anche un altro negozio più sopra), abbigliamento casual e scarpe, Celine (non lo scrittore), Vuitton, Bulgari, Gucci, Prada, Versace, Chanel, Jungle Jive (dove vendono peluche automatizzati), negozi di sete cinesi, Disney store, Foot Locker, Macy’s, banchetti di cianfrusaglie e trucchi per signore, dolciumi e un’enorme piazza coperta con intorno tanti fast-food asiatici. Qui vige la regola dei livelli sociali: al piano terra negozietti di poco conto, barboni, gente; mano a mano che si sale negozi sempre più importanti e passeggio in gran spolvero.

Al marciapiede degli autobus, per un po’, tutto si mescola, ma dopo le 9 di sera (ora di chiusura di quasi tutti gli esercizi commerciali) la situazione diventa più faticosa con un po’ di gente più disperata del solito. Nella piazza dei fast-food asiatici ho mangiato del porco con il riso e un muffin. Ho chiesto del bus. C’è da aspettare ancora.

Guardando meglio non ci sono soltanto barboni o ubriachi. Qui c’è tanta altra gente. Signore più o meno anziane che aspettano di tornare a casa. Molti attaccano discorso e parlano tra loro – gli americani sono uno dei popoli più chiacchieroni del mondo. Due ragazzini (avranno 12 anni) parlano con un handicappato che ora sale dopo di me sul bus, per mezzo di un sistema di elevazione che esce dal bus ed è messo in funzione dalla guidatrice. Un mezzo molto efficace e rapido. Ora il disabile è sopra con la sua motosedia elettrica e si destreggia per fare manovra e infilarsi al posto di un sedile che l’autista ha già alzato. Lei sta legando la carrozzella con due cinture di sicurezza. Lasciamo tanta gente ad aspettare ancora alla stazione dei bus. Stiamo andando verso Kaneohe. Non è facile scrivere sul bus. A guardare la gente che è qui sopra sembra che gli hawaiiani siano, per un’alta percentuale, gente molto modesta economicamente.

La guidatrice (per ora ho visto solo donne alla guida dei mezzi pubblici) ha fermato il bus di fronte a un palazzo, l’ha lasciato in moto, è scesa e ha salito le scale di entrata del palazzo. Dopo poco il tipo che era seduto dietro di me è sceso pure lui. Poi è tornata la guidatrice, ma il tipo non c’era ancora, così lei voleva andarsene, ma qualcuno dal fondo ha detto che il bagaglio del tipo era sul bus, allora lei ha aspettato, così il tipo è salito di nuovo. Siamo ripartiti e lei ha detto che se uno è sul bus non può scendere a fare i suoi bisogni e che la prossima volta l’avrebbe lasciato lì.

Ma lei dov’era andata?

Poi, mentre guidava, ha tirato un braccio all’indietro, verso i passeggeri e con la mano sventolava una fotografia, riferendosi a qualcuno. Subito è arrivato un tipo che ha preso la foto, ha ringraziato ed è tornato a sedere. La guidatrice di stamani sembrava molto dolce, questa pare più determinata. Accadono cose strane sui bus. Sono arrivato a casa di Carol e Dan. Erano in pensiero, forse credevano andassi a cena con loro. Sono rientrato alle 10 pm. Anch’io al loro posto sarei stato in agitazione, forse più di loro che sono bravi perché mettono a proprio agio, ridendo e cercando di essere simpatici. Sono le 10,40 pm e vado a letto.

Domattina mi aspetta un tour de force.

 

8 gennaio

Ho appena finito di leggere il mio lavro su «Individualism and Noir – Cultural questions: Italian-Americans and crime movie», nella stanza Maui 1, dell’hotel Ilikai. Sono stato il terzo, l’ultimo della nostra sessione. Ho parlato dopo Leonard Kamerling dell’Università di Alaska, Fairbanks, che ha presentato un suo lavoro di film documentario etnografico sulla formazione e l’educazione in un villaggio giapponese; ho parlato dopo Leslie Winston dell’Università di California, Los Angeles, che ha affrontato il problema sociale e sessuale della Geisha nella cultura giapponese, descrivendo lo sfruttamento di queste giovani donne, come si vede in un recente documentario del 1999 e nel film del grande Mizogouchi. Pensavo di essere più emozionato, invece ho avuto solo un’iniziale raucedine nervosa. Avevo paura delle domande, invece, come Leslie, ne ho ricevuta soltanto una, da un ricercatore della City University of New York che mi ha chiesto del gangster come eroe tragico, rispetto alla mitologia classica. Ho capito che la sua domanda era troppo difficile per articolare una risposta sintetica così ho ripetuto, in parte, ciò che avevo già detto. Alla fine siamo scesi insieme in ascensore per andare a sentire l’opening speech del professor W.J.T. Mitchell dell’Università di Chicago. La Pacific Ballroom è una stanza enorme. Siamo tutti seduti a larghi tavoli rotondi (ho dovuto cambiare tavolo perché cadevano alcune gocce d’acqua dal soffitto: alcune cose sono rimaste all’epoca di Elvis Presley). Qualcuno dormicchia, qualcuno legge il catalogo, molti seguono con attenzione, perché il professor Mitchell è molto pungente.

Anche questa mattina mi sono alzato presto per essere qui alle 8 am. Sveglia alle 6. Mi sono lavato e fatto la barba. Dan che andava a lavoro mi ha accompagnato alla fermata del bus. Ho preso il numero 65 per Ala Moana e dopo mezz’ora sono arrivato al cambio, per prendere l’altro bus per Waikiki. Ero all’hotel Ilikai alle 7,45.

Sto pensando che l’intervento del professor Mitchell sarebbe utile per il mio lavoro. Adesso sta facendo vedere un pezzo del film «Videodrome» di David Cronenberg; prima ha fatto vedere il pezzo di «Annie’s Hall» (Io e Annie), dove Woody Allen porta Marshall McLuhan davanti alla cinepresa, per smentire il tipo che pontificava sulle teorie dei media.

Ho pranzato al Pacific Ballroom con Leonard Kamerling e poi di nuovo nella stanza Maui 1 per seguire altri lavori della nostra sezione sui media e il film. C’era una tipa dell’Università di California, Davis, che leggeva il suo paper alla velocità della luce, sulla violenza e il sangue nel cinema di Martin Scorsese, come oggetto estetico di rappresentazione d’arte e non di realtà. Poi c’era un tipo buffo che ha discusso «Star Wars» e «The Lord of the Rings», in relazione alla rappresentazione del tempo, della tecnologia e dell’uso degli effetti speciali. Un professore di Berkeley ha parlato di Fellini «81/2 », delle critiche al tempo dell’uscita del film, dei «virtuosismi» (sic!) autoriali: niente di nuovo sul fronte. Io a Berkeley ci sono stato per un mese e mezzo nel 2001 (era agosto/settembre e nel mezzo c’è stato anche l’attacco alle Twin Towers...) a fare una ricerca sotto la guida di Seymour Chatman. Era bello: studio in biblioteca, visione dei film all’archivio. Alla fine della sessione giornaliera sono andato su una delle terrazze dell’hotel, di fronte al mare.

Mi sono seduto su una sedia e ho disteso le gambe sull’altra davanti. Ho dormicchiato al sole. Poi ho cercato di raggiungere Diamond Head col bus, ma era troppo tardi. L’autista mi ha spiegato che la f.a. (accesso facilitato) sarebbe stato chiuso. La visita salta a domani.

Sui bus accade di tutto. Ho visto molta gente che non se la passa proprio bene: qualcuno ha le scarpe bucate sopra e sotto, altri hanno una specie di sudicio di giorni addosso, poi donne al degrado e tutta un’umanità di emarginati che però sorride e non si lamenta. Il clima li aiuta.

Stasera ho fatto spesa da Foodland, il cui sottotitolo recita: food, family and friends. Mi sono messo a cenare seduto a una panchina al piano terra di Ala Moana. C’era tanta gente che mangiava lì. Famigliole con bambini, amici, ragazze in attesa del bus, come me. Ho scelto di mettermi accanto a un uomo di mezza età che tratteneva vicino a sé un carrello di Foodland. Mangiava anche lui. Aveva un aspetto dignitosissimo e gustava il suo cibo. Si è avvicinato un ragazzo del supermercato per avere notizie del carrello. Il tipo ha detto che gli serviva; il ragazzo ha annuito e se n’è andato.

Quelli di Foodland lasciano i carrelli ai barboni, senza alcun problema.

Ora vado a letto. Sono le 10,30 pm e sono molto stanco. Ho chiamato due volte Francesca: la prima dormiva sicuramente, forse faccio confusione col fuso orario.

Domani è il mio compleanno. Auguri.