Torino e la sfida demografica

Di Federico Fornaro Lunedì 01 Settembre 2003 02:00 Stampa

C’è uno spettro che si aggira per il Piemonte: la demografia. Una scienza, spesso poco frequentata, che per fortuna non subisce le maligne influenze dell’ideologia, ma che impone ai decisori istituzionali, economici e politici di fare i conti con la realtà di oggi e con le proiezioni future. Senza fare sconti, ma utilizzando i dati per quelli che sono, senza compromessi dialettici tipici di altre discipline. Per Torino e il Piemonte la variabile rappresentata dall’evoluzione futura della popolazione costituisce uno dei nodi strutturali più importanti, un passaggio ineludibile se si vuole invertire l’attuale tendenza verso un declino e una progressiva marginalizzazione dal nucleo forte delle regioni europee.

 

C’è uno spettro che si aggira per il Piemonte: la demografia. Una scienza, spesso poco frequentata, che per fortuna non subisce le maligne influenze dell’ideologia, ma che impone ai decisori istituzionali, economici e politici di fare i conti con la realtà di oggi e con le proiezioni future. Senza fare sconti, ma utilizzando i dati per quelli che sono, senza compromessi dialettici tipici di altre discipline. Per Torino e il Piemonte la variabile rappresentata dall’evoluzione futura della popolazione costituisce uno dei nodi strutturali più importanti, un passaggio ineludibile se si vuole invertire l’attuale tendenza verso un declino e una progressiva marginalizzazione dal nucleo forte delle regioni europee.

I risultati delle proiezioni demografiche per i prossimi venti-trenta anni, presentate in uno studio del CERIS-CNR commissionato nei mesi scorsi dai Giovani imprenditori piemontesi,1 sono piuttosto chiari: nell’attuale fase storica il numero dei giovani al di sotto dei diciannove anni si riduce anno dopo anno, sia in valore relativo che assoluto, e aumenta l’incidenza percentuale degli over sessantacinque. Proseguendo con gli attuali trend il saldo naturale della popolazione, attualmente negativo, è destinato inesorabilmente a peggiorare fino al 2018, per poi lentamente migliorare senza peraltro riuscire ad invertire la tendenza al decremento. Sebbene il flusso migratorio tenda a compensare il deficit naturale e il numero degli abitanti si mantenga sostanzialmente stabile attorno alle 4.280.000 unità, muta invece rapidamente la composizione generazionale. Il rapporto tra la popolazione di 20-64 anni e la popolazione con più di sessantacinque anni passa dall’attuale 63% al 59% delle proiezioni nel 2030.

L’aumento della vita media è un indicatore di benessere la cui importanza nessuno ovviamente vuole disconoscere, perché rappresenta una delle conquiste della civiltà occidentale. Ma se esso si accompagna alla mancanza di giovani, allora possono iniziare guai seri per la società nel suo complesso.

Negli anni Settanta, uno dei decenni di maggiore dinamicità e crescita dell’economia subalpina, i giovani con meno di venti anni erano ad esempio quasi 1.200.000, oggi sono circa 700.000 e nel 2030 potrebbero essere non più di 630.000. Con gli attuali trend demografici e in assenza di politiche correttive, è evidente che la quantità di capitale umano a disposizione non sarà in grado di permettere al sistema economico piemontese di mantenere il suo ruolo tra le regioni leader in Italia e in Europa.

Infatti, se si confrontano i dati piemontesi con quelli delle maggiori regioni industrializzate dell’Unione Europea, si evidenzia che solo l’11,9% della popolazione subalpina ha meno di quindici anni, contro il 19,5% della francese Rhone-Alpes e del West-Midlands, il 19,2% dell’Alsazia, il 18,8% dell’East Midlands e il 16,8% del Baden-Wurttemberg. Rimanendo in Italia troviamo la Lombardia al 13%, il Veneto al 13,3%. In una situazione ancor più critica la Toscana (11,5%) e l’Emilia-Romagna 11,2%. Tale differenza si ritrova specularmente nella classe demografica over sessantacinque: il Piemonte con il suo 20,4% (anno 2000) deve confrontarsi, per limitarsi a pochi esempi, con il 13,9% dell’Alsazia, il 15% del Rhone-Alpes e il 15,5% del Baden-Württemberg.

Quando si ragiona sul futuro del Piemonte, ma il discorso vale per buona parte delle regioni del nord e del centro Italia, è indispensabile dunque tenere nella dovuta considerazione uno scenario demografico che rischia di rappresentare un limite oggettivo alle potenzialità di crescita e di sviluppo. Un freno destinato a produrre precisi effetti sul lato dell’offerta, della flessibilità e della mobilità del capitale umano a disposizione delle attività economiche (in diminuzione) e sul livello della spesa sociale (in crescita).

Che fare dunque? Una risposta netta quanto chiara la hanno recentemente fornita i Giovani imprenditori piemontesi in un convegno svoltosi a Stresa nel giugno scorso, dimostrando un coraggio politico e una visione prospettica da far invidia ai settori più avanzati della sinistra italiana. Senza troppi preamboli e giochi dialettici, la medicina proposta per curare la malattia dell’invecchiamento del Piemonte è, in buona sostanza, una sola: una politica di immigrazione equilibrata, che consenta di modificare, lentamente ma inesorabilmente, la composizione della popolazione per età. Insomma una società con tanti anziani, ma anche con tanti giovani. L’esempio positivo presentato è stato quello della vicina regione francese Rhone-Alpes, che trenta anni fa presentava una struttura demografica simile a quella piemontese e che ora, come testimoniano i dati già ricordati in precedenza, non condivide più un tale squilibrio generazionale. Un risultato ottenuto proprio governando il flusso di immigrazione sia in termini quantitativi che qualitativi.

In linea con quanto trattato in occasione del tradizionale convegno annuale di Santa Margherita 2003, i giovani imprenditori subalpini propongono che il Piemonte diventi un’area che genera attrazione. Quindi che non si limiti a subire i naturali flussi migratori, ma favorisca l’ingresso degli immigrati «invogliati a venire da noi in quanto il nostro territorio sappia offrire maggiori opportunità per una immigrazione qualificata». Un Piemonte ancora una volta chiamato a un ruolo di regione laboratorio di iniziative ed esperienze per agire in positivo sui temi dell’immigrazione, nella prospettiva di riavviare un ciclo positivo per l’economia e la società. Un vero e proprio progetto di «qualità della vita nell’immigrazione» che prevede non solo contributi economici e accordi bilaterali con i paesi d’origine, per favorire la formazione professionale in loco degli immigrati, ma anche uno sforzo straordinario di atenei, istituzioni di ricerca e fondazioni bancarie per far arrivare «cervelli» e giovani ricercatori da tutto il mondo, con l’obiettivo di riattivare un circuito virtuoso con il sistema delle imprese. Insomma il ruolo che può essere svolto dall’immigrazione extracomunitaria, secondo i giovani imprenditori subalpini, non si limiterebbe semplicemente a puntellare la struttura esistente, e quindi garantire gli attuali standard di vita e di crescita della ricchezza prodotta, ma diverrebbe il volano di un nuovo sviluppo.

Questa, in estrema sintesi, è la ricetta proposta alle forze politiche e alle istituzioni territoriali per invertire la tendenza al declino e per rilanciare il ruolo dei tanti «Piemonti» in un mercato sempre più europeo e globalizzato. Una sfida alla politica e non già una provocazione intellettuale, che la sinistra riformista è in grado di raccogliere più e meglio di altri. A cominciare da quel coacervo di forze che si raccoglie sotto il cartello della Casa delle Libertà, dove militano i leghisti come Borghezio distanti mille miglia da simili posizioni. Anche gli esponenti più moderati del Carroccio piemontese hanno liquidato queste proposte con dichiarazioni limitate a ricordare una presunta, atavica propensione degli industriali a preferire la manodopera a basso costo, fenomeno tipico dell’immigrazione extracomunitaria. Una pochezza di ragionamento disarmante per un partito che governa sia il Piemonte che l’Italia.

Con buona pace dei leghisti padani il Piemonte e l’intero nord Italia si trovano, invece, di fronte al bivio tra un progressivo quanto inesorabile declino e un nuovo modello di sviluppo. Un rilancio che (sono i numeri della demografia a dircelo con chiarezza e asetticità) non può che passare attraverso un governo delle politiche di immigrazione. Una scelta che ha indubbi risvolti, non solo sul versante della struttura e delle vocazioni del sistema produttivo, e che presenta impatti sociali a rischio di diventare drammatici in assenza di adeguate politiche pubbliche nazionali e regionali. Un esempio, senza ovviamente minimizzare le questioni legate alla convivenza e alla microcriminalità, è la casa.

Per alcuni versi la situazione attuale non è, però, completamente nuova per il Piemonte. Nel secolo scorso il contributo dell’immigrazione ha avuto una valenza storica nel processo di crescita economica della regione. Negli anni Cinquanta il Piemonte registrava un’evoluzione difforme, in senso negativo, dalla media italiana e il flusso migratorio interno sud-nord, pur tra mille contraddizioni sociali, contribuì in maniera determinante a mutare una situazione locale caratterizzata da un declino della fecondità e da decrementi naturali negativi. Le analogie con cinquanta e più anni fa sono evidenti, anche se non bisogna commettere il rischio di sottovalutare altre variabili e il diverso contesto storico nazionale e internazionale. Ma è indispensabile che cresca a tutti i livelli la consapevolezza che l’immigrazione, ora come allora, può diventare una risorsa importante per costruire un nuovo modello di sviluppo. È necessario usare un’analoga consapevolezza critica nel riconoscere che molto difficilmente, nel medio-lungo periodo, il saldo migratorio sarà in grado di compensare il deficit del saldo naturale e la tendenza all’invecchiamento della popolazione piemontese proseguirà con tutte le conseguenze già evidenziate. Accanto a una politica di «attrazione» qualitativa dei flussi migratori, il Piemonte dovrà dunque proseguire un’azione, già avviata con buoni risultati nell’area metropolitana torinese da ITP (Investimenti Torino e Piemonte), di stimolo all’insediamento di nuove imprese straniere, meglio se di medio-grande dimensione.

L’incertezza sul futuro della FIAT e sull’intero comparto automotive, chiamato ad affrontare sfide di mercato nuove, la triste conclusione del sogno olivettiano, rappresentano pesanti ipoteche sul futuro del sistema industriale piemontese, ma possono essere anche un’occasione di trasformazione profonda della stessa identità imprenditoriale che favorisca una maggiore apertura verso l’esterno. Un futuro, quello del Piemonte industriale, che dovrà puntare su un’evoluzione qualitativa, più che su un’implosione quantitativa, in aperta contraddizione con gli sforzi in atto di un rilancio, assai significativo anche in termini economici, della sua immagine turistica con la valorizzazione delle bellezze storiche e ambientali di Torino e dell’intero territorio regionale, che culminerà con l’organizzazione delle olimpiadi invernali del 2006.

L’idea, coltivata semplicisticamente in alcuni circoli ristretti, di una progressiva deindustrializzazione del Piemonte contrasta, ancora una volta, con la realtà dei dati e con la stessa storia dell’economia subalpina. Il peso del comparto industriale (37,7% sul totale dell’occupazione regionale) è, infatti, ancora nettamente superiore alla media nazionale e pone il Piemonte in competizione con le altre regioni europee sviluppate: Baden-Württemberg (40,8%), Catalogna (39,2%), ma anche Lombardia (40,4%), Veneto (40,1%) ed Emilia-Romagna (36,1%). Interessante, ancora una volta in chiave prospettica, il raffronto con il Rhone-Alpes, che ha un minor peso dell’industria (30,3%), ma una maggiore incidenza dei servizi (66,2% contro il 58,4% del Piemonte).

Una sfida complessa, quella della costruzione di un nuovo modello di sviluppo per il Piemonte, che passa, sul piano dell’approccio metodologico e forse anche della stessa impostazione culturale, dalla consapevolezza dell’esistenza di più «Piemonti», che necessitano in una prospettiva federalista di un capoluogo che sia più «capitale», ma anche di politiche pubbliche che sappiano armonizzare e valorizzare le diverse vocazioni presenti in un territorio così vasto e articolato. Il Piemonte ha infatti oltre 1.200 comuni e per circa la metà della sua estensione è ubicato in zone montane.

Differenti vocazioni e culture che nel comparto industriale prendono la forma della specializzazione e dei distretti industriali, caratteristici oggi dell’economia piemontese più di quello che appaia nell’opinione comune e sviluppati in questi anni al punto da ridurre il peso della provincia torinese a quello da essa detenuta nei primi anni del dopoguerra. Se si analizzano i dati della composizione dell’industria manifatturiera per provincia, accanto ad alcune conferme (Torino con i mezzi di trasporto, Biella e Novara con il tessileabbigliamento, i casalinghi per il Verbano-Cusio-Ossola e il distretto orafo a Valenza), sono riscontrabili anche significative evoluzioni specialistiche negli alimentari a Cuneo e lo sviluppo di un polo dolciario in forte espansione, dopo il recente insediamento della Campari, nella zona di Novi Ligure. Un dinamismo dei diversi «Piemonti» che trova una conferma anche nei dati sul mercato del lavoro, con intere province, Cuneo e Asti ad esempio, che hanno sostanzialmente raggiunto l’obiettivo della piena occupazione. Un dato a cui si accompagna una ricchezza diffusa. Discorso analogo vale per il settore primario, l’agricoltura. Un comparto anch’esso necessitante di un maggior e miglior governo dell’immigrazione extracomunitaria, diventata in molte aree l’unica risorsa lavoro disponibile, che dovrà proseguire nella strada dell’intensificazione delle produzioni a maggiore valore aggiunto, inserite in un processo di filiera: le cosiddette «produzioni di nicchia». Esse rappresentano l’unica alternativa praticabile al mutamento del mercato che nei prossimi anni sarà generato dall’ampliamento dell’Unione Europea e dall’apertura all’export agroalimentare dei paesi più poveri.

Lo stesso invecchiamento della popolazione non pone solamente questioni nuove e di non facile soluzione sul terreno della riforma dello Stato sociale, ma impone una riflessione su un migliore e più organico utilizzo della risorsa del volontariato e apre orizzonti nuovi a un sistema integrato di servizi alla persona.

In conclusione, sembra evidente che il Piemonte abbia bisogno di un modello di sviluppo flessibile e adattabile alle diverse anime culturali e imprenditoriali che lo compongono. Ma anche di un intervento pubblico che, senza cadere negli eccessi di una programmazione dirigistica, favorisca le necessarie trasformazioni del tessuto produttivo premiando intelligenze e investimenti finanziari, stimolando una sana competizione tra i territori, aiutandoli a migliorare i fattori di competitività in continua evoluzione. Un processo verso un modello post-fordista già in atto da tempo e che occorre saper interpretare in una visione strategica innovativa, che sappia tenere insieme la dimensione globale dell’economia e della stessa cultura, con la valorizzazione dei fattori locali.2 Il Piemonte vincerà la sfida dello sviluppo proprio se saprà tenere insieme queste due dimensioni, quella globale e quella locale, facendole interagire in positivo fuori da logiche campanilistiche.

 

 

Bibliografia

1 Per il testo completo della ricerca Cfr.: www.federpiemonte.org.

2 Su questi temi Cfr.: www.aaster.it/dibattito/sommario_postfordismo.htm.