Il fondamentalismo del libero mercato e l'American Business Model

Di John Kay Lunedì 02 Giugno 2003 02:00 Stampa

Per quanto pesto e malconcio, nella politica economica di oggi l’American Business Model (ABM) assolve il ruolo che per tanto tempo è stato del socialismo. Tutte le posizioni politiche, anche quelle ostili, sono definite in base al loro rapporto con il modello. I termini «globalizzazione» e «privatizzazione» hanno spiazzato dalla discussione i termini «capitale» e «classe». L’etichetta «forze di mercato» evoca immediatamente reazioni ostili o reazioni favorevoli.

 

Per quanto pesto e malconcio, nella politica economica di oggi l’American Business Model (ABM) assolve il ruolo che per tanto tempo è stato del socialismo. Tutte le posizioni politiche, anche quelle ostili, sono definite in base al loro rapporto con il modello. I termini «globalizzazione» e «privatizzazione» hanno spiazzato dalla discussione i termini «capitale» e «classe». L’etichetta «forze di mercato» evoca immediatamente reazioni ostili o reazioni favorevoli. Per alcuni, il termine Washington consensus equivale ad una affermazione delle realtà ineluttabili della vita economica, mentre in molti Stati poveri è demonizzato come attacco alla democrazia e al tenore di vita. La destra ha dato l’impronta ai termini del dibattito politico.

La filosofia dell’ABM, così come è stata articolata da Milton Friedman, vede lo Stato come un arbitro. È «importante distinguere le attività quotidiane degli individui dal quadro di riferimento generale delle leggi consuetudinarie e scritte entro il quale tali attività si svolgono. Le attività quotidiane sono le azioni condotte dai giocatori durante una partita; il quadro di riferimento sono le regole del gioco. Quindi, in una società libera, lo Stato ha il ruolo fondamentale di fornire un mezzo che ci consenta di modificare le regole, di mediare le nostre divergenze sul significato delle regole e di far rispettare le regole dai pochi individui che altrimenti non parteciperebbero al gioco.

L’American business model presenta quattro tipi di rivendicazioni.

Regole dell’egoismo - il materialismo egoistico governa le nostre vite economiche.

Fondamentalismo di mercato - i mercati devono operare liberamente e i tentativi di regolamentarli attraverso l’intervento sociale e politico sono quasi sempre indesiderabili.

Stato minimale - il ruolo economico dello Stato non dovrebbe andare molto al di là dell’applicazione dei contratti e dei diritti alla proprietà privata. Lo Stato non dovrebbe fornire direttamente beni e servizi o possedere beni produttivi.

Imposizione fiscale bassa - le imposte sono necessarie per finanziale queste funzioni fondamentali dello Stato minimale, le aliquote fiscali dovrebbero essere per quanto possibile basse e il sistema fiscale non dovrebbe cercare di realizzare una redistribuzione dei redditi e della ricchezza.

Due delle teorie favorevoli all’ABM spiegano come conciliare il fondamentalismo di mercato con lo Stato minimale. Alcuni teorici ritengono che una politica antitrust sia necessaria per preservare i mercati competitivi. Per altri, anche questo grado di intervento statale è inappropriato. A volte, questi concetti sono categorizzati come Washington consensus. Il termine, entrato in uso negli anni Novanta, è associato alle politiche sostenute dal Fondo Monetario Internazionale e, in minore misura, dalla Banca Mondiale e dal Tesoro statunitense, verso i paesi poveri e le economie in transizione dell’Europa orientale. John Williamson, che ha coniato l’espressione, si è detto sorpreso del fatto che «un termine destinato a descrivere l’agenda politica tecnocratica sopravvissuta alla disfatta della Reaganomics fosse utilizzato per descrivere un’ideologia che sposa la versione più estremista della Reaganomics…» Le prescrizioni originali di Williamson erano relativamente moderate. «Le pratiche messe in discussione nel 1989 erano molto più stataliste di quanto si ritenesse auspicabile in quel momento…. Questa esigenza di liberalizzazione non implicava necessariamente un passaggio all’estremo opposto del fondamentalismo di mercato e a un ruolo minimalista dello Stato, ma possibilità così prosaiche non trovavano posto nei dibattiti ideologici degli anni Novanta».

Tuttavia, nonostante la possibile ambiguità della natura del Washington consensus, per tutti gli anni Novanta il Fondo Monetario Internazionale ha promosso una serie coerente di politiche di privatizzazione, di apertura dei mercati finanziari e di libera circolazione del capitale, combinate con politiche monetari e fiscal restrittive. Nel linguaggio in codice delle agenzie internazionali, «riforma strutturale» significava un passo in direzione dei principi dell’ABM. L’incoraggiamento dello Stato minimale da parte di un’agenzia statale presenta comunque una contraddizione intrinseca. Alla fine del decennio, il Fondo è stato oggetto di critiche senza precedenti da parte della sinistra, risentita per le sue politiche, e della destra che considerava l’esistenza stessa del Fondo un affronto al fondamentalismo di mercato.

 

L’American Business Model e la moralità del business

Spesso, la difesa dell’ABM è fondata su argomentazioni di carattere generale. In effetti, molte persone considerano fondamentali le questioni morali e non quelle economiche. Per alcuni sostenitori dell’ABM, l’intervento statale nelle questioni economiche equivale ad un attacco alla libertà, ad un uso improprio del potere coercitivo dello Stato. La libertà dei contratti richiede uno Stato minimale; il fondamentalismo di mercato e la bassa imposizione fiscale sono i diretti corollari. In genere, chi è fermamente convinto di questo, considera anche economicamente efficiente il modello di business americano, ma è probabile che preferirebbe il contrario. Ammesso che sia possibile dimostrare che una certa regolamentazione dei mercati sarebbe più vantaggiosa per tutti, o per moltissimi, la sua attuazione da parte dello Stato sarebbe ancora considerata un errore. Altri ritengono moralmente ripugnante la premessa della motivazione egoistica. Anche se è vero, non dovrebbe esserlo e le istituzioni sociali dovrebbero frenare l’avidità invece di accettarla. La responsabilità della democrazia è preferibile all’anonimato dei mercati. Se il fondamentalismo di mercato, lo Stato minimale e la bassa imposizione fiscale sono necessari all’efficienza economica, occorre fare sacrifici materiali per assicurare una società giusta. Ma chi sostiene questa tesi tende anche a credere che non sarebbero sacrifici troppo grandi.

Questo scontro tra i valori morali non può essere risolto dall’economia: forse non può essere affatto risolto. Ai fini del presente articolo, la questione ha una portata più circoscritta. Si tratta del rapporto tra le strutture politiche e gli esiti economici. L’affermazione che l’ABM è l’unica via che conduce alla prosperità materiale ha conferito al modello potere politico ed influenza intellettuale. Persino i più entusiasti sostenitori dell’ABM ammettono che si tratti di un problema di pubbliche relazioni. Yergin e Stanislaw ammettono che «poche persone sarebbero disposte a morire con le parole «liberi mercati» sulle labbra. Non è difficile spiegare perché la gente sarebbe disposta a morire pronunciando Stalin, Heil Hitler, o Jihad, mentre non inneggerebbe allo stesso modo ai liberi mercati. Stalin, Hitler e Bin Laden hanno reclutato seguaci demonizzando altri individui. L’American business model demonizza se stesso. Il modello non ci piace soprattutto perché descrive in modo poco attraente il nostro comportamento e i nostri caratteri.

In queste versioni estreme dell’American business model, è un errore deplorare il materialismo e considerare l’egoismo come un vizio. L’avidità è buona: i tipi perbene saranno gli ultimi. La filosofia sconclusionata ma stridente di Ayn Rand, maestro di Alan Greenspan, proclama le virtù dell’egoismo definendolo «oggettivismo». La conclusione logica dell’individualismo estremo è che l’interesse per gli altri è un’emozione alla quale possiamo ricorrere adeguatamente soltanto se è spontanea. La beneficenza privata è l’unico meccanismo adeguato di redistribuzione e qualsiasi altra rivendicazione della comunità violerebbe la nostra autonomia. In una tesi alternativa, le questioni etiche che hanno disorientato i grandi pensatori da Aristotele ai giorni nostri scompaiono in una foschia di confusione e buona volontà. Alcuni sostenitori moderni della «responsabilità sociale delle aziende e gli uomini di affari benpensanti ritengono che soltanto interpretando l’egoismo in modo sufficientemente ampio, sarà possibile evitare il conflitto tra l’egoismo e il bene pubblico. Charles Wilson diceva: «ero solito pensare [si noti il tempo del verbo] che ciò che era bene per il nostro paese era bene per la General Motors, e viceversa». La storia ha interpretato la sua osservazione come un’osservazione malevola, mentre era semplicemente ingenua.

Un’argomentazione più plausibile è basata sulla semplice esistenza di una dicotomia tra vita economica e moralità pubblica. I valori appropriati per gli affari sono diversi da quelli appropriati per le nostre vite private. Come osservava Goethe all’inizio della rivoluzione industriale, «dobbiamo tenere accuratamente separato dalla vita tutto ciò che è puramente commercio». La posizione di Goethe si riflette oggi in quella di Milton Friedman: «la responsabilità sociale delle imprese è di massimizzare i profitti». Un sostegno a questa posizione viene, a destra e a sinistra, da chi accoglie l’ABM con favore e da chi lo accoglie con grande ostilità. Per molti uomini d’affari, questa posizione è accettabile perché impone poche restrizioni al loro comportamento. Il corollario è il disprezzo generalizzato degli intellettuali per il mondo degli affari e per chi vi opera. Una vespa è stata chiamata Eruga gutfreundis, da Gutfreund: «punge e paralizza l’insetto poi depone le uova sulla sua schiena. La larva covata si nutre del sangue dell’ospite per circa sei mesi prima di divorare la Linyphia triangularis, il ragno che porta guadagno». La dicotomia tra valori economici e valori ordinari trova un’espressione sofisticata in alcuni filosofi, per esempio in Michael Walzer che identifica nelle «sfere di giustizia» i criteri per distinguere i veri confini del mercato.

Tuttavia, alla descrizione del comportamento umano nel modello di business americano non si obietta che i valori sono immorali, ma soprattutto che non sono realmente i valori dominanti nella vita economica. L’avidità è una caratteristica umana. Eeppure, per gran parte degli individui, essa non è una caratteristica dominante. La minoranza degli individui che la ritengono una motivazione assoluta non suscita la nostra ammirazione. Né pensiamo che siano individui di successo. Quando leggiamo che Hetty Green, forse la donna più ricca della storia, aveva indossato abiti smessi perché suo figlio, che era stato vittima di un incidente, fosse ricoverato nell’ospedale di un istituto di beneficenza, non ci congratuliamo con lei per il suo comportamento massimizzante, invece proviamo tristezza ed anche pena per come si è rovinata la vita. La politica esercita un’attrattiva sulle persone ossessionate dal rendimento finanziario. Anche personalità grottesche come Mobutu, che si è auto-proclamato presidente a vita, ha saccheggiato il Congo e per trent’anni ha sottratto ingenti somme alla Banca Mondiale, erano più interessate al denaro come strumento di potere che al denaro come fine in sé. Le economie produttive hanno adottato, generalmente con successo, politiche sistematiche per escludere tali individui dalla vita pubblica. Oggi, chi entra in politica in Europa o negli Stati Uniti può avere altri disturbi della personalità, ma non questo.

Il business moderno non esercita alcuna attrattiva su chi è veramente avido, per esempio su Nicholas van Hoogstraten, il trader immobiliare caduto in disgrazia che, poco prima di finire in prigione, ha detto: «l’unico scopo di una grande ricchezza come la mia è di tenersi lontano dalle canaglie». La costruzione di un business di successo richiede capacità considerevoli e tanto lavoro. Gli uomini d’affari di successo – da Andrew Carnegie, nel XIX secolo, lo spietato magnate dell’acciaio che scrisse «un uomo che muore ricco muore nell’ignominia», a Bill Gates nel XX secolo – considerano la costruzione di un’azienda di successo come obiettivo primario e non come obiettivo intermedio. Lo dicono loro e dobbiamo crederci. Quando Carnegie o Gates dichiarano la loro intenzione di schiacciare la concorrenza, non cercano di convincerci ad amarli o ad ammirarli. L’egoismo non è una motivazione assoluta neanche nei servizi finanziari. Donald Trump è forse il trader americano più aggressivo e più dedito al lusso dell’ultimo ventennio. Eppure l’autobiografia di Trump inizia con l’affermazione: «Non lo faccio per il denaro», e prosegue: «Ne ho a sufficienza, ho molto più denaro di quanto mi potrà mai servire. Lo faccio per farlo. Gli affari sono la mia forma di arte». Il biografo del leggendario investitore Warren Buffett scrive: «Non è che voglia il denaro, rispose Warren, mi diverte fare soldi e guardare mentre aumentano.» Presumibilmente per questo Buffett, uno dei tre o quattro uomini più ricchi del mondo, vive ancora nel bungalow che ha acquistato quarant’anni fa nell’Omaha e si permette soltanto una bistecca del Nebraska innaffiata con una coca alla ciliegia. Michael Lewis scrive che l’aspirazione dei trader della Salamon Brothers era di essere considerati dai loro pari come Big Swinging Dick, cioè i tipi che fanno soldi a palate. «Il pungolo per i trader … non era il loro livello di retribuzione in termini assoluti ma la loro retribuzione in rapporto a quella degli altri trader».

Non vogliamo però negare che il materialismo egoistico sia un’importante caratteristica della vita economica. I sistemi economici basati sugli appelli al lavoro per il bene comune sono destinati a fallire. Ma l’egoismo è necessariamente delimitato dalle complesse istituzioni della moderna vita economica, sociale e politica – dalla regolamentazione formale e dalle regole implicite, dai meccanismi della reputazione e del coordinamento, dagli istinti, dalle strutture di cooperazione dal senso di solidarietà. Le società moderne non hanno elaborato norme etiche che limitano e deplorano il materialismo egoistico per il desiderio perverso di frenare lo spirito imprenditoriale.

Le motivazioni economiche sono complesse, variegate e non sono necessariamente coerenti. Lo studio del comportamento umano è una materia empirica. Non può poggiare unicamente sull’introspezione e su una ipotesi aprioristica. Ancor meno dovrebbe fare affidamento sull’introspezione e sulle ipotesi aprioristiche circa l’esigenza assoluta di calcolare il comportamento massimizzante che non corrisponde all’esperienza. Il migliore punto di partenza è l’aspettativa che il comportamento sarà adattativo – che le persone si comporteranno come ci si attende normalmente da loro nelle circostanze nelle quali si trovano. Talvolta, questa aspettativa sarà erronea. La falsificazione occasionale di questa aspettativa è una dinamica essenziale di un’economia di mercato.

 

La distribuzione e la redistribuzione dei redditi

L’accettabilità dell’ABM è ineluttabilmente legata alla legittimità della distribuzione dei redditi e della ricchezza che ne deriva. La quarta premessa dell’ABM nega che, in un’economia di mercato, questa distribuzione sia un reale compito dello Stato. Se le differenze di reddito e di ricchezza sono il risultato delle differenze di produttività e quest’ultime sono a loro volta la conseguenza delle differenze di sforzo, di talento e di professionalità, la redistribuzione dei redditi e della ricchezza è potenzialmente inefficiente. Se vengono soppresse le remunerazioni delle differenze di sforzo, talento e professionalità i talenti e le professionalità non saranno pienamente sfruttati. Non si tratta di un’argomentazione conclusiva contro la redistribuzione ma implica che la redistribuzione potrebbe richiedere un prezzo elevato in termini di efficienza economica.

Tuttavia, le differenze di reddito e di ricchezza che vediamo nell’economia mondiale non possono essere spiegate interamente, o prevalentemente, con le differenze di sforzo, talento e professionalità. È ovvio che nei paesi poveri esistono molte persone di talento che lavorano duramente e la loro situazione economica non è la conseguenze delle loro carenza bensì delle carenze delle strutture istituzionali nelle quali esse operano. Per converso, le differenze di talento e di sforzo sono insufficienti a spiegare la distribuzione dei redditi nei paesi ricchi. Bill Gates ha dato un importante contributo all’industria dei personal computer, ma la sua ricchezza gli consentirebbe una reddito di cinque miliardi di dollari l’anno per il tutto il resto della vita. Il suo sforzo, il suo talento e le sue professionalità sono veramente tanto eccezionali? Giustificano un reddito che supera di molte migliaia di volte il reddito per esempio di Alan Turing – che probabilmente può rivendicare il diritto di essere considerato l’inventore del computer moderno e non ha mai percepito più di uno stipendio da universitario? E cosa dire dei trader di borsa? Sono preziosi per i loro datori di lavori e per questo ricevono gratifiche da milioni e milioni di dollari. Tuttavia, i profitti dei trader derivano in gran parte dall’arbitraggio e il loro valore sociale è limitato, ammesso che sia un valore positivo. Il PIL potrebbe essere più alto se i mercati azionari fossero meno attivi e meno liquidi. I manager delle aziende ricevono retribuzioni elevate, ma non per la loro produttività – che è impossibile misurare – bensì per il loro potere contrattuale. I manager si tagliano una fetta delle rendite economiche che essi controllano.

La complessità delle modalità di determinazione delle remunerazioni del mercato non consente di affermare che tali remunerazioni siano necessariamente giuste o efficiente. I conservatori riflessivi come Nozick e Milton Friedman non avanzano una tale rivendicazione, ma asseriscono che sarebbe ingiusto interferire con il processo che le determina perché ciò implicherebbe una coercizione illegittima da parte dello Stato. Alcuni potrebbero essere d’accordo su quest’argomentazione, ma molti non lo saranno affatto. Questo disaccordo è di per sé un problema. Se la distribuzione dei redditi e della ricchezza nell’economia di mercato non soddisfa le nozioni ampiamente condivise di legittimazione, la distribuzione sarà controversa e comporterà costi elevati. I costi, diretti e indiretti, del contenzioso e della criminalità potrebbe gravare pesantemente sull’economia di mercato. In molti paesi latino-americani e nella Russia moderna, questi problemi di legittimazione hanno portato a strutture politiche corrotte e ad uno scontro che hanno bloccato un efficace sviluppo economico. La nostra risposta a questa preoccupazione per l’ineguale distribuzione delle remunerazioni dell’economia di mercato consiste in un’accettazione generalizzata delle prime tre premesse dell’ABM e nel rifiuto della quarta. Questo atteggiamento ammette che lo Stato abbia un suo ruolo da svolgere nel determinare la distribuzione dei redditi e della ricchezza all’interno della società, ma sostiene che tale redistribuzione dovrebbe rappresentare i limiti, o i quasi-limiti, della sua funzione economica.

Il più illustre esponente di questa posizione che ho definito liberalismo di mercato redistributivo è stato James Meade, ma al suo sviluppo hanno dato un ampio contribuito gli economisti britannici. L’argomentazione è stata elaborata in modo eloquente per molti anni da Sir Samuel Brittan, e descritta più recentemente da Adair Turner. Turner la definisce «il modello liberale classico nel quale gli obiettivi più ampi sono realizzati attraverso i vincoli dell’imposizione e della regolamentazione all’interno dei quali gli individui perseguono il proprio interesse egoistico». Ma il liberalismo di mercato redistributivo non è una posizione sostenibile. La sua visione del mondo deve confrontarsi in forma estrema con la tensione tra moralità commerciale e moralità civica che è molto problematica.

 

I fallimenti del fondamentalismo di mercato

L’ABM sottolinea l’importanza centrale della proprietà come istituzione: centrale al punto che la sua difesa è la funzione principale dello Stato. Ciò presume che la natura dei diritti di proprietà sia ovvia. Ma non è così. I diritti di proprietà sono costruzioni sociali: possono essere definiti e conferiti in molti modi diversi a individui, famiglie ed aziende. Per la realizzazione di questi compiuti, sono necessari meccanismi sociali e politici.

A differenza dei molti dei suoi seguaci meno sofisticati, Milton Friedman ammette che «ciò che costituisce la proprietà e il tipo di diritti conferiti dalla titolarità della proprietà sono creazioni sociali complesse e non sono di per sé proporzioni evidenti.» Tuttavia – continua Friedman - «in molti casi, l’esistenza di una definizione di proprietà ben specificata e generalmente accettata è molto più importante di ciò che è realmente la definizione». Friedman non presenta prove di questa ipotesi e l’esperienza della storia economica e della geografia dimostra il contrario. Lo sviluppo dell’agricoltura, dell’occupazione e delle società a responsabilità limitata rappresenta un passaggio da un gruppo di definizione dei diritti di proprietà ad un altro. La legittimazione dei diritti di proprietà ha dato l’impronta alle diverse esperienze economiche di Argentina e Australia. Continuiamo a discutere sulla portata della proprietà intellettuale e sulla natura della regolamentazione dei media in una società pluralistica. Non è facile capire come finirà l’attuale partita della co-evoluzione della tecnologia e delle istituzioni su Internet e in relazione al genoma. Ma nessuno potrebbe ritenere irrilevante l’esito di questi dibattiti.

«Rubano assolutamente di tutto ed è impossibile fermarli. Ma lasciateli rubare e prendere la loro proprietà. Poi diventeranno proprietari e amministratori oneste di questa proprietà», ha detto Anatoly Chubais – partendo dalle stesse convinzioni di Friedman. Eppure in Russia questo non è accaduto. Il fallimento economico è un rimprovero costante a chi dichiara che l’unico requisito di un’economia di mercato è un sistema di diritti alla proprietà privata. La qualità delle istituzioni economiche – troppo semplice per essere caratterizzata come diritti di proprietà – è la principale differenza tra gli Stati ricchi e gli Stati poveri. L’ABM presuppone un’economia di mercato definita e descritta dalle attività di persone avide e titolari di diritti di proprietà difesi vigorosamente che, per il resto, sono libere dalle restrizioni o dalla regolamentazione delle loro azioni. Il problema non è semplicemente che questa versione non è veritiera: è che il tentativo di conformare il mondo al modello si è rivelato dannoso sia per l’efficace funzionamento dell’economia di mercato sia per la sua legittimazione politica. Fraintendendo la natura della vittoria americana nella guerra fredda, gli ideologi dell’ABM ne hanno minato le fondamenta.

Resta tuttavia una domanda ovvia. Se il modello di business americano non offre una descrizione plausibile di come funzionano le economie di mercato, perché l’economia americana ha tanto successo? Ovviamente, la risposta è che l’ABM non descrive l’economia americana. Come aveva compreso Tocqueville più di un secolo e mezzo fa, l’associazione – la creazione delle istituzioni sociali ed economiche che operano una mediazione tra gli individui e la comunità – è stata un tratto distintivo della società americana fin dalle sue origine: «La società più democratica del mondo appare come una società nella quale, ai nostri giorni, gli uomini hanno perfezionato al massimo l’arte di perseguire l’oggetto dei loro desideri comuni e hanno applicato questa nuova scienza per ottenere il massimo effetto. Oggi, la corporation è l’istituzione più importante. In passato, il corporate man, l’uomo d’azienda, l’epitome dell’immersione americana dell’individuo nell’azienda, era il bersaglio di battute di spirito. Invece, gli uomini e le donne dell’azienda sono gli individui sociali che rendono ricche e piene le vite economiche degli americani».

Il fallimento profondamente radicato dell’ABM è dovuto al mancato riconoscimento della complessità fondamentale delle istituzioni sociali dell’economia di mercato e del grado in cui queste organizzazioni economiche sono necessariamente embedded nella società, nella politica e nella cultura delle economie. Questa caratteristica si estende a tutti gli aspetti della vita economica. Nelle complesse economie moderne, le informazioni sono necessariamente incomplete e imperfette. Quando esistono grandi differenze d’informazione tra i venditori e gli acquirenti, i mercati competitivi falliscono. Generalmente, le transazioni si svolgono all’interno di un contesto sociale. Preferiamo trattare con le persone che conosciamo. Oppure ricorriamo a fornitori fidati o a marche fidate. Questo contesto sociale si sviluppa, ed è necessario, per affrontare le differenze d’informazione.

I mercati a rischio funzionano male, nonostante la fortissima espansione del settore dei servizi finanziari di tutte le economie avanzate. Gran parte dei grandi rischi che dobbiamo affrontare non sono gestiti attraverso il mercato, ma nei nuclei familiari, tra le comunità e dallo Stato. La descrizione migliore dei mercati azionari è quella di arene per un sofisticato gioco d’azzardo professionale e non di istituzioni che minimizzano i costi dell’assunzione del rischio e allocano efficientemente il capitale tra le diverse aree di business. Gran parte dell’attività economica non può essere, e non è, organizzata attraverso i negoziati tra grandi numeri di acquirenti e di venditori potenziali sui mercati impersonali – i mercati perfettamente competitivi dell’economia. Abbiamo l’esigenza di lavorare nelle organizzazioni e nei team e di cooperare nei piccoli gruppi. Spesso, gli individui mossi dall’egoismo falliscono nella cooperazione anche se la cooperazione era nell’interesse reciproco. Le culture d’azienda, i valori etici e la fusione della vita lavorativa e della vita sociale sono i meccanismi che rendono possibile le attività produttive cooperative. La conoscenza e le informazioni sono i prodotti chiave nelle complesse economie moderne e non possono essere prodotte sui mercati competitivi dove, per ogni bene, esistono molti venditori e molti acquirenti. Le motivazioni non materialistiche – l’eccitazione della scoperta e le soddisfazioni della filantropia – sono state stimoli più importanti per l’innovazione che per la ricerca del profitto. Spesso, gli economisti citano come esempio del «fallimento del mercato» le questioni poste dalle informazioni asimmetriche ed imperfette, i problemi di coordinamento e le inadeguatezze dei mercati a rischio. Ma il termine non coglie il punto. Esistono fallimenti di un modello di economia di mercato, ma non il fallimento dell’economia di mercato di per sé. Gran parte della forza delle moderne istituzioni economiche deriva dai meccanismi sociali che si sono sviluppati per affrontare le questioni: le economie di mercato funzionano perché, e soltanto perché, sono inserite in un contesto sociale. Il paradosso intellettuale degli ultimi due decenni è che la legittimità e l’efficienza del capitalismo moderno sono state erose da una descrizione della sua modalità operativa che è al tempo stesso ripugnante e falsa.

 

La gestione sociale del rischio economico

Le economie di mercato gestiscono l’incertezza in modo costoso, e la gestiscono male. I mercati privati non forniscono una tutela efficace contro i principali rischi della vita – infortuni, esubero, disoccupazione e fallimento delle relazioni. Il rischio morale e la selezione avversa sono diffusi. Non siamo bravi a valutare i rischi e a calcolare le probabilità. I grandi rischi della vita non possono essere gestiti dai mercati. L’alternativa politica è quella di lasciare che i rischi colpiscano dove colpiscono o cercare di gestirli attraverso le istituzioni sociali.

Se lasciamo che i rischi colpiscano dove colpiscono, i costi potrebbero essere molto alti per le vittime sfortunate. Alcune famiglie negli USA sono state rovinate da onorari medici esorbitanti. Molte più famiglie sono paralizzate dalla paura di doverli pagare. Altre ancora non ricevono alcun trattamento, o ricevono un trattamento inadeguato, in un paese nel quale l’accesso agli standard di assistenza medica, che sono i più alti del mondo, è consentito soltanto ad alcuni. Quando la vita appare come una lotteria iniqua, i perdenti si isolano dalla società. Negli Stati Uniti, le maggiori ineguaglianze di reddito e di ricchezza vanno di pari passo con elevati livelli di criminalità di strada, con una popolazione carceraria di gran lunga superiore alla media europea e con la crescita delle comunità segregate. Né è sempre chiaro dove colpiscono i rischi. Se non esiste una previdenza sociale contro la sfortuna, le vittime hanno soltanto la possibilità di addossare a qualcun altro la responsabilità delle loro disgrazie. La possibilità di ricorrere a questa possibilità può avere una scarsa correlazione con la ragionevolezza della rivendicazione, e può non essere affatto in rapporto con la gravità della sventura. I procedimenti giudiziari sono costosi per tutte le parti e spesso non sono affatto efficaci nel compensare il disagio reale. È profondamente inquietante che quasi nessuno dei miliardi di dollari spesi per promuovere e definire i processi intentati a causa dell’amianto sia riuscito ad alleviare le sofferenza delle persone colpite dal mesotelioma. Al tempo stesso, il rischio di essere citati in giudizio è divenuto un rischio supplementare della vita moderna. Di conseguenza, i campi da gioco sono esenti da rischi, o quanto meno esenti dalla responsabilità, al punto che qualsiasi bambino normale troverebbe troppo noioso utilizzarli.

Quando i mercati privati e il sistema di tutela degli illeciti falliscono, e in gran parte falliscono, i grandi rischi della vita quotidiana sono gestiti meglio dalle assicurazioni sociali. La previdenza sociale differisce dalle assicurazioni private perché non prevede una rispondenza attuariale tra i pagamenti e i costi attesi. I sistemi sono stati sviluppati in Europa per gestire i rischi medici, la perdita di reddito causata dalla malattia e dalla disoccupazione e le conseguenze della disgregazione della famiglia. La previdenza sociale esprime la solidarietà sociale. L’appartenenza al regime previdenziale non può essere un optional, perché ciò condurrebbe al free riding, al rischio morale e alla selezione avversa. La sostenibilità della previdenza sociale dipende dall’accettazione generale della sua legittimità. Tuttavia, il concetto essenzialmente comunitario è eroso dai tentativi di forzarlo all’interno di un quadro di politiche individualistiche. La sinistra politica ha fatto propria una retorica delle destre, nell’erronea convinzione che ciò avrebbe dato un maggior peso alle richieste di solidarietà sociale in un mondo sempre più influenzato dal materialismo egoistico. Tuttavia, la bizzarra natura del «velo di ignoranza» di Rawls dimostra la difficoltà di dare una spiegazione convincente dell’origine dei diritti al welfare. L’asserzione dei diritti richiede la collaterale volontà, per lo più assente, di accettare gli obblighi. La prospettiva comunitaria evita il linguaggio dei diritti, ripristina il concetto di deserto ed enfatizza come obiettivo politico primario l’esclusione piuttosto che il basso reddito.

Le istituzioni solidaristiche non devono essere necessariamente soltanto agenzie statali, anzi non dovrebbe esserlo affatto. Le grandi aziende sono le più efficienti erogatrici di prestazioni ai propri dipendenti nel campo dell’assicurazione contro la disoccupazione e contro gli infortuni sul lavoro. Le aziende e i colleghi di lavoro sanno distinguere chi simula la malattia da chi è vittima della sventura, con una flessibilità che nessuna burocrazia vincolata alle regole riesce a fare. Eppure, l’aspettativa che un normale dipendente di una grande azienda privata o di un’autorità pubblica, dotato delle necessarie competenze, potrebbe pretendere la sicurezza del posto del lavoro in tutte le circostanze tranne quelle eccezionali – pagando un prezzo – è stata annullata dalla dichiarazione delle aziende che affermano di non potersi permettere più di garantire un posto di lavoro a vita. Nella rivoluzione del mercato, questa scoperta è stata rapidamente seguita dalla scoperta che neanche lo Stato può permettersi di sostenere tali costi.

L’affermazione che «non possiamo permetterci» questi rischi è intrinsecamente contraddittoria. I rischi delle fluttuazioni economiche, della malattia, degli infortuni, della disoccupazione, della disgregazione delle famiglie e della fine dei matrimoni sono inevitabili. La società non ha scelta: deve permetterseli. Tuttavia, le sue istituzioni possono aumentare o ridurre i costi: con la collettivizzazione parziale esse riducono i costi ripartendoli, ma invitano al rischio morale. La condivisione dei rischi all’interno delle comunità consente di realizzare il miglior equilibrio tra queste forze in conflitto.

 

Il futuro degli Stati poveri

Le disparità di reddito e di ricchezza nel mondo di oggi sono un affronto a qualsiasi persona in grado di riflettere. Il denaro e le crescita economica non comprano necessariamente la felicità: ma il denaro e la crescita economica potrebbero certamente comprare più felicità per i nuclei familiari poverissimi. Tuttavia, chi vive negli Stati ricchi non è ricco perché chi vive negli Stati poveri è povero. Non è affatto vero che l’economia di mercato e il sistema del commercio mondiale sono strutturati in modo che il ricco guadagni a spese del povero. Se gli Stati ricchi del mondo intrattenessero scambi commerciali soltanto tra di loro e non avessero alcuna relazione economica con il resto del mondo, il loro tenore di vita non diminuirebbe di molto. Gran parte degli scambi commerciali avvengono comunque tra di loro. La conseguenza più rilevante sarebbe un aumento dei costi dell’energia. Gli Stati ricchi sono ricchi per l’alta produttività che risulta dallo sfruttamento efficace della divisione del lavoro e delle loro tecnologie, della professionalità e delle capacità moderne.

In un mondo diviso in questo modo, anche il tenore di vita dei paesi poveri diminuirebbe. Forse, in proporzione, diminuirebbe di più. I pochi paesi poveri ricchi di risorse – come il Congo e l’Arabia Saudita uscirebbero perdenti. Ma queste risorse distorcono la struttura delle loro economie al punto che i benefici a lungo termine per i riceventi sono incerti. Ancor più grave sarebbe la perdita di impianti– dagli impianti di produzione petrolifera alle attrezzature delle telecomunicazioni – che non potrebbero essere affatto prodotti senza accesso alla tecnologia occidentale.

I paesi poveri non sono poveri neanche a causa del «deficit di finanziamento» che può essere colmato dagli Stati ricchi. L’efficacia degli aiuti, non particolarmente generosi, erogati in passato è limitata. È facile lanciare una difesa emozionale per un alleggerimento del debito, ma le questioni sono complicate. I suoi paladini ci invitano ad immaginare che gli abitanti dei paesi poveri trascorrono gran parte del giorno a lavorare per pagare i debiti imposti da noi. La realtà è che gran parte dei prestiti ai paesi fortemente indebitati era a fondo perduto e non può più essere recuperata. La conseguenza pratica dell’indebitamento è che essa limita la capacità di un ulteriore prestito. Poiché gran parte del denaro preso in prestito in passato è stato rubato o sperperato, questo potrebbe essere un esito positivo piuttosto che negativo.

La differenza tra gli Stati ricchi e gli Stati poveri è il risultato delle differenze della qualità delle loro istituzioni economiche. Dopo quattro decenni di delusioni, le agenzie di sviluppo hanno preso coscienza di questo e hanno usato la loro autorità per chiedere le riforme. Tuttavia, le prescrizioni sono state spesso superficiali. Alla Russia non sono state offerte le istituzioni americane ma la panacea del modello di business americano. Si supponeva che le istituzioni del mercato – diritti di proprietà garantiti, minimo intervento statale nell’economia, lieve regolamentazione – fossero semplici ed universali. Se le prescrizioni fossero state attuate, la conseguenza sarebbe stata la crescita. Non è avvenuto – e non avverrà.

 

Conclusioni

Il ruolo della politica economica in un’economia moderna è un ruolo complesso. Gli Stati ricchi sono – letteralmente – il prodotto di secoli di evoluzione della società civile, della politica e delle istituzioni economiche. Si tratta di una co-evoluzione che comprendiamo soltanto in parte e non possiamo trapiantare. Negli unici esempi di successo di un trapianto – la discendenza occidentale – intere popolazioni, e le loro istituzioni, sono state insediati in paesi quasi vuoti. L’attrattiva dell’American business model oggi, e del marxismo ieri, suggerisce che la storia delle istituzioni economiche, la struttura della società attuale e il percorso dello sviluppo futuro hanno una spiegazione economica semplice e un esito inevitabile. È una visione fuorviante di una politica economica come quella marxista.

La questione di fondo della politica economica in un’economia di mercato è come definire i confini tra Stato e mercato. Ma in un mercato embedded questi confini non possono essere netti. Il concetto che la fornitura dei pubblici servizi, o il perseguimento degli obiettivi sociali, possano essere decentrati attraverso un processo di contratti rigidamente definiti è una chimera, salvo in alcune aree limitate nelle quali gli esiti possono essere descritti con precisione e i metodi per arrivare a tali esiti sono ovvi e generalmente accettati. Si tratta di attività come la pulizia delle strade o i servizi di lavanderia degli ospedali. Questa teoria del contrattualismo e del decentramento è il linea con l’esperienza stessa del settore privato. In passato, la General Motors distingueva nettamente tra componenti personalizzati la cui produzione doveva essere controllata dalla stessa azienda e acquisti di materie prime che potevano essere affidati all’esterno in tutta sicurezza ricorrendo al fornitore più conveniente; poi la Toyota ha dimostrato che una migliore qualità del prodotto, una produzione più rapida e più snella e una risposta più flessibile alle mutevoli condizioni di mercato potevano essere realizzate attraverso i rapporti di fiducia tra un keiretsu di fornitori preferiti. In un’economia moderna, la fabbricazione di prodotti complessi è divenuta possibile soltanto rendendo permeabili i confini tra l’azienda e il mercato. La fornitura di servizi complessi in uno Stato moderno sarà possibile soltanto rendendo analogamente permeabili i confini tra Stato e mercato.

Ciò implica una rivalutazione sostanziale delle strutture basate sull’idea che le attività economiche dello Stato possano essere articolate su una distinzione tra politica e attuazione – una distinzione che, nelle questioni economiche, è raramente possibile – e sul fatto che i rapporti tra lo Stato ed altri agenti devono essere trasparenti, definiti con precisione e non discriminatori. Come può il governo realizzare l’informalità relativa delle relazioni commerciali tra le aziende, che costituisce la base reale del successo dell’economia di mercato, senza aprire la porta a quella corruzione e a quell’arbitrarietà che la regolamentazione giuridica dei rapporti tra il settore pubblico e il settore privato deve prevenire? L’esito più infausto – e un pericolo attuale – è quello di costruire, tra lo Stato e le aziende private, rapporti formali in apparenza ed informali nella sostanza. Quando il contratto elaborato è sottoposto a tensioni, sarà rinegoziato, o accantonato.

Di conseguenza, i rapporti tra Stato e mercato non sono semplicemente, o prevalentemente, materia di legge, di regolamentazione e di contratto. L’atmosfera nella quali tali rapporti si svolgono è critica. Per ripetere: la politica economica non è semplicemente, o primariamente, una questione di ciò che il governo dovrebbe fare. Il governo è semplicemente uno dei mezzi con i quali viene espresso il contesto sociale del mercato embedded. I concetti come reputazione e legittimazione sono espressioni ugualmente rilevanti di tale contenuto e giocano un ruolo altrettanto centrale nella regolamentazione dell’attività economica.

Quindi, i regolamenti imposti dalla legge e l’auto-regolamentazione non sono alternativi. In un mercato embedded che funziona bene, sono complementari. Generalmente, in una società democratica, il diritto può essere applicato soltanto se corrisponde al comportamento che sarebbe tenuto da gran parte degli individui, o comunque che gran parte degli individui desidera vedere. Ciò è ancor più vero per la regolamentazione economica che non può funzionare sottomettendo i recalcitranti con la forza. i suoi obiettivi sono troppo complessi e i suoi clienti troppo sofisticati perché questo tipo di meccanismo possa funzionare. Quando il giovane Alan Greenspan scriveva che «in fondo ad una pila infinita di carte che caratterizza ogni regolamento si trova una pistola», diceva una cosa senza senso; se la regolamentazione economica ha bisogno di una pistola per essere applicata, il suo fallimento è inevitabile.

Le regole non possono assicurare relazioni contabili fedeli o prospetti dei titoli veritieri, a meno che tali regole non siano internalizzate dalle stesse aziende private. Senza elementi di una regolamentazione esterna, l’auto-regolamentazione degenera rapidamente in auto-incensamento – come avviene in professioni come quelle forensi, contabili o mediche. Tuttavia, di per sé, la regolamentazione esterna non può mai acquisire la sofisticazione e la flessibilità o le informazioni necessarie per conseguire i suoi obiettivi. Nel settore dei servizi finanziari, come in altri settori, il veicolo più potente della regolamentazione è la reputazione ottenuta con il sostegno reciproco – i trader rispettati operano soltanto con altri trader rispettati anche se tributano a malincuore questo rispetto. Negli ultimi due decenni, questo meccanismo è stato consentito, quando il massimo di avidità all’interno di un minimo di regole era il credo dell’economia di mercato.

Le organizzazioni intermedie – gli organi che non sono né agenzie pubbliche, né semplici gruppi di individui o contratti tra individui – hanno un ruolo importante sul mercato embedded. Le organizzazioni intermedie più importanti nella vita economica sono le imprese. Ma anche le istituzioni non profit hanno un importante ruolo economico da svolgere. Alla fine, il dibattito sulla privatizzazione ha riconosciuto che le azioni economiche non possono essere polarizzate tra le agenzie pubbliche e le public companies – un’altra ammissione dell’impossibilità di tracciare confini netti tra Stato e mercato. Esiste qui una distinzione tra le ONG che esercitano funzioni economiche – società, case di riposo, Oxfam e le ONG che perseguono obiettivi puramente politici e rivendicano il diritto di essere ascoltate. Tutte queste organizzazioni intermedie sollevano questioni di legittimazione e responsabilità. Da dove traggono la loro autorità? A chi devono spiegare e giustificare le loro azioni? In un mercato embedded, la legittimazione passa attraverso i processi elettorali delle politiche democratiche – o attraverso la dimostrazione del successo su un mercato competitivo. In questo contesto, il mercato può essere interpretato in senso ampio. Sul mercato, i supermercati competono per i generi alimentari e le università competono per gli studenti e per il finanziamento e l’attenzione alla ricerca, le ONG politiche competono per le idee. In un mercato embedded, l’autorità legittima si acquisisce attraverso la vittoria sulla concorrenza.

Questa molteplicità di mercati illustra le numerose modalità di associazione del pluralismo economico e del pluralismo politico. Se, in linea di principio, una forma di pluralismo può esistere indipendentemente dall’altra, la correlazione pratica tra le due forme è enorme. Praticamente, tutte le economie di mercato di successo sono democrazie e lo sono state per gran parte della loro storia economica recente. Nell’Unione Sovietica, il tentativo di introdurre elementi di pluralismo economico ha distrutto rapidamente il centralismo politico. Forse, l’esperienza della Cina sarà diversa – ne dubito. Alcuni entusiasti del libero mercato descrivono il funzionamento dei mercati come forma di democrazia. Io preferisco considerare il processo democratico come una forma di mercato politico.

In ogni caso, nell’attuazione della politica economica si impone umiltà. È deludente che l’esperienza del coordinamento deliberato dei sistemi economici e dello sviluppo economico abbia dimostrato di essere peggio della totale assenza di coordinamento. L’esperienza della pianificazione economica nelle socialdemocrazie non è più incoraggiante, anche se forse è meno calamitosa dell’esperienza della pianificazione economica sotto il comunismo. Il problema fondamentale, e irrisolvibile, è che un tale intervento presuppone una conoscenza del sistema e dell’ambiente economico che nessun può validamente asserire di possedere. Chi rivendica una tale conoscenza è ancor meno degno della nostra fiducia di chi riesce a farne senza. La vera lezione da trarre è che la moderna economia di mercato, necessariamente inserita in un contesto sociale, politico e culturale, è uno strumento sensibile e la nostra comprensione del suo funzionamento è solo imperfetta. Se la triste esperienza delle economie pianificate è una doccia fredda, lo è anche la triste esperienza della Nuova Zelanda – il paese che dal 1984 al 1999 ha seguito le prescrizioni liberali dell’ABM con più determinazione di qualsiasi altra economia sviluppata e, nello stesso periodo, ha registrato la peggiore performance macroeconomica di qualsiasi altro paese sviluppato. La lezione da trarre dal fallimento sovietico non è che la visione sovietica fosse sbagliata ma che essa era irrilevante. Qualsiasi tentativo di attuare grandi disegni economici è probabilmente destinato al fallimento.

La politica economica è di per sé specifica del soggetto e del contesto. La forma di organizzazione industriale adatta alla generazione di energia elettrica è diversa da quella adatta alla fornitura di acqua. I meccanismi di regolamentazione appropriati per i servizi finanziari non sono gli stessi meccanismi appropriati per la vendita al dettaglio di generi alimentari. Ciò non significa che non vi sono principi generali o analogie pertinenti, ma significa che essi sono raramente scontati o convincenti. È noto che, in passato, Keynes aveva sperato che l’economia e il policy making economico divenissero una materia tecnica, come l’odontoiatria. È venuto il momento di ribadire questa speranza.