Diario americano

Di Giulio Sapelli Lunedì 02 Giugno 2003 02:00 Stampa

Gli alberi del mio giardino, dove gli scoiattoli ogni mattina si arrampicano sin sul davanzale della finestra al pian terreno, da dove li vedo correre furtivi, sono bianchi di neve e tutto sembra immerso in un’irreale cortina di nebbia stopposa. Mi hanno appena consegnato le chiavi del mio piccolo appartamento nei palazzi dietro Washington Square dove ha sede l’Eric Remarque Institute, che mi ospita per più di un mese qui a New York, consentendomi di usufruire dei servizi di una buona segreteria, di un discreto ufficio presso la New York University e di un clima informale quanto mai piacevole.

 

Scoiattoli e rimpianto degli snob liberali a Manhattan

Gli alberi del mio giardino, dove gli scoiattoli ogni mattina si arrampicano sin sul davanzale della finestra al pian terreno, da dove li vedo correre furtivi, sono bianchi di neve e tutto sembra immerso in un’irreale cortina di nebbia stopposa. Mi hanno appena consegnato le chiavi del mio piccolo appartamento nei palazzi dietro Washington Square dove ha sede l’Eric Remarque Institute, che mi ospita per più di un mese qui a New York, consentendomi di usufruire dei servizi di una buona segreteria, di un discreto ufficio presso la New York University e di un clima informale quanto mai piacevole. I miei obblighi sono pressoché inesistenti: debbo scrivere, leggere, studiare, lavorare al mio progetto di ricerca sulla nuova classe agiata nordamericana. Una sfida che mi paralizza: saprò, dopo Veblen, dire qualcosa di non banale sul periodo cruciale del capitalismo e della società nordamericana degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, ora che il caso Enron ha disvelato quanto profonda fosse l’esuberanza irrazionale del mercato borsistico? Essa ha trainato una propensione agli investimenti colossale e dolorosamente superiore a ogni solvibilità della domanda, qui, in Europa e in Asia. Appena giunto sono stato ricevuto su, tra le alte case di Manhattan, da uno dei protagonisti della prima grande ondata dell’esuberanza irrazionale, un famoso ex presidente di una grande corporation che fu tra i primi a fare le spese di un take over aggressivo che lo spossessò tanto delle cariche quanto delle azioni che definivano i suoi diritti di proprietà. Secondo lui il malessere è molto più profondo di quanto non appaia: incontrando il mio fervido assenso, mi racconta di come da circa un ventennio si stia creando una situazione per la quale la democrazia degli azionisti non esiste più, se è mai esistita! «Vede – mi dice – come gli scandali stanno affiorando quasi ogni giorno!». Cerco di argomentare che il problema è, appunto, quello della visibilità della corruzione o della cattiva governance e che è già assai positivo che tali patologie emergano, piuttosto che costituire l’ossatura invisibile di un sistema che, come io ritengo, è la norma in Europa e in Asia. Chiacchieriamo ancora un po’ su questo tema, mentre beviamo tranquillamente nel farsi della sera. Ma l’ex grande tycoon è ormai stanco e distratto: giungono le figlie dalla scuola pomeridiana, conversano con l’ospite straniero e d’un tratto tutto cambia: giunge la bellissima signora che è la giovane moglie del nostro importante uomo d’affari: è con una amica, il marito di tale amica e un altro azzimato giovanotto. Mi invitano a cena, ma capisco che è ora di andare. Del resto il viaggio è stato lungo e da stamane sono in piedi lottando contro il cambio di fuso orario. Scendo i tre piani della severa casa accompagnato dalla padrona della magione e dalle figliole. Noto la perfetta freddezza degli arredi e ricordo quel passo del meraviglioso libretto di Elena Croce sullo snobismo liberale in cui si descrivevano quelli degli industriali nuovi ricchi degli anni Trenta del Novecento in Italia. Anche qui tutto è artificiale: i quadri costosissimi sono scelti evidentemente dagli architetti, se la signora neppure sa il nome dell’artista e ogni ninnolo che si posa sui davanzali ostenta una ricchezza spropositata rispetto a ciò che un tempo vedevo non lontano da qui, in altre case delle vecchie élite del denaro e del potere, che lo erano, tuttavia, anche dell’arte e della cultura. Ecco emergere la distintività antagonistica vebleniana della classe agiata: non conta soltanto possedere, ma esibire e tutto deve essere governato – aggiungeva Rimmel – dalla moda.

Quando la porta si chiude dietro le mie spalle e l’automobile dei padroni di casa mi conduce verso il mio rifugio, penso che incontro più propizio non poteva esservi per la mia prima giornata newyorkese. Ho di che meditare e inizio a farlo. Mentre è tornato il mattino sgranocchio degli avanzi di pane azzimo lasciati dal precendente inquilino del mio alloggetto dinanzi agli occhi vispi dello scoiattolino che mi guarda dal suo manto di neve: doveva essere bene abituato e non posso certo tradire le sue aspettative.

 

Muratori, unions, limousine

Esco presto, di buon mattino: voglio raggiungere la mia meta agognata: la New York Pubblic Library, con i suoi undici milioni di libri e il suo impeccabile servizio. Un servizio assicurato da una miriade di occupati, divisi in dirigenti, che appaiono saltuariamente e girano lenti tra i lettori, e dipendenti che occhio vigile rispondono con dignità alle domande del pubblico più vario, dal premio Nobel alla signora che entra per ripararsi dal freddo e che anche lei trova conforto con una rivista e un buona parola, purché si comporti convenientemente non disturbando i vicini. Poi ci sono gli addetti alle informazioni per il catalogo e a risolvere ogni problema dell’utente: sono veramente tanti e tutti gentili, anche con me, che all’inizio mi incaglio sia nel mio inglese tutto accademico e poco colloquiale sia con un’informatizzazione del catalogo medesimo troppo perfetta per i miei gusti e da cui non so estrarre tutte le informazioni essenziali: ce ne sono troppe. Molti dei dipendenti sono professori di scuola media inferiore e superiore (uso il gergo italico), che fanno questo lavoro per arrotondare il loro stipendio: ma lo fanno con una competenza e una gentilezza senza pari.

Infine, ecco l’arcano, una schiera ben cospicua di giovani studenti di tutte le età e di tutti i variegati colori del globo. Tantissimi si occupano di ricevere i cedolini librari e di smistare i libri che giungono dalle viscere della biblioteca con una precisione e rapidità implacabili. Scopro qui quello che avevo letto e conosciuto di gran fretta due anni fa, ma che non avevo intellettualmente metabolizzato: il lavoro interinale o precario o intermittente qui è la norma e la sostanza. Ma ciò che impressiona specialmente è quanto lavoro vi sia, dispiegato dinanzi a tutti: che l’osservatore lavori anch’esso o si diverta non può non accorgersi dell’abbondanza del lavoro in ogni luogo e per ogni età, quale che sia la sua retribuzione. Ma tutti i lavori sono rispettati e hanno lo status della professionalità, quali essi siano. Tanto lavoro, dunque, poco pagato e che ti offre un buon servizio, sia che tu sia in una biblioteca, come è ora il mio caso, oppure che tu vada al ristorante di ogni ordine e grado, oppure in un ente pubblico o in una azienda grande o piccola che sia. E impressiona la giovane età di chi ti circonda lavorando. Qui alla biblioteca i ragazzi e le ragazze sono tutti studenti: si danno i turni di cinque ore con una implacabile regolarità. Li vedrò ogni giorno, colpiti dall’enormità delle mie richieste che si dipanano per le dieci ore di permanenza quotidiana tra le vaste volte o le più racchiuse sale specialistiche della biblioteca più efficiente del mondo.

Ma c’è chi lavora ancora in modo assai classico e duro. Da un paio di giorni dinanzi al portone della mia grigia casa sostano dei muratori che distribuiscono volantini. Sono americani del nord e del sud. Con quelli del nord non mi riesce di parlare: sono assai diffidenti e scontrosi, di pochissime e gutturali parole. Nessun professore si è mai degnato non dico di guardarli, ma tanto meno di scambiare qualche parola con loro e che io lo faccia li insospettisce. Sono vestito come un professore della law school, è vero, e non come un normale professore di sociologia o di economia, quelli che girano con tazze di cartone fumanti, portano scarponcini di ogni foggia e colore e sono di dubbia pulizia personale. Oltre a questa alterità ne ho un’altra: sono uno straniero incollocabile e indecifrabile. Chi sia lo scoprono quando riesco a presentarmi, ma anche così è difficile dare un senso alla mia presenza e al mio agire. Un’altra difficoltà è la lingua. Il loro inglese è per me spesso incomprensibile: mi ricorda i dialetti gallesi che da giovanissimo udivo dinanzi al Birbeck College a Londra, quando il laburismo inviava i suoi dirigenti operai a studiare la sera in quella fantastica istituzione fabiana dove ho lasciato il mio cuore, e le mie speranze in un mondo di liberi e di eguali. Mi intrattengo con un messicano ed è finalmente un piacere. Parlo il mio buon spagnolo e lui è felice; mi chiede che cosa ci faccio, ma veramente, veramente, «really» (dice ammiccando), qui a New York. Evidentemente non riesce a comprendere per quale ragione una fondazione dal nome tedesco mi ospiti circa due mesi, mi offra un alloggio in una zona che per lui è super lussuosa e non mi chieda nulla in cambio se non scrivere senza obbligazione alcuna ciò che mi pare.

Vinco la sua diffidenza parlandogli del sindacato e della sua importanza e raccontandogli con quanto interesse io abbia letto la deliberazione del comitato esecutivo dell’AFL-CIO del 27 febbraio 2003 contro la guerra in Iraq. È la prima volta che questo succede nella storia dei sindacati nordamericani. Mi guarda stupito e ancora più sospettoso. Non ne sa nulla. Ma sa tutto, invece, sul contratto aziendale che la sua società di restauro degli edifici si ostina a non firmare. Della guerra non vuole parlare: vuole invece che io firmi una dichiarazione in cui si sostiene lo sciopero che lui e i suoi compagni fanno contro l’azienda e che, contemporaneamente, sgravi il sindacato da ogni responsabilità se nel corso dei due giorni di sciopero dei due giorni successivi – quando i cantieri del restauro della facciata saranno sospesi – dovessero verificare incidenti di qualsiasi sorta: caduta di carrelli, di tubi, ecc. Per i due giorni di sciopero il mio amico è lì, dinanzi a me ogni mattina e ancora la sera quando ritorno dalla biblioteca. Non mi guarda e non risponde al mio saluto. Venerdì sera, quando sono di ritorno alle venti e trenta dalla biblioteca e mi preparo a uscire, eccomelo dinanzi. Ha con sé un ragazzetto di circa dieci anni, il quale con un gran sorriso e in un ottimo inglese che finalmente comprendo alla perfezione, mi invita ad andare a casa sua con papà la sera successiva, sabato, a cena: appuntamento in una via di Queens, l’immenso quartiere che si snoda tra la fine di Houston e il Kennedy, e che ospita oggi dai due ai tre milioni di neri, di sud-americani, di asiatici e di magrebini.

Accetto e il sabato partecipo alla festa messicana più bella e interessante della mia vita, mangiando tacos che non si trovano più neppure a Città del Messico, ascoltando canzoni al ritmo languente di chitarre che strappano lacrime e sorrisi e risate. Siamo circa una decina in due stanze di cinquanta metri quadrati ma ci stiamo tutti e bene. I letti sono stati appoggiati alle pareti e i tappeti ricoprono il pavimento di legno e la cena non termina mai. Ritorno sulla guerra. Ma solo sollevare il problema genera lunghi silenzi, fino a quando la moglie del mio padrone di casa non dice piano: «Non va bene; abbiamo molti amici turchi, qui (intende dire arabi, ma usa un idioletto molto diffuso in Sud America, dove anche i libanesi si chiamano turchi) e ci stupiamo che si debbano bombardare le loro case». Ma l’osservazione cade tra l’imbarazzo generale. Sento che tutti condividono l’opinione della padrona di casa: tutta la famiglia allargata lì presente, venuta a festeggiate l’evento costituito dal fatto che un professore della New York University (io sono quello per loro, ormai) sia venuto a casa di Ramon e Laurita (cosi si chiamano i miei ospiti). Su quel giudizio sulla guerra tutta la famiglia è d’accordo ma non può dirlo. Io sono troppo indecifrabile e non sono un interlocutore fidato.

Ritornare a casa sarà un problema. La cena termina alle due e trenta della notte e per Queens – immensa periferia di case ordinate – non circolano taxi e non si può alzare una mano e fermare il primo che capita a tiro. Tutti sostengono che posso dormire da loro, ma tutti sono felici quando si accorgono che sono determinato a chiamare Carmel, il dispensatore di auto e limousine che vi preleva ovunque e dovunque, sempre e ovunque voi siate per la modica cifra di sessanta dollari. Ritorno nel cuore della notte a Washington Square Village con la mia limousine e lascio stupefatto il doorman che improvvisamente si scappella dinanzi all’italico professore. D’ora in poi perderà quell’aria di sufficienza che si era accentuata sino a dismisura quando mi aveva visto parlare con Ramon. Passo nella categoria degli originali e degli eccentrici e qui, a New York, essi non possono essere che ricchissimi, tutti, senza eccezione alcuna. Il servizio di portineria è destinato a migliorare sensibilmente.

 

Guerra e pace

Le ore in biblioteca sono lunghe e sono irte di difficoltà. Occorre leggere e sistematizzare mentalmente, ma altresì conservare i materiali per poter riprendere il lavoro di riflessione, unirlo a quello di scrittura una volta che si giungerà a casa. Dopo qualche giorno di digiuno assoluto al mezzodì, non resisto più ai morsi della fame. Del resto, per poter far sì che tutto questo processo mentale abbia i suoi risvolti implementativi (appunti, fotocopie, rilevazione delle problematiche più importanti) debbo lavorare nel pieno delle mie forze nel corso delle dieci ore giornaliere di cui dispongo. Mi decido a pranzare verso l’una, per non giungere all’orario di chiusura stremato. Ora lavoro in una succursale della gigantesca library newyorkese: la Science, Industry and Business Library, posta all’inizio di Madison, in una splendida posizione per chi voglia sentire il lungo, profondo, sotterraneo respiro di questa immensa città. Scelgo di recarmi in un ristorante francese a fianco della Wharton Library: modesto, pulito, con due favolose anziane signore che ascoltano canzoni di Yves e di Simone e che ci consentono di respirare la vera essenza della vita nordamericana: la meta realtà e il meta linguaggio che ricreano artificialmente nel presente la storia, la nostalgia di essa e i diversi mondi non nordamericani, annichilendo la prima e deturpando i secondi in una epifania che si riproduce continuamente, ma che ogni volta pare che sia per sempre, definitivamente. I clienti del ristorante sono quanto di più vario: uomini e donne sole che sono appena uscite dal negozio che cura le unghie e che è proprio a fianco del ristorante – una mania, questa, dei newyorkesi – uomini d’affari e poi, e poi e poi…un nugolo di avventori che parlano forte e in fretta uno spagnolo forbito e che discutono di Fidel, di Salinas e di Duhalde, e di guerra e di pace come mai ho udito da quando sono qui a New York. Infatti nessuno parla della guerra, che pure è iniziata e continua e su cui, con accenti diversi, tanto la FOX quanto la CNN (i due canali più seguiti dalle folle) insistono con continui reportage. Nessuno mai affronta il problema. È persino apparso un bel pezzo di analisi di costume sull’edizione domenicale del New York Times, che, trasfigurando un immaginario party, sottolineava come il dovere dei partecipanti a quello che è un vero e proprio rito fosse sempre quello di non citare mai e poi mai la guerra…

Per quanto mi riguarda in un appuntamento nel Village, dove si mescolavano artisti, tycoons, sciantose e avventurieri del sesso e della coca, l’unico commento che mi è riuscito di trarre da un composito gruppo di questi divoratori di sushi e di drink, è stata la frase: «Sono pagati per morire, cosa vogliono?». Qui, nell’immaginario, ma reale, realissimo, locale parigino con la radio che suona canzoni francesi degli anni Cinquanta e Sessanta (anche allora c’era la guerra d’Algeria) ed egemonizzato dagli intellettuali ispanofoni che lavorano (ecco spiegata l’arcana loro presenza) nelle case editrici delle comunità sudamericane che affollano questa via, qui – ripeto – i giudizi sono invece taglienti e assai simili a quelli dei pacifisti europei. Per il resto, la folla solitaria nordamericana si comporta dinanzi alla guerra come quel protagonista tolstoiano di «Guerra e Pace», Pierre: ne vede in lontananza gli esiti e gli effetti, ne ode i terribili rimbombi e trema per le conseguenze, ma da lontano tutto diviene una coltre di bianche nuvolette che fanno apparire anche quelle crudelissime guerre ottocentesche, un sogno. E qui, a New York, la vita è sogno.

Un sogno da cui non si fuoriesce neppure dinanzi alla triste realtà della lista dei caduti che ogni giorno i giornali pubblicano con le fotografie dei giovani che hanno lasciato la vita terrena. Tantissimi sono i bianchi, in gran parte figli di militari, a riprova di una specializzazione ereditaria del mestiere del guerriero e soprattutto del prezzo che, sempre, qui le classi dirigenti pagano per la loro nazione, senza favoritismi di sorta, a differenza di quanto capita nell’Europa continentale. I bianchi sono seguiti dai sudamericani e dai neri nei necrologi, e vedere quei visi così giovani fa un terribile effetto: la morte ci guarda tramite la vita…

Per tutti i caduti, l’attenzione non solo delle autorità, ma della popolazione è presente con un’intensità fortissima e si partecipa con grande fervore alle inumazioni e alle cerimonie religiose che sono un’occasione fondamentale per cementare l’unità nazionale. Non si parla della guerra, non si dà nessun segno di assenso o di consenso, ma i morti si onorano come si onora la bandiera: con un profondo senso di obbligazione morale che è presente in ogni ceto o classe. Gli unici segni di impegno a favore della guerra si hanno su, nelle isole dorate dei ricchi di Manhattan, attorno al Central Park e dintorni. Qui qualche bandiera a stelle e strisce si affaccia dai balconi, e distinti signori salgono su rombanti limousine o su enormi monovolume con all’occhiello la bandiera, e sono quasi fisicamente diversi dai più, con la loro volitiva mascella ben rivolta in avanti e il petto ben esposto, di cui si intravedono i muscoli torniti.

Sono anch’io quel personaggio tolstoiano: ascolto gli echi della guerra e cerco di comprendere come si possa camminare al margine del campo in cui si svolge la battaglia senza dar segni né di orrore né di entusiasmo; e mi accorgo che forse la spiegazione di ciò è nella fortissima differenziazione sociale di cui questa società è dotata. Fortissima differenziazione che crea mondi vitali separati e distanti e interagenti soltanto nell’universo dei media. Ed è questa interazione che costituisce l’integrazione sociale di durkheimiana e parsoniana memoria. La ragione di ciò è nella crescita economica e nelle opportunità che la stessa altissima differenziazione sociale, come una benefica cornucopia, diffonde. Per questo ciò che la maggioranza degli americani del nord oggi temono è, appunto, la crisi economica, la perdita delle sicurezze non del welfare, ma dell’esuberanza borsistica che è stata, ed è in parte ancora, la «nuova frontiera», ora che gli indiani non esistono più.

 

Italiani vecchi e nuovi

Questa sera sono invitato dal «Club degli italiani democratici». È un insieme variegato di vecchi residenti – giornalisti, per la maggior parte, che svolgono, unitamente a quella redazionale, varie attività economiche e culturali – e di giovani «nuovi arrivi», in maggioranza attivi nel mondo della finanza e in misura minore nell’ industria e nell’università.

Usano riunirsi nei ristoranti italiani di nuova creazione per discutere con i loro connazionali di passaggio che essi ritengono degni di stimolare il loro interesse. Accetto l’invito e passo una serata bellissima, con giovani ardenti di passione e di critica costruttiva all’italica terra, che mi fa quasi commuovere. L’amalgama tra le generazioni è forse il dato più bello e caratteristico di questa iniziativa che è un vero e proprio network di culture e anche di solidarietà, con una schietta amicizia e un’originale e vivissima passione per il confronto. Naturalmente, visto che parlo dopo abbondanti libagioni, dico con più enfasi del solito ciò che mi angustia se penso al paese nostro, in primo luogo dal punto di vista degli studi che sto conducendo qui: etica degli affari, governance delle imprese, globalizzazione e risposta a essa a partire dagli storici patrimoni umani scientifici culturali e industriali di cui è dotato il Bel Paese. Esplicito che ciò che mi preoccupa non è il declino dell’Italia, che mi appare certo e inevitabile, ma tuttavia lunghissimo e secolare, tanta è la ricchezza e la dotazione di conoscenze e saper fare tacito in essa racchiuso (senza civiche virtù, tuttavia, e qui sta la causa del declino, perché senza tali virtù non v ‘è classe dirigente). Insisto, invece, sul fatto che gli Stati Uniti mi paiono sempre più pericolosamente simili all’Europa, con il loro incipiente neopatrimonialismo, con la caduta sempre più frequente della capacità di autoregolazione delle corporations, nel crollo discontinuo, ma non per questo meno preoccupante delle sanzioni morali nei confronti della corruzione, e per tal ragione nella sempre più spiccata visibilità di quest’ultima. Il tutto con il nocciuolo di un neopatrimonialismo, lo ripeto, che mi pare dilagante anche qui, nella patria della bilanciamento dei poteri e della lotta contro il conflitto di interessi. Assistono alla nostra conversazione anche diplomatici di secondo rango simpatici e orientati secondo una meditata analisi critica delle relazioni internazionali come stanno delineandosi e delle malattie del nostro paese che essi orgogliosamente difendono, in garbata polemica con me. Ed è giusto che lo facciano.

Il giorno dopo è sabato. La biblioteca è, come sempre, aperta e io torno al mio lavoro. Le signore francesi al sabato non lavorano e non posso chiacchierare di Sud America. Mi reco per rifocillarmi presso un ristorante italiano – l’unico locale aperto qui alla base di Madison in queste ore – e incontro un proprietario che è arrabbiatissimo con i nuovi ristoratori italiani. Sono io a suscitare il suo furore. Pur detestando recarmi nei ristoranti italiani quando sono all’estero, l’allegra e pensosa brigata degli italici espatriati mi ha già condotto, per prepararmi al confronto, a cena in un paio di questi nuovi ristoranti italiani new age: biologico cibo e informalità che significa tovaglioli di carta, camerieri con le unghie nere e conto salatissimo e soprattutto niente carta di credito e quindi niente tasse. Cosa che molto mi ha stupito. Lo dico al mio nuovo oste e qui scoppia il suo furore: «Questi non sono americani: sono rimasti italiani e la polizia spesso chiude i ristoranti loro, con grande discredito di tutti noi», mi grida in un italiano metà inglese, metà napoletano che mi scalda il cuore: «Sono la vergogna nostra – continua – anche qui si fanno riconoscere…».

Insomma, esco disperato e scorato da quel mio frugale rifocillarmi a metà giornata. E ne discuto con le due più care persone che qui ho riconosciuto come amici in questo soggiorno: una ricercatrice valentissima e un giovane finanziere con il tarlo della politica. Asseriscono che certo c’è un po’ di esagerazione ma che è tutto vero. Non è questa la prova, del resto, che nonostante l’irrazionale esuberanza borsistica e la crescita a dismisura dell’economia il melting pot continua a non funzionare? L’integrazione sociale si mantiene e si riproduce potentemente, conflitti sociali praticamente non ne esistono e il patriottismo non è una virtù, ma una «obbligazione integrativa» che presto tutti fanno propria da qualsiasi parte del mondo provengano. Ma i vecchi valori repubblicani del civismo, che rappresentavano le radici della nuova terra, e che sino ad alcuni anni or sono le élites presbiteriane ed ebraiche diffondevano anche tra i nuovi arrivati, ora mi sembra che non si implementino più o lo facciano con molta più fatica e tra mille difficoltà: quella era un’obbligazione universalistica, non strumentale all’integrazione sociale. Gli Stati Uniti sono sempre più una serie interminabile di tribù governate da un’oligarchia, un tempo illuminata: oggi, invece, dispoticamente insediata nel cuore del controllo non tanto dei media, ma degli accessi asimmetrici alle fonti della circolazione delle élites.Una circolazione sempre più difficile e sottile.

Di qui l’emergere di sclerosi, di difficoltà nell’autoregolazione civile prima che economica: lo ius è sempre meno nella civitas o essa lo produce con sempre più difficoltà, per via della decadenza dell’obbligazione politica e morale. Le tribù italiche sono minoritarie e ben solitarie nel loro rimpianto perenne della patria. Ma di questo processo di lento degrado anch’esse sono testimonianza e memoria, ora che gli scoiattoli corrono sugli alberi non più coperti di neve e su cui le gemme hanno ripreso a fiorire: erano innevati quando guardai per la prima volta il mio giardino.1

 

 

Bibliografia

1 Ho trascorso nel corso di questo anno circa due mesi a New York presso l’Eric Remarque Institute, che ringrazio. Queste sono note che mi sono venute in punta di penna appena giunto in Italia.