Un'agenda per far crescere l'Europa

Di Pier Carlo Padoan Giovedì 01 Gennaio 2004 02:00 Stampa

L’obiettivo del rapporto «An Agenda for a Growing Europe» è importante e ambizioso: identificare le cause del rallentamento della crescita in Europa e proporre dei rimedi. Come scrive nella prefazione Andre Sapir, il coordinatore del gruppo di esperti, il rapporto si ispira a quello coordinato da Padoa-Schioppa del 1986, che fornì le idee di base per il lancio del Mercato interno. La crescita deve diventare la priorità economica numero uno dell’Europa, scrive sempre Sapir, e non si può certo dargli torto.

 

L’obiettivo del rapporto «An Agenda for a Growing Europe»1 è importante e ambizioso: identificare le cause del rallentamento della crescita in Europa e proporre dei rimedi. Come scrive nella prefazione Andre Sapir, il coordinatore del gruppo di esperti, il rapporto si ispira a quello coordinato da Padoa-Schioppa del 1986, che fornì le idee di base per il lancio del Mercato interno. La crescita deve diventare la priorità economica numero uno dell’Europa, scrive sempre Sapir, e non si può certo dargli torto. È dall’inizio degli anni Ottanta che il livello di reddito pro-capite dell’UE è rimasto al 70% di quello degli USA. Chiarito l’obiettivo, le cose si fanno più complicate, sia nell’identificazione delle cause del rallentamento della crescita che nell’elaborazione delle proposte. Queste complicazioni si riflettono nella lettura del rapporto, non sempre semplice e lineare e con diversi piani di analisi che si sovrappongono e che avrebbero beneficiato di migliori collegamenti.

Ma di questo probabilmente non si può fare tanto una colpa agli autori, quanto all’oggetto della loro analisi: il modello economico e istituzionale europeo. Detto questo, il rapporto è ricco di spunti e di riflessioni, che in alcuni casi vanno al di là delle stesse intenzioni degli autori, per esempio quando devono esprimere un giudizio, che rimane implicito, sui limiti del modello di integrazione come strategia di crescita.

 

Perché l’Europa cresce poco?

La risposta alla domanda è apparentemente semplice. Negli anni Ottanta e soprattutto negli anni Novanta l’Europa non è riuscita ad adeguare il suo modello economico e istituzionale a un quadro internazionale che andava rapidamente mutando sotto la spinta della globalizzazione dei mercati e dell’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione. L’Europa è rimasta in gran parte imprigionata in un modello di specializzazione della produzione e di organizzazione dei mercati sviluppatosi nel dopoguerra e che aveva permesso una (forte) crescita grazie all’integrazione commerciale, la produzione di massa e le grandi imprese, i rapporti di lavoro a lungo termine e l’assimilazione di tecnologie prodotte in gran parte altrove. Questo modello oggi non è più sostenibile, perché soffre la concorrenza dal basso, da parte dei paesi emergenti che entrano nel mercato globale, e dall’alto, da parte dell’economia americana, che ha ritrovato una nuova vitalità grazie a una nuova ondata di innovazioni tecnologiche. L’obiettivo dell’Europa, peraltro già definito al Consiglio europeo di Lisbona, deve essere quello di basare la sua crescita sull’economia delle conoscenza, di porsi sulla frontiera delle nuove tecnologie e lasciare ai paesi emergenti le produzioni a tecnologia matura.

Che questo debba essere l’obiettivo dell’Europa non ci sono dubbi, ma ciò comporta mutamenti profondi non solo nel modello economico ma anche, e forse soprattutto, nelle istituzioni e nelle regole che permettono il funzionamento dell’economia. Da questo punto di vista il rapporto fa propria una visione delle determinanti della crescita oramai largamente accettata. La performance dei paesi si spiega essenzialmente con la qualità delle sue istituzioni, da quelle che regolano il mercato del lavoro a quelle che definiscono i rapporti finanziari, ai sistemi di istruzione e di ricerca, alla giustizia economica, al governo societario, al grado di corruzione, oltre che alla qualità della politica macroeconomica. I paesi che crescono più degli altri (almeno tra quelli avanzati) sono quelli che spendono di più in ricerca e innovazione, sia nel settore pubblico che nel privato, che dispongono di forza lavoro con elevati gradi di istruzione, di un rapporto dinamico ed efficiente tra ricerca e sistema universitario, di mercati finanziari, e non solo banche, in grado di fornire risorse a imprese nuove e con buone idee, di un sistema di regole e di burocrazia che minimizza i costi di start-up, di una governance trasparente. Le ragioni che sottendono a questa regolarità empirica sono due: non solo buone istituzioni favoriscono l’accumulazione della conoscenza, ma favoriscono anche la riallocazione delle risorse verso i prodotti e i settori più innovativi e dinamici.

In definitiva, se l’Europa vuole migliorare la sua performance di crescita deve migliorare la qualità delle sue istituzioni, per migliorare il modello produttivo muovendosi verso un sistema basato sulla conoscenza. Ma nel caso europeo questa, oramai acquisita, saggezza convenzionale su crescita e istituzioni non basta. Occorre considerare altre tre dimensioni almeno altrettanto importanti. La prima è che la crescita deve essere perseguita in un quadro di stabilità e mantenendo un elevato grado di coesione sia tra paesi che tra gruppi di cittadini all’interno di un paese. La seconda, che la principale strategia per il perseguimento della crescita da parte dell’Europa è stata, e rimane, l’integrazione, sia orizzontale (allargamento), che verticale (approfondimento). La terza è che le diversità tra i casi nazionali in Europa sono molto rilevanti.

Riguardo al primo aspetto, il rapporto si chiede se esistano dei trade-offs fra le tre dimensioni. Un tradeoff tra crescita e stabilità può essere presente solo nel breve periodo, nella misura in cui la stabilità monetaria richiede una compressione del livello di attività, ma questo trade-off scompare nel lungo periodo, quando ciò che conta è appunto la qualità delle istituzioni. Diverso è il caso della coesione, il cui perseguimento può avvenire a scapito della crescita e che tende a diminuire nei periodo di accelerazione della crescita. Queste considerazioni sono molto rilevanti sia per il secondo aspetto, il ruolo dell’integrazione come strategia di crescita dell’Europa, che per il ruolo delle specificità nazionali per il processo di integrazione.

 

Ci sono dei limiti all’integrazione come strategia di crescita?

Il rapporto ci ricorda che negli ultimi quindici anni l’Europa ha introdotto tre importanti innovazioni nel suo modello di integrazione: il lancio del Mercato interno, le modifiche al bilancio dell’Unione e, soprattutto, il varo dell’Unione monetaria. Ma si rileva anche che, se i risultati in termini di stabilità monetaria sono stati molto rilevanti, quelli in termini di coesione e soprattutto di crescita lo sono stati molto meno. Anche su questo si deve concordare con gli autori. All’inizio degli anni Novanta il regime di cambio fisso incentrato sul Sistema monetario europeo era entrato in crisi irreversibile (soprattutto a causa dell’impatto della liberalizzazione dei movimenti di capitale) e il passaggio alla moneta unica rappresentò un passo in avanti molto rilevante verso la stabilità, soprattutto per i paesi ad alta inflazione come il nostro. Più controverso è stato l’impatto del Mercato interno. Ma perché il Mercato interno non ha prodotto i grandi benefici di crescita che ci si attendevano? Il rapporto offre due risposte, una esplicita e una implicita. Quella esplicita è che il Mercato interno rimane ancora da completare, almeno per segmenti importanti come quelli dei servizi, dove le barriere regolatorie sono ancora elevate e i sistemi nazionali rimangono ancora fortemente «protetti» dalla concorrenza. Quella implicita è che il modello economico su cui era stato ideato il progetto di Mercato interno è, almeno in parte, superato. Tale modello prevedeva infatti una crescita basta sullo sfruttamento delle economie di scala garantite dall’allargamento del mercato e, come si ricordava, è stato messo in discussione dall’avanzare della globalizzazione. Il lancio della Strategia di Lisbona ha segnalato che l’Europa è cosciente dell’insufficienza della strategia di crescita basta sul Mercato interno. Ma i risultati modesti finora ottenuti indicano che occorre interrogarsi anche sui limiti della strategia introdotta a Lisbona.

 

E ci sono dei limiti anche nel modello di governance

Il rapporto ricorda che sono quattro i livelli di governance compresenti nell’Unione europea: la cessione di sovranità verso l’alto (come per la politica commerciale e la politica monetaria), le regole comuni (come quelle del Patto di stabilità), il coordinamento «soft» (la Strategia di Lisbona) e l’autonomia nazionale (come nella tassazione). Il sovrapporsi di questi livelli riflette in buona parte la storia dell’integrazione europea, con risultati che gli autori non esitano a definire fonte di «confusione e contrasti», a loro volta fonte di costi elevati in termini di crescita.

Ma i veri limiti al processo di integrazione, e su questo il rapporto è decisamente troppo timido, derivano dalla diversità dei modelli nazionali. E ciò in quanto il processo di integrazione ha oramai superato la fase della integrazione «di superficie» per passare all’integrazione «profonda». Fino a quando l’integrazione ha riguardato le relazioni commerciali e la creazione di una Unione doganale l’abbattimento delle barriere ha coinvolto solo una parte dei sistemi economici e delle istituzioni create per sorreggerli (i settori esposti alla concorrenza internazionale), ma ha lasciato in buona parte immutato il grado di protezione della componente non esposta, dando vita a situazioni a volte paradossali (per esempio, se valutata in base al grado di protezione commerciale, l’Italia è uno dei paesi più liberalizzati, mentre è uno dei più regolamentati se si tiene conto della liberalizzazione delle professioni o dei servizi).

Il rapporto auspica, di fatto, il passaggio a una «integrazione profonda» quando suggerisce che, per ritrovare la via della crescita, l’Europa deve cambiare le proprie istituzioni, adottando quelle necessarie per un’economia basata sulla conoscenza e quando sottolinea i ritardi nel completamento del Mercato interno. Ma questo è il punto centrale. Una cosa è l’eliminazione di barriere «superficiali», come quelle al commercio, che pure comportano costi di aggiustamento spesso rilevanti, una cosa è riformare il sistema finanziario, quello dell’istruzione e della ricerca e liberalizzare i settori «non esposti» alla concorrenza internazionale. Quando si passa all’integrazione profonda, l’inerzia istituzionale e la resistenza al cambiamento sono ostacoli molto più difficili da superare.

 

Le politiche. Un menù ricco

Alla luce delle considerazioni sopra svolte esaminiamo, brevemente, i suggerimenti. Il rapporto offre una nutrita serie di proposte per riportare l’Europa su un sentiero di crescita elevato e sostenibile, che si dividono in sei capitoli. Ne consideriamo alcune tra quelle a nostro avviso più rilevanti o più controverse. I sei capitoli sono: il Mercato interno, l’investimento in conoscenza, la politica macroeconomica, le politiche per la convergenza e la ristrutturazione, la governance dell’Europa e il bilancio dell’Unione.

Il Mercato interno

Il Mercato interno deve essere rilanciato, favorendo un coordinamento più efficace tra la politica di regolazione e la politica di tutela della concorrenza. Deve essere accresciuta la liberalizzazione dei servizi e delle utilities, che rappresentano componenti essenziali della nuova strategia di crescita. Deve essere favorita la mobilità dei lavoratori nell’Unione, anche ricorrendo a fondi del bilancio dell’Unione per sostenere i costi di tale mobilità (e su questo torneremo più avanti). Bisogna poi fornire il Mercato interno di quei beni pubblici, come le grandi infrastrutture di rete, che non possono essere prodotte da singoli paesi.

Poca attenzione viene dedicata al ruolo dei mercati finanziari, la cui integrazione in Europa è ancora lontana dall’essere raggiunta e dove si contrappongono tutt’ora il modello banco-centrico continentale a quello market-based anglosassone (che meglio del primo sostiene le attività di innovazione) e dove, naturalmente, coesistono diversi modelli di regolazione e vigilanza.

Investimenti in conoscenza

Il rapporto insiste sulla necessità di accrescere la spesa per R&S, sia a livello nazionale che dell’Unione, e pone particolare enfasi sulla necessità di scelte selettive nella concessione di fondi, privilegiando i progetti di eccellenza e monitorando accuratamente i risultati. Propone l’istituzione di una «Agenzia europea indipendente per la scienza e la ricerca», sul modello della US National Science Foundation e, infine, propone incentivi fiscali per incoraggiare la spesa privata in R&S, di cui si ricorda il livello decisamente insufficiente.

Si tratta di un’area in cui si può fare di più. Il livello di spesa privata in R&S dipende dagli incentivi fiscali, ma anche da fattori almeno altrettanto importanti quali la rimozione degli ostacoli burocratici e normativi alla nascita di nuove imprese, una legislazione che favorisca la quotazione in borsa e la disponibilità di venture capital, e incentivi per favorire una più stretta collaborazione tra università e imprese. Anche su questi aspetti i fattori nazionali pesano molto. È ben noto che la capacità di innovazione di un paese riflette le caratteristiche dei «sistemi nazionali di innovazione», cioè della interazione di istituzioni diverse e complementari. Esistono casi europei di successo (dalla Svezia alla Finlandia), ma ciò di cui si avrebbe bisogno è un «Sistema europeo di innovazione». E questo richiede uno sforzo di integrazione e coordinamento più intenso di quanto proposto nel rapporto, ma che è indispensabile se si crede all’idea che la crescita deve essere guidata dalla accumulazione di conoscenza.

La Politica macroeconomica

Il Patto di stabilità deve essere rinforzato, evitando gli effetti asimmetrici e prociclici che hanno caratterizzato la sua prima fase di vita. A questo scopo si propone l’istituzione, su base volontaria, presso i governi nazionali di un fondo per i «giorni di pioggia» dove accantonare risorse accumulate durante i periodi di elevata crescita e che potranno essere usate nelle fasi di rallentamento per mantenere il rispetto dei vincoli di bilancio. La sostenibilità del Patto deve essere valutata in un orizzonte temporale pluriennale, accentuando l’enfasi sulle caratteristiche nazionali dei processi di aggiustamento e spostando l’attenzione sulla sostenibilità di lungo periodo del debito. La dimensione europea della politica fiscale va rafforzata introducendo un Programma di stabilità europeo, che coordini ex-ante i programmi di stabilità nazionali e permetta di sfruttare le esternalità della spesa pubblica tra paesi, evitando le duplicazioni. La disciplina fiscale deve esser rafforzata dando maggiori poteri di sorveglianza alla Commissione, mentre deve esser istituito un Consiglio per l’area euro, con poteri di controllo su tutte le decisioni di politica macroeconomica, con l’eccezione di quelle di politica monetaria.

Molte di queste proposte vanno nella direzione giusta. In assenza di una politica fiscale unica, un Programma di stabilità europeo che coordini ex-ante i programmi di stabilità nazionali permetterebbe di sfruttare positivamente le esternalità che voci di bilancio di un paese hanno nei confronti di altri membri dell’Unione (basti pensare alle spese per la ricerca o per le infrastrutture).

È inoltre importante correggere gli effetti pro-ciclici del Patto di stabilità e collocarlo in un contesto pluriperiodale. In effetti, molte delle critiche alla attuale configurazione del Patto si concentrano sull’eccessiva insistenza sulla dimensione annuale degli impegni da rispettare. Allungare la dimensione temporale necessariamente sposta l’attenzione più sulla sostenibilità del debito che sui deficit e tale approccio va condiviso. Una «regola sul debito», come quella già operante nel Regno Unito, collegata alla sostenibilità dei sistemi previdenziali, permetterebbe di definire con maggiore coerenza il sentiero di lungo periodo dell’assorbimento del debito.

Su un punto il rapporto fornisce indicazioni non tutto chiare e in qualche misura contraddittorie. Da una parte, gli autori si dichiarano contrari a introdurre «una qualche forma di golden rule e di subordinare il giudizio sui deficit eccessivi alla natura della spesa pubblica». Dall’altra, si dichiarano a favore di incentivi per reindirizzare la spesa pubblica verso voci che sostengano la crescita e di prendere in considerazione «ammontari aggiuntivi di spesa per l’istruzione, la ricerca e l’innovazione, nella valutazione degli sforzi per raggiungere una posizione vicina al pareggio». Come risolvere questa contraddizione rappresenta uno dei punti chiave del dibattito su come migliorare il modello economico dell’Europa. E su questo ritorneremo.

Convergenza e ristrutturazione

Il suggerimento principale in questo campo riguarda lo spostamento di enfasi dalle regioni ai paesi in tema di impegno per accrescere la convergenza e la coesione. I fondi per la convergenza, la cui istituzione viene proposta nell’ambito della riforma del bilancio dell’Unione (vedi oltre), dovrebbero essere allocati sulla base del reddito pro-capite nazionale e non su quello regionale, rafforzando, inoltre, la condizionalità per la concessione dei fondi. I fondi dovrebbero essere utilizzati per rafforzare la capacità amministrativa e istituzionale e per sostenere l’investimento in capitale umano e fisico. Il rapporto suggerisce inoltre l’istituzione di un fondo per favorire la riallocazione ad altri impieghi dei lavoratori licenziati, che sia complementare alle risorse destinate a questo scopo a livello nazionale.

Non ci si tacci di bieco interesse nazionale se facciamo notare che, nel paese del Mezzogiorno, il passaggio dal criterio regionale a quello nazionale avrebbe conseguenze molto negative sulla disponibilità di risorse, soprattutto se si tiene conto che la popolazione delle regioni del Mezzogiorno, nel loro insieme è ben maggiore di quella di diversi paesi membri dell’Unione. Ma, al di là di questo aspetto, a queste proposte si possono avanzare due obiezioni di carattere più generale. In primo luogo non ci si può limitare a un indicatore, quello del reddito pro-capite, per l’identificazione delle regioni o dei paesi in ritardo. Altri indicatori, per esempio relativi al mercato del lavoro, potrebbero essere utilmente presi in considerazione. Ma la perplessità più rilevante è un’altra: al procedere dell’integrazione è logico attendersi, come gli stessi autori riconoscono, che gli squilibri tra regioni siano destinati ad accrescersi anche più di quelli tra paesi, che invece potrebbero diminuire grazie ai meccanismi di catching-up del reddito. Per affrontare questi squilibri e migliorare la coesione dell’Europa, sarebbero necessarie misure specificatamente indirizzate a correggere gli squilibri regionali soprattutto in tema di occupazione, compresa l’adozione di meccanismi di contrattazione salariale che tengano esplicitamente conto dei differenziali di produttività a livello regionale.

Infine, un altro aspetto che avrebbe meritato più attenzione è come migliorare i trasferimenti di tecnologie verso le regioni periferiche dell’Unione. Se l’Europa vuole basare la sua crescita sulla conoscenza dovrà rafforzare non solo i meccanismi di introduzione delle innovazioni ma anche, e soprattutto, quelli della loro diffusione. La governance dell’Europa

In questo campo le proposte degli autori del rapporto sono molto articolate, visto anche lo stato di «confusione» in cui, a loro giudizio, si trova la governance dell’Europa. Gli autori propongono di: a) affidare a un numero di Agenzie indipendenti, che rispondano al Consiglio e al Parlamento, piuttosto che concentrare nella Commissione, molte delle funzioni che quest’ultima attualmente ricopre, compresa l’assegnazione e il monitoraggio dei fondi, la politica della concorrenza e la regolazione settoriale; b) incoraggiare il decentramento delle politiche di regolazione dei mercati, soprattutto in vista dell’allargamento, sviluppando networks di organismi nazionali ed europei;2 c) migliorare la gestione del Mercato interno, tra l’altro introducendo sanzioni per la mancata applicazione delle direttive; d) limitare il Metodo di coordinamento aperto a settori dove non ci sono alternative (dotare la Strategia di Lisbona di meccanismi più trasparenti ed efficaci e in particolare rafforzare gli incentivi volti a indirizzare le risorse di bilancio verso le voci direttamente collegate al raggiungimento degli obiettivi di Lisbona), infine; e) incoraggiare forme di cooperazione più stretta tra gruppi limitati di paesi membri, mantenendo la massima trasparenza e senza stabilire un numero minimo di paesi partecipanti ai casi di cooperazione rafforzata.

Non è del tutto chiaro se l’adozione delle misure suggerite dal rapporto riuscirebbe a diminuire la confusione e le tensioni che attualmente caratterizzano il modello di governance dell’Europa e non possiamo, in questa sede, entrare nel dettaglio di ciascuna delle proposte. Possiamo solo avanzare qualche considerazione generale. Le proposte a) e b) delineano un panorama con una moltitudine di modelli di regolazione, che è da una parte inevitabile ma che può anche condurre a forme di competizione istituzionale. Ciò non sarebbe necessariamente un male, ma sarebbe allora necessario trarre le conseguenze di questo approccio. Non è facile, e probabilmente impossibile, identificare un modello ideale di regolazione per ciascun tipo di mercato. Ed esiste la concreta possibilità che in mancanza di accordo su linee e principi comuni l’inerzia nazionale prevalga, affiancando modelli nazionali in contrasto tra loro. Il problema è allora come evitare che differenze nei modelli nazionali si tramutino in ostacoli ulteriori al modello di integrazione profonda e individuare vie per accrescere la cooperazione e possibilmente la complementarietà dei regolatori. Un esempio rilevante riguarda i servizi finanziari. Il completamento del mercato interno dei servizi finanziari è uno degli ostacoli maggiori alla ripresa della crescita in Europa.3 Quali sono le iniziative europee in merito? Il Financial Services Action Plan, che rappresenta il quadro di riferimento principale per il processo di integrazione finanziaria, si basa sul principio del «home country control», accompagnato da una armonizzazione minima degli standard. Si tratta di un modello estendibile ad altri casi? Poco o nulla, inoltre, dice il rapporto su quale ruolo potrebbero svolgere la BCE e il Sistema europeo di Banche centrali nell’assicurare la stabilità dei sistemi finanziari.

Questo ci porta alla proposta c). Indiscutibile che il problema esista, più problematica la soluzione suggerita se si riflette sui costi burocratici per implementare un efficace sistema di sanzioni a chi non implementa le direttive. Anche la necessità di rafforzare il Metodo di coordinamento aperto (punto d) è condivisibile, soprattutto visti i progressi ancora limitati nella Strategia di Lisbona. Ma la proposta del rapporto sembra, come si accennava sopra, in contrasto con la contrarietà a modificare le regole del Patto di stabilità per incentivare le spese di sostegno alla crescita. Il punto e), quello delle diverse velocità, ha infine valenza più generale e ci torneremo in seguito.

Il bilancio dell’Unione

Qui le proposte sono molto radicali e vanno decisamente nella direzione di indirizzare le scarse risorse a disposizione del bilancio verso il sostegno alla crescita. Si propone di riorganizzare il bilancio in tre fondi: un fondo per la crescita, destinato a finanziare spesa in R&S, istruzione e infrastrutture; un fondo per la convergenza dei paesi a basso reddito; un fondo per il sostegno alla ristrutturazione economica. Per avere a disposizione risorse maggiori si propone inoltre un drastico ridimensionamento dei fondi destinati all’agricoltura. Le risorse dovrebbero essere allocate su base competitiva (quelle per la crescita), su base nazionale (quelle per la convergenza) e in base alle necessità (quelle per la ristrutturazione). Dal lato della raccolta delle risorse, infine, ci si dovrebbe muovere da un sistema basato sui contributi nazionali all’identificazione di risorse a base comunitaria. Abbiamo già espresso delle perplessità sui criteri di allocazione dei fondi per la convergenza, ma, al di là di questo aspetto, è difficile essere in disaccordo con lo spirito generale delle proposte. Sarebbe utile aggiungere però un quarto, e non piccolo, fondo destinato alla proiezione internazionale dell’Unione, che certamente ricopre un peso rilevante nelle determinati della crescita.

Queste trasformazioni del bilancio rappresenterebbero, nella sostanza e prima ancora nella forma, l’affermazione di una visione sovranazionale della politica europea. Fino ad ora le riforme del bilancio dell’Unione hanno prodotto aggiustamenti al margine che ci hanno consegnato un bilancio che è lo specchio della storia e della cristallizzazione di interessi specifici, nazionali e settoriali, piuttosto che uno strumento per il futuro. La politica agricola è stata introdotta per assicurare la sicurezza alimentare nel dopoguerra, e rimane in gran parte il baluardo di interessi particolari, ma lo stesso si potrebbe dire dei fondi di coesione, pensati per compensare i paesi iberici al momento del loro ingresso nell’Unione e di fronte alla sfida della integrazione monetaria, o del «rebate» britannico, voluto dalla Thatcher e strenuamente difeso da Blair, e così via.

 

L’Agenda c’è. Ma la strategia?

L’elenco delle misure proposte è notevole e pieno di contenuti interessanti, anche se non necessariamente tutti condivisibili. Quali probabilità hanno queste proposte di essere tradotte in pratica, o quanto meno di ispirare, come fu per il rapporto Padoa Schioppa, la prossima fase dell’integrazione europea e di accelerare la crescita? Il rischio di ogni elenco di proposte è che venga trattato come un menù, in cui ognuno può scegliere la ricetta preferita scartando le altre, e anche questo elenco non sfugge a questa critica. Ma la domanda da porsi è probabilmente un’altra. Se tutte le proposte del rapporto fossero messe in pratica, la crescita dell’Europa ne trarrebbe un beneficio tangibile e significativo? Per rispondere a questa domanda ritorniamo alle cause della scarsa crescita in Europa. Questa, come abbiamo visto, dipende essenzialmente dall’esaurirsi di un modello economico istituzionale concepito per operare in un sistema di integrazione «alla superficie», poco adatto a sostenere la crescita in un sistema globalizzato e in cui la crescita dipende essenzialmente dagli investimenti in conoscenza. L’Europa ha bisogno di un modello economico istituzionale diverso per riallocare le risorse verso gli investimenti in conoscenza e sostenere la crescita. E per costruire tale modello ha bisogno di passare da una integrazione di superficie a una integrazione profonda.

Le misure proposte dagli autori del rapporto si basano sull’idea che il ruolo dell’Europa nel sostenere la crescita debba essere quello di «facilitatore» dei cambiamenti, ma tale ruolo può influenzare solo al margine, o solo in parte, le caratteristiche dei modelli economico-istituzionali che determinano la performance di crescita: dei sistemi di istruzione, dei mercati finanziari, del mercato del lavoro e dei prodotti. Il controllo di queste caratteristiche e la capacità di mutarle, così come la destinazione delle risorse in questi settori, rimangono in gran parte prerogativa dei governi nazionali e non rientrano nei compiti e nei poteri delle istituzioni europee. È dall’azione dei governi, quindi, che devono provenire le spinte fondamentali per l’integrazione profonda.

Ma se l’obiettivo dell’integrazione profonda è quello di passare da modelli nazionali a un modello europeo più adatto ai tempi, sorgono inevitabilmente alcune domande. Verso quale modello convergere? Dove trovare la leadership necessaria per accelerare il processo di cambiamento, soprattutto dopo la battuta d’arresto della Conferenza intergovernativa? In questo contesto quale ruolo deve svolgere la strategia a due (o più) velocità?

 

Due o più velocità?

La logica delle velocità multiple si basa su due principi: che esista un gruppo di paesi in grado di identificare un modello istituzionale o di politica economica condiviso e verso cui convergere; che tale gruppo disponga di sufficiente forza di spinta per implementare questi cambiamenti all’interno del quadro di governance europeo. Naturalmente, la definizione del modello di riferimento deve tenere conto delle posizioni di partenza dei membri del gruppo per avere qualche ragionevole possibilità di successo. In altri termini, la composizione del gruppo di partenza influenza l’obiettivo finale, siamo cioè di fronte a un caso di «path-dependency». Quali sono, allora, i gruppi in grado di guidare l’integrazione profonda?

I paesi «fondatori» dell’Europa sono quelli il cui modello economico istituzionale è (con la parziale eccezione dell’Olanda) più lontano da quello necessario per una crescita basata sulla conoscenza. I paesi più vicini a questo modello ideale sono quelli nordici e piccoli (Svezia, Finlandia, Danimarca, Irlanda) e, in parte, il Regno Unito e l’Olanda. Paesi che hanno, tra l’altro, in comune tra loro (e con gli USA), tassi di investimento elevati, maggiore sviluppo qualitativo e quantitativo, dei mercati finanziari, minor grado di ostacoli burocratici e regolatori alla nascita della imprese, più elevati livelli di istruzione, maggiore peso dei servizi avanzati nel prodotto nazionale, maggiore flessibilità dei mercati del lavoro. È a questi paesi che si dovrebbe guardare per trovare esempi di «buone pratiche» per la definizione di un modello di economia basata sulla conoscenza. La ricerca di «buone pratiche» è alla base del Metodo di coordinamento aperto nato a Lisbona, ma, come detto, questo metodo ha dato finora risultati modesti e, per questo, i paesi membri di un gruppo di avanguardia potrebbero andare oltre. Per esempio, potrebbero promuovere iniziative di liberalizzazione profonda in alcuni settori (servizi per le imprese, finanza) adottando regole comuni e omogeneizzando la «home country rule» in molti settori, o potrebbero promuovere programmi di investimento comune in alcuni settori di ricerca avanzata.

I due maggiori paesi nel gruppo dei fondatori, Francia e Germania, hanno invece tassi di investimento più contenuti, sistemi finanziari ancora in gran parte basati sulla banca, livelli di regolazione dei mercati molto elevati, presentano i maggiori ritardi nel recepimento delle direttive comunitarie in tema di Mercato interno, mercati del lavoro più rigidi, gradi di istruzione della forza lavoro più arretrati e, infine, bilanci pubblici rigidi e quindi limitazioni al reindirizzo delle risorse verso la crescita. Ambedue hanno lanciato ambiziosi programmi di riforme del mercato lavoro e del sistema previdenziale, ma i risultati in termini di crescita richiederanno tempo per materializzarsi. Nel frattempo, gli effetti sulla crescita potrebbero anche essere controproducenti, come spesso accade a seguito dell’introduzione di riforme radicali. Si accentuerebbe il divario con la traiettoria di crescita dei paesi del primo gruppo e la prospettiva dell’integrazione profonda per questi paesi si allontanerebbe, lasciando la guida del processo ad altri gruppi di paesi. Oppure, i grandi paesi continentali, forti del loro peso politico, potrebbero ricercare strategie comuni con paesi del primo gruppo, come sembra indicare l’annuncio (al momento in cui scriviamo) del Vertice di Berlino tra Francia, Germania e Regno Unito sui temi dell’occupazione e della crescita.

 

E l’Italia?

Il modello economico istituzionale dell’Italia «spiega bene» il graduale ma deciso rallentamento della sua crescita, sia in termini assoluti che procapite, negli ultimi venti anni. Più che in altri casi, il nostro paese fa fatica ad adeguarsi ai mutamenti del quadro globale e di quello europeo, sopratutto dopo l’avvento dell’euro. Come fa notare Pierluigi Ciocca,4 il modello di specializzazione italiano è, più che in altri paesi europei, stretto da un lato dalla concorrenza dei paesi dove la competitività è basata sullo sfruttamento delle tecnologie e dell’innovazione, e dall’altro dai paesi emergenti e a basso costo del lavoro. Inoltre, il modello di specializzazione dell’Italia brilla per la scarsa presenza nei servizi avanzati, che sono i settori dove crescita e profitti sono più alti e che sono, inoltre, determinanti nell’assorbimento e nella diffusione di nuove tecnologie.

Per l’Italia, più che per altri paesi, è necessario cambiare la specializzazione, oltre che risolvere gli squilibri territoriali, per potere ritornare a tassi di crescita elevati e sostenibili. È un punto che molti avevano sollevato già da tempo, ma che solo ora si sta affermando all’attenzione generale. Ma le istituzioni dell’economia sono in grado di sostenere e agevolare tale cambiamento? Sembrerebbe di no visto che, tra quelli europei, il modello di specializzazione dell’Italia è, assieme a quello tedesco, uno dei più rigidi e più restii al cambiamento.5 Le ragioni sono diverse e ben note. La piccola dimensione delle imprese, la struttura di governance a conduzione famigliare e la scarsa propensione all’innovazione inibiscono la spesa in ricerca e sviluppo, l’introduzione di nuovi prodotti e l’ingresso in nuovi settori. La propensione al cambiamento è poi ostacolata da una scarsa propensione a procurarsi capitali di rischio sul mercato finanziario, oltre che dal limitato contributo pubblico alla spesa per la ricerca e dall’asfittico rapporto di collaborazione tra settore privato e Università. Alla scarsa domanda di capitale di rischio si contrappone un’offerta altrettanto modesta, vista l’inesistenza di un mercato di venture capital e di una borsa in grado di permetterne un’attività profittevole. Il modello di finanziamento basato sul credito ha permesso il mantenimento della stabilità a scapito dell’efficienza allocativa, sopratutto in senso dinamico. I vantaggi dei rapporti di lunga durata tra banche e imprese sono appunto quelli di salvaguardare le imprese nei momenti di difficoltà, ma i costi sono quelli della scarsa propensione al cambiamento. Un sistema simile funziona bene fino a quando il modello di specializzazione garantisce crescita e profittabilità. Ma i costi cominciano a crescere rispetto ai benefici quando, come nella situazione attuale, il modello di specializzazione incontra i suoi limiti e non si può ricorrere alla svalutazione per sopravvivere, rinviando l’aggiustamento.

È noto che i paesi più grandi sono anche quelli nei quali il cambiamento strutturale e istituzionale è più difficile a mettersi in moto, perché sono quelli dove la pressione esterna, sia in termini economici che di competizione istituzionale, è più debole rispetto ai paesi piccoli. Ma per i grandi paesi l’Europa ha rappresentato per lungo tempo uno stimolo molte forte grazie alla strategia di crescita tramite le fasi di integrazione successive. Per l’Italia questo è stato particolarmente vero. La partecipazione all’Europa ha costituito uno stimolo decisivo per avviare quei cambiamenti che le avrebbero permesso di diventare, nel dopoguerra, uno dei paesi più dinamici, perché ha costruito il modello «giusto» per competere nel nuovo mercato aperto (assieme a Germania e Giappone, non a caso anch’essi paesi a crescita ora vicina allo zero); con la partecipazione al Sistema monetario europeo e con l’accordo del 1992 ha abbattuto l’inflazione a due cifre degli anni Settanta e con l’ingresso nell’euro ha invertito il deterioramento della finanza pubblica.

Ma ora, come abbiamo sostenuto, la strategia della crescita tramite dosi successive di integrazione europea sembra avere raggiunto limiti molto seri. L’«integrazione profonda», necessaria per mutare i meccanismi economici e istituzionali, richiede uno sforzo sopratutto da parte dei governi nazionali e lo stimolo che l’Europa può fornire rischia di essere assai più limitato che in passato. L’Europa come «facilitatore», che auspicano gli autori del rapporto, può, appunto, facilitare ma non guidare il processo di integrazione profonda. La guida deve essere assunta dai governi, perché sono i governi a controllare le variabili, istituzionali ed economiche, che vanno adattate al nuovo modello competitivo. E questa guida, in una Europa molto più grande, molto probabilmente sarà assunta da piccoli gruppi di paesi. Dove si collocherà l’Italia?

 

Bibliografia

1 An Agenda for a Growing Europe, Report of an Independent High-Level Study Group established on the initiative of the President of the European Commission, luglio 2003.

2 Questi networks potrebbero essere gerarchici (con la responsabilità ultima nelle mani delle istituzioni dell’UE) o di partnership (dove la responsabilità rimane a livello nazionale). La scelta fra i due modelli dipenderebbe dai diversi casi e dal tipo di mercato oggetto di regolazione

3 Si veda: M. Giannetti, L. Guiso, T. Jappelli, M. Padula e M. Pagano: Financial Market Integration, Corporate Financing and Economic Growth, in «European Commission Economic Paper», 179/2002.

4 P. Ciocca, L’economia italiana: un problema di crescita, Relazione presentata alla XLIV riunione scientifica annuale della Società Italiana degli Economisti, ottobre 2003.

5 P.C. Padoan, Employment and Growth in Monetary Union, Edgar Elgar, Cheltenham 2000.