Raggiungere Gerusalemme

Di Mustafa Barghouthi Lunedì 01 Settembre 2003 02:00 Stampa

La battaglia sullo status di Gerusalemme è spesso indicata come l’aspetto più delicato, centrale e appassionante del conflitto mediorientale. Si dice, seppure sottovoce, che la città di Gerusalemme, e quindi la soluzione che si adotterà in merito alla sua condizione finale, per il fatto stesso di incarnare le aspirazioni e i sentimenti nazionalisti e religiosi più accesi dei palestinesi e degli israeliani, sia la vera chiave per la creazione di una pace giusta e duratura.

 

I negoziatori palestinesi non hanno
intenzione di firmare alcun trattato
che non includa Gerusalemme.1

 

La battaglia sullo status di Gerusalemme è spesso indicata come l’aspetto più delicato, centrale e appassionante del conflitto mediorientale. Si dice, seppure sottovoce, che la città di Gerusalemme, e quindi la soluzione che si adotterà in merito alla sua condizione finale, per il fatto stesso di incarnare le aspirazioni e i sentimenti nazionalisti e religiosi più accesi dei palestinesi e degli israeliani, sia la vera chiave per la creazione di una pace giusta e duratura. Ciononostante, forse perché fin troppo consapevoli della sua potenza e resi inquieti dal suo significato, i negoziatori di pace hanno invariabilmente deciso, in occasione di ogni singolo negoziato destinato ad arrancare e poi a fallire, di posporre o procrastinare la discussione sulla soluzione finale per la Città santa, generalmente ancor prima di prendere atto dell’esistenza di questo ostacolo finale.

Passando al vaglio le caratteristiche di questa assenza di soluzione per il problema di Gerusalemme risulta più facile spiegare le ragioni di tale fenomeno. Chi trarrà vantaggio dal ritardare il raggiungimento di una soluzione finale? La parte israeliana è evidentemente fin troppo intenzionata ad allontanare il dibattito sullo status finale di Gerusalemme perché così facendo è in grado di prendere tempo per modificare lo stato dei fatti sul terreno. Con politiche aggressive di espansione illegale degli insediamenti, usurpazione dei territori, distruzione e confisca, il tutto corredato dal trattamento drastico e odioso riservato al popolo palestinese, Israele pensa di poter cancellare agli occhi del mondo fino all’ultimo segno dell’esistenza materiale della terra di Palestina e di poter annientare per sempre il fervore che ancora rimane nell’anima palestinese, ancor prima che una capitale palestinese veda di fatto la luce.

È tragico per i palestinesi, ma è proprio questa la realtà che sta diventando inesorabilmente la più verosimile. La costante incapacità dell’Autorità palestinese di creare un governo di coesione e di presentare una visione di pace unitaria e rappresentativa indebolisce enormemente il potere negoziale della delegazione palestinese. Questa debolezza non fa altro che rafforzare i colonizzatori israeliani e allontana fisicamente sempre di più il popolo palestinese dal proprio sogno di raggiungere Gerusalemme. Fintanto che non sarà posto in essere un governo responsabile e democratico in seno alla società palestinese, Israele continuerà ad avere la forza per rendere Gerusalemme sempre più imprendibile.

È difficile capire come questa città benedetta possa incarnare così tante sfide epocali. Un tempo chiamata Orsaleem, «città della pace», Gerusalemme è sacra ai musulmani, ai cristiani e agli ebrei e costituisce un contesto pittoresco per il concretizzarsi dell’incontro delle tre grandi religioni monoteistiche. La sua divinità e bellezza non possono che dirsi amplificate dalla sua ricca architettura, dalla sua eclettica miscela di culture e dall’amalgama di tradizione e modernità che in essa prende corpo, senza intaccare un’identità profondamente radicata nella storia. Eppure, situata come è nel cuore della regione mediorientale e senza dubbio a causa della sua stessa magnificenza, la Città santa non ha mai cessato di rappresentare, nel corso dei secoli, un premio venerato e ambito ed è divenuta la tela di fondo di troppe battaglie devastanti. Oggi Gerusalemme rimane il fulcro di un conflitto minacciosamente vecchio e sanguinoso ed essendo il simbolo delle aspirazioni più profonde dei suoi irriconciliabili abitanti, la città è divenuta la capitale contesa di due Stati.

La città di Gerusalemme è il punto focale delle emozioni e dei sentimenti di molti, in tutto il mondo, e si trova dunque al cuore di qualcosa che va oltre questo violento conflitto. Il fatto che ci troviamo di fronte a un luogo tanto sinceramente venerato e di così grande significato implica che, a fronte di una soluzione definitiva, sia quella che sia, non saranno solo gli israeliani o i palestinesi a vincere o a perdere. Bisogna dunque comprendere che la risoluzione del controverso conflitto attorno alla Città santa assumerà, per tutte le implicazioni della questione, un altissimo significato simbolico. Detto questo, il ritornello ufficiale israeliano secondo il quale una «Gerusalemme unita» rimarrà per sempre sotto la sovranità israeliana ha ben poche probabilità di rientrare in una logica politica di pace che punti a una soluzione quanto meno equa e ragionevole per entrambe le parti. Israele sbaglia se crede di poter semplicemente glissare e distogliere gli occhi del mondo da una problematica così ingombrante. Tutte le strategie messe in atto in passato poggiavano su calcoli materiali di potere e ricchezza, ma usare esclusivamente una combinazione di minacce e aiuti non sarà sufficiente a risolvere il conflitto per Gerusalemme. Questo non è un problema che Israele potrà risolvere con la forza e la potenza. Ciò non significa che non ci abbia provato. Dal 1967 in poi gli israeliani hanno a più riprese tentato di riconfigurare la città. L’approccio politico iniziale prevedeva una candida ridefinizione dei confini municipali, con un tentativo da parte di Israele di accaparrasi quanto più territorio possibile, pur concedendo un incremento minimo della popolazione palestinese. Per controbilanciare la forza demografica palestinese, il governo israeliano cercò di incoraggiare l’immigrazione di ebrei israeliani verso la città, creando insediamenti, fornendo alloggi, posti di lavoro e servizi di buona qualità. La maggior parte di queste unità abitative fu concentrata nella parte palestinese. Nel 1995 erano circa 80.000 i palestinesi che detenevano una proprietà a Gerusalemme-Est e che si sono visti negare il permesso di costruire sulla loro terra. Solo il 4% di tali proprietà, a Gerusalemme, è considerato edificabile, secondo le previsioni di crescita della popolazione palestinese, ed è comunque il frutto di permessi ottenuti con l’estorsione. Molte centinaia di case appartenenti a palestinesi sono state dichiarare «abusive» e quindi demolite dalle autorità. Almeno 50.000 palestinesi sono stati costretti a traslocare al di fuori dei confini della città per la drammatica carenza di alloggi. Contemporaneamente, tutti i progetti abitativi ebrei fruivano di sovvenzioni massicce.

Dopo la firma degli accordi di Oslo tra l’OLP e Israele nel 1993, gli sforzi per mettere in minoranza numerica la popolazione palestinese della città hanno raggiunto l’apice con l’introduzione, da parte di Israele, di nuove norme secondo le quali gli abitanti palestinesi di Gerusalemme-Est che risiedevano al di fuori dei confini comunali non erano autorizzati a detenere carte d’identità di Gerusalemme, documenti indispensabili per essere riconosciuti come effettivi residenti della città. Ciò condusse a ulteriori discriminazioni nei confronti dei residenti palestinesi di Gerusalemme, migliaia dei quali si videro negare i documenti di identificazione e che in numero ancora maggiore ne subirono la confisca, nel disperato tentativo da parte di Israele di realizzare quell’inversione demografica così utile al perseguimento delle proprie ambizioni politiche nella città.

Oltre a cercare di ridurre al minimo la popolazione arabo-palestinese di Gerusalemme, prima di intraprendere un qualsiasi dialogo sullo status finale della città, Israele ha prodotto sforzi enormi per separare il resto della Palestina dal suo centro geografico, politico e spirituale, costruendo una cintura di insediamenti ebraici attorno alla città. La creazione di insediamenti esclusivamente ebrei nell’area di Gerusalemme e il continuo sforzo di espansione degli insediamenti stessi rappresentano un tentativo, da parte di Israele, di cambiare lo stato dei fatti sul terreno. Essi sono inoltre illegali ai sensi del diritto internazionale, in quanto vanno ad alterare in modo sostanziale le caratteristiche culturali e demografiche della città. Violano dunque la risoluzione 476 del Consiglio di Sicurezza, che riconferma che tutte le misure legislative e amministrative, nonché le azioni intraprese da Israele, in quanto potenza occupante, atte ad alterare il carattere e lo status della Città santa non hanno alcuna validità giuridica. Eppure la comunità internazionale rimane inerte di fronte alla proposta di Israele di alterare irreparabilmente la Città santa, dividendola con un muro di cemento alto otto metri. La prima fase della costruzione di questo muro dell’apartheid di Gerusalemme dà corpo a quello che è già diffusamente definito «the Jerusalem Envelope», l’involucro di Gerusalemme. Le nuove barriere si estendono da est a ovest, dal campo militare di Ofer al villaggio di Jaba (a nord di Gerusalemme) e dall’insediamento di Gilo fino a Umm al-Qassis (a nord-est di Betlemme). Ma anche sull’asse nord-sud, con un muro nella Gerusalemme orientale, un muro che esclude ermeticamente la parte orientale della città dalla West Bank e che separa i palestinesi dagli stessi palestinesi, spacciandosi per una «essenziale» misura di sicurezza israeliana. Nello stesso modo in cui Sharon si è adoperato per rendere un effettivo Stato palestinese logisticamente impossibile da realizzare (i territori sono ormai butterati da insediamenti ebraici che circondano le città palestinesi, separandole l’una dall’altra), la città di Gerusalemme sembra ora essere sotto il tiro di chi intende compromettere la reale possibilità di creare una capitale palestinese.

Essendo riuscito a ritardare al massimo i negoziati su Gerusalemme e avendo dunque guadagnato tempo per realizzare e portare a compimento le politiche di cui sopra, il governo di Israele utilizzerà i negoziati sulla soluzione definitiva per trasformare «la realtà dei fatti», quella determinata a suon di bulldozer e leggi discriminatorie, in pezze d’appoggio per avanzare richieste di diritti di sovranità sulla città occupata. Ma nonostante questi piani e le numerose dichiarazioni rilasciate dai vari primi ministri israeliani nel corso degli anni, secondo le quali solo Gerusalemme è l’eterna capitale dello Stato d’Israele e la Gerusalemme unita non sarà oggetto di negoziato, la città rimane la capitale nazionale di due Stati. Le rivendicazioni di Israele da una parte e della Palestina dall’altra non sono che l’espressione di un profondo attaccamento a questa terra, così come delle aspirazioni e della percezione delle proprie rispettive identità, da parte di entrambi i popoli. Per i palestinesi, fissare la capitale a Gerusalemme-Est rappresenta l’ideale compimento delle proprie aspirazioni nazionali: il sogno lungamente cullato di porre fine all’occupazione e di creare uno Stato indipendente e capace di svilupparsi a Gaza e nei territori occupati, con la capitale nazionale a Gerusalemme Est. Il fatto che i palestinesi rivendichino diritti solo sulla parte orientale della città già rappresenta di per sé un compromesso storico e, allo stesso tempo, dimostra un atteggiamento più propizio alla pace di quello attestato da Israele e descritto nel 1980 dalla «Legge base su Gerusalemme» di Menachem Begin. In essa, infatti, si dichiarava che una Gerusalemme «integra e unita» è la capitale permanente dello Stato di Israele, sulla quale quest’ultimo esercita una sovranità esclusiva. Sistematicamente ogni primo ministro israeliano in carica ha reiterato questa ostinata posizione: Gerusalemme è sempre stata e sempre sarà la capitale del popolo ebraico, sotto la sovranità israeliana, così come nei sogni e desideri di ogni singolo ebreo. Quello che gli israeliani debbono ora comprendere, come già hanno fatto i palestinesi, è che Gerusalemme potrà rimanere uguale a quella che popola il cuore e la mente di coloro che dicono di amarla solo se una soluzione fattibile sarà raggiunta in modo tale che la città non sia condannata a esser teatro di un conflitto permanente.

Eppure la politica israeliana sembra finalizzata a tutt’altro che alla ricerca della pace: ricordiamo l’incessante attività di insediamento, i coprifuoco, le chiusure e recentemente gli assassini mirati che hanno posto fine al cessate il fuoco di nove settimane ottenuto con la mediazione del primo ministro palestinese e che senza dubbio hanno contribuito alle dimissioni dello stesso Abu Mazen. Un evento, questo, che ha indotto gli analisti, tanto politici quanto mediatici, a pronosticare il fallimento della Road Map. Ancora una volta le speranze di giungere a una soluzione per il problema di Gerusalemme, così cruciale per la creazione di uno Stato palestinese capace di svilupparsi, e susseguentemente per dare la pace a una regione tanto martoriata, si sono fatte distanti e remote. Alla luce di questa realtà, Israele concentra ora la sua attenzione sulle contese di potere interne all’Autorità palestinese, che d’altra parte Israele stesso ha contribuito a fomentare. Addossando colpe su colpe sul Presidente palestinese, Yasser Arafat, per aver negato ad Abu Mazen l’autorità di concedere quanto richiesto dalla Road Map, Israele distorce la verità sulle ragioni di tale fallimento, che vanno ricercate principalmente nell’inadeguatezza delle sue stesse azioni. Sharon non ha sorretto la Road Map, per non aver tenuto fede agli impegni e per non aver fatto quelle concessioni che avrebbero rafforzato la posizione di Abu Mazen e conseguentemente indebolito Arafat.

In verità, Israele non ha interesse a rafforzare la leadership palestinese, e certo non aiuterà ad assicurare l’emergere di un’Autorità palestinese indipendente capace di guidare lo Stato palestinese. Il governo israeliano ha semmai fatto del suo meglio per fomentare le dispute interne tra palestinesi, deviando così l’attenzione, tanto nazionale che internazionale, da ciò che avveniva sul terreno per dirigerla invece sulla lotta intestina per il potere. I media, così come l’Autorità, hanno rivolto la propria attenzione al dibattito su chi sarà capace di guidare il paese all’ombra di Arafat e, a loro volta, trascurano la realtà di un popolo che soffre e che continua a vivere in una condizione di occupazione.

E mentre la polemica sulla leadership dellAutorità palestinese continua a dominare la scena, Israele prosegue imperterrita le proprie politiche di ulteriore colonizzazione e trattamento odioso del popolo palestinese. Ma è vitale rammentare qual’è il ero problema. Se Israele riesce ancora a incanalare a suo piacimento l’attenzione del mondo non rimarrà nulla della Palestina da negoziare nelle trattative sullo status definivo. La costruzione da parte di Israele di un uro di otto metri, un muro di separazione, finalizzato a contenere ciò he nella visione di Sharon stesso costituisce la Palestina, è di fatto mirata a rinchiudere i palestinesi in una prigione di cui Israele vuole avere le hiavi, ma che Israele stesso vuole essere gestita dall’Autorità palestinese. l fine di scongiurare una manipolazione da parte di Israele, che vedrebbe l’Autorità palestinese trasformarsi in un manipolo di agenti o secondini, essenziale che i palestinesi riescano a configurare una strategia nificata basata sul principio della piena partecipazione al processo decisionale. Una pace duratura può essere negoziata solo tra democrazie abilitate a trattare con il sostegno di una piena rappresentatività. Il sistematico smantellamento dell’Autorità palestinese da parte di Israele e il ostante divieto di tenere libere elezioni, ha fatalmente minato la capacità alestinese di costituire le proprie strutture e di muoversi verso la creazione di istituzioni democratiche. Perché questo possa avvenire è ora ecessaria una presenza internazionale che garantisca lo svolgimento delle elezioni e assicuri il ritiro delle forze israeliane dai paesi e dalle città ccupate.

È improbabile che l’avvento della democrazia in Palestina possa condurre lla creazione immediata di uno Stato palestinese. Non si può dire che le molteplici tornate dei negoziati di pace siano fallite semplicemente per l’assenza di democrazia in Palestina. Per quante dispute interne possano esistere tra le varie fazioni palestinesi, l’obiettivo di ogni singolo palestinese rimane il diritto di vivere in una terra che possa chiamare atria, che possa chiamare Palestina. Comunque sia, anche se stabilire na società democratica non andrà ad alterare in nessun modo gli auspici el popolo palestinese, cambierà la loro capacità di realizzare tali uspici. Creare istituzioni democratiche e insediare un governo rappresentativo, eletto dal popolo, rafforzerà la società palestinese e quindi la sua potenzialità e la sua volontà di porre fine all’occupazione e di ristabilire una pace duratura che si regga sulla nascita di uno Stato autosufficiente indipendente nei territori occupati e nella Striscia di Gaza, la ui capitale nazionale sia Gerusalemme.

 

 

Bibliografia

1 Abu Mazen, intervista con Palestine TV, 29 luglio 2000.