Israele: quale pace nella terra dei miracoli?

Di Manuela Dviri Vitali Norsa Lunedì 02 Giugno 2003 02:00 Stampa

Io stessa, se sto via da Israele per più di una settimana, mi dimentico dell’intensità della vita qui, in questa terra magica che dicono santa, ma è di certo anche maledetta e disgraziata. No, non la rimuovo dalla mia coscienza. Dimentico soltanto la violenza delle sensazioni che questo paese provoca: amore, tanto amore, ma anche odio, rabbia, disperazione, apatia, violenza, paura e, in molti, fede, molta fede. Anche troppa. Che cos’ha di magnetico questa terra? Perché proprio qui?

 

Io stessa, se sto via da Israele per più di una settimana, mi dimentico dell’intensità della vita qui, in questa terra magica che dicono santa, ma è di certo anche maledetta e disgraziata. No, non la rimuovo dalla mia coscienza. Dimentico soltanto la violenza delle sensazioni che questo paese provoca: amore, tanto amore, ma anche odio, rabbia, disperazione, apatia, violenza, paura e, in molti, fede, molta fede. Anche troppa. Che cos’ha di magnetico questa terra? Perché proprio qui?

C’è una fotografia del giornale di ieri, che è emblematica della situazione di Israele in questi giorni: nella foto si vede Sharon ad Aqaba, capelli bianchi, fisico pesantissimo, quasi elefantesco, sguardo intimidito (Sharon? Intimidito? Non può essere...), certo imbarazzato, sorridente, di un mezzo sorrisetto di circostanza, la mano destra chiusa a pugno, la sinistra aperta al lato della gamba, lo sguardo che guarda davanti a sé e, dietro di lui, il giovane Bush, soddisfatto di se stesso, allegro, una bandierina americana all’occhiello, lo sguardo altrove, e non si capisce in realtà neanche dove guardi. Sembra sapere quello che fa, il texano: stringe le spalle del vecchio leone Sharon in una specie di strano abbraccio, e quasi lo spinge in avanti mormorandogli all’orecchio: «Dai che ce la fai... salta... forza, avanti, muoversi, senza paura...».

Quella foto così espressiva mi ricorda un aneddoto che si racconta in questi giorni. Pare che il presidente americano avesse detto di Abu Mazen e di Sharon «sono come le mandrie del Texas, bisogna farli muovere, muovere, muovere...». Eppure Sharon si capisce benissimo che fa una certa fatica a muoversi, con quel peso... forse non ce la fa... e Abu Mazen ha l’aria molto seria e gli occhi tristi. Non sembra un uomo forte. Si capisce subito che è preoccupato. Già sa cosa l’aspetta al suo ritorno a casa. Anche Sharon lo sa. Forse solo gli americani, i padroni di casa, non capiscono la situazione nella sua complessità.

Mentre sto scrivendo queste righe, ed è domenica mattina, l’8 giugno 2003, annunciano alle radio e alla tivù che hanno ucciso quattro israeliani nella striscia di Gaza. Oltre ai morti ci sono anche quattro feriti gravi. Non so se siano civili o militari. I palestinesi che li hanno uccisi avevano preparato tutto alla perfezione; si erano confusi tra gli operai che venivano questa mattina a lavorare in Israele, poi si erano nascosti in un magazzino fino all’attacco, travestiti da soldati israeliani. Dicono che tre organizzazioni terroristiche abbiano collaborato per compiere la carneficina (Jihad, Fatah, Hamas). E per la prima volta l’attentato non è solo contro gli israeliani, ma anche contro Abu Mazen e i palestinesi moderati, per la prima volta lo schiaffo e la rabbia accomunano il nuovo leader palestinese e quello israeliano.

Giovedì avevo intervistato un’amica di estrema destra. Ha più o meno la mia età ed è madre di giovani donne colone, anzi «mitnahalim», cioè «coloro che tornano al retaggio dei padri» nei territori palestinesi. Ognuna delle sue sei figlie ha, a sua volta, cinque o sei figli, uno dietro l’altro. Questione di ideologia. Bisogna popolare la terra degli avi... anche quella in territorio palestinese...

Era stata, questa mia amica, tra coloro che avevano protestato, il giorno prima, contro gli accordi di Aqaba a Gerusalemme.

Alla fine della nostra discussione, in cui, incredibilmente, io mi sono trovata a difendere Sharon, il padre degli insediamenti, l’autore e «l’eroe» della guerra del Libano, e lei ad attaccarlo, la mia amica si è lasciata scappare una frase che mi ha raggelato: «Tu parla finché vuoi, vedrai... tanto noi non dobbiamo fare nulla contro gli accordi... farà tutto Hamas...». Ecco, questo è il luogo in cui gli estremi, a volte, si avvicinano. Se non nei fatti (la mia amica non farebbe male a una mosca, me lo dice sempre), certo nel pensiero.

Un palestinese è stato ucciso poco fa dall’esercito israeliano. Israele risponde con il coprifuoco ai territori palestinesi.

I morti al check-point Erez di questa mattina sono tutti soldati ausiliari, di riserva, alcuni giovani padri di famiglia forse. Ancora non si sanno i nomi. E cominciano a girare le prime voci. Israele è un paese piccolissimo. Si fa presto a conoscersi l’uno con l’altro.

Anche quando è stato ucciso mio figlio c’era chi giurava che ci avevano visti a teatro e invece eravamo fuori a cena.

Questa sera si riunisce il partito Likud, il partito del governo. I commentatori politici prevedono che Ariel Sharon verrà ferocemente attaccato dal suo stesso partito per aver accettato pubblicamente la «road map», per essere andato ad Aqaba e per avere accettato persino di smantellare insediamenti illegali. Anche Hamas e la Jihad non accettano le posizioni di Abu Mazen, che ritengono scandalose. «Non bastano gli insediamenti illegali! E gli altri insediamenti? E Gerusalemme? E i profughi palestinesi?» protestano in coro.

Ci risiamo, dicevo. Siamo tornati alla solita diffidenza, all’intransigenza e all’odio. Siamo tornati al sangue.

Eppure non voglio, non posso, rinunciare a quel prudente ottimismo che avevo provato negli ultimi giorni, durante i vertici di Sharm e Aqaba. Non voglio e non posso. L’alternativa è troppo paurosa. Dio... che Bush sia abbastanza deciso a muovere le mandrie... che Sharon sia abbastanza abile e sicuro e convinto nell’andare avanti e Abu Mazen abbastanza forte per farcela... Cosa sta succedendo?.... Cosa succederà?… ... che non li uccidano..... Perché qui i capi di Stato, a volte, vengono anche assassinati... (Sadat in Egitto, Rabin in Israele). Non mi rimane che credere nei miracoli. Ma non è, questa, dopo tutto, la terra dei miracoli?

 

Racconto di Ottavia Piccolo, attrice e Claudio Rossoni, giornalista, tra i rarissimi turisti venuti in Israele nel 2003

«Ciò che ti lascia sbalordito, venendo in Israele, è la luce. Una luce fortissima. Una luce diversa. E poi scoprire quanto tutto è piccolo, quasi minuscolo, direi. Perché Israele, la Terra Santa, era come se la conoscessimo già, dalla nostra tradizione, ma anche dai quotidiani, dalla televisione, dai reportage e ce l’aspettavamo diversa. Il monte degli ulivi è non più di una collinetta, il golgota, la via crucis, il santo sepolcro, tutto così piccolo... e te li immagini, gli abitanti di questi luoghi, come tribù di beduini, come ancora se ne vedono nel sud di Israele».

«E poi ci immaginavamo militari e polizia ovunque. E invece no, di polizia se ne vede pochissima e i soldati... i soldati sono dei ragazzini, quasi dei bambini, un po’ trasandati... e con il mitra in spalla. Eravamo in Israele durante l’attentato al pub “Mike’s Place” sul lungomare di Tel Aviv. Anzi eravamo a cena proprio sul lungomare, in un bel ristorante dove avevamo mangiato dell’ottimo pesce e il giorno dopo ci siamo tornati per cercare di vedere, di capire... La nostra guida era un maggiore dell’esercito, un ragazzone che è maggiore come riservista, ma nella vita quotidiana, fa, appunto, la guida turistica (e anche questo fa impressione, tutti in Israele sono soldati, anche se non tutti portano la divisa; come del resto anche ogni collina e rilievo hanno un significato, non sono solo particolari di un paesaggio come in qualsiasi altro luogo, ma al contrario, rappresentano e ricordano storie di conquiste e riconquiste, battaglie, vittorie e sconfitte)».

«Al “Mike’s Place” i morti erano il ragazzino che suonava la chitarra, la sua amica che lo accompagnava... Che orrore quella normalità apparente della loro vita, stroncata così. In modo così violento, folle, improvviso. No, non c’è niente e nulla al mondo che dia il permesso di uccidere in modo così raccapricciante, guardando praticamente la vittima in faccia».

«Abbiamo anche visto un cimitero militare (il cimitero in cui è seppellito mio figlio Joni n.d.r.), ed è impressionante leggere le lapidi e capire a che età sono morti: 18, 19, 20, 21 anni. Inimmaginabile per noi. Ti lascia sconvolto. Eppure altrettanto inimmaginabile è la “ritorsione del giorno dopo” da parte israeliana. Per chi, come noi, è contro la pena di morte, è impensabile e altrettanto pazzesca questa furia di risposta che colpisce dove capita, e molto spesso colpisce proprio gli innocenti. Ma anche e persino i colpevoli non vanno giustiziati».

 

Silvano Piccardi, regista. Un altro raro turista in Israele (Forse è il momento di spiegare: in collaborazione con Piccardi e da una sua idea ho scritto una pièce teatrale, «Terra di latte e miele», che andrà in scena per l’interpretazione di Ottavia Piccolo. Quindi i miei amici di teatro non sono stati qui solo come turisti e amici... sono anche venuti per cercare di vedere e capire...).

«Israele è un paese d’immagine assolutamente “occidentale” collocato in un paesaggio che non lo è di certo. E non mi riferisco tanto e solo ai gruppi di ortodossi che colpiscono l’occhio curioso del turista, per il loro abbigliamento nero, pesante, con feltri e/o colbacchi sul capo, come fossero ancora in Polonia – trovandosi però sotto un sole da quaranta all’ombra. Mi riferisco al sistema di vita, di organizzazione dei servizi, dell’urbanistica ecc., che ne fanno un paese che potrebbe benissimo trovarsi negli Stati Uniti o nel cuore dell’Europa. Anche per il livello di ricchezza e di benessere è occidentale. La crisi economica, da turista, non la avverti assolutamente. Ti colpisce, invece, la campagna in particolare: nemmeno in Emilia (una delle regioni agricole più ricche ed efficienti del mondo) ho mai avuto, al primo colpo d’occhio, la sensazione di efficienza e di sviluppo tecnologico che ho avuto qui. Anche perché, in Israele, tutto è estremamente giovane, di recente costruzione.»

«E poi i dimostranti contro l’occupazione. Mi hanno colpito moltissimo. Quelli che ho conosciuto erano contadini di un kibbutz, avevano l’aria di bravi lavoratori e anche se era chiaro che la loro protesta contro i coloni serviva a ben poco, non hanno mai smesso, sempre lì, tutti i venerdì, di farla, per anni…»

«A differenza di quanto accade nei paesi occidentali, non ho avuto la sensazione che sia il “dio denaro” la motivazione dominante del paese. Forse non lo è più nemmeno il modello neo collettivistico dei kibbutz – che, per quanto mi è parso da quelli che ho avuto modo di visitare al confine nord della Striscia di Gaza, mi sembra che patiscano molto l’economia “di guerra” e la presenza destabilizzante dei coloni nei territori. Sicuramente la parola “dio”, qui, ricorre molto, anche in termini “di costume”. Ma, nonostante tutto, non mi pare sia nemmeno il misticismo l’elemento davvero caratterizzante. È come se ognuno, delle tante diverse nature e culture umane che qui convivono, si fosse ritagliato uno spazio proprio sotto un mantello che avvolge tutti in una comune tensione alla “difesa”, da paese di confine. Il confine dell’occidente, appunto. Qualcosa di simile alla giovane America dei coloni, della corsa all’ovest, con genti e sette le più diverse (là a prevalenza cristiana, qui, ovviamente, ebrea) e dalle più diverse provenienze, unificate dal bisogno di affermarsi su un territorio difficile, per di più infestato dai «selvaggi». Con la «piccola» differenza che il popolo ebraico ha alle spalle un storia antichissima, e un’antichissima aspirazione al «ritorno» in questa terra».

«Ciò che mi ha più colpito, però, è l’apparente indifferenza a quanto accade al di là del “muro” (se, e quando, c’è), insomma nei territori, se non per una presenza fittissima (ma davvero necessaria?) di soldati (ragazzi e ragazze), ma anche di civili, che girano vistosamente armati. Dall’Italia, si è portati a immaginare un paese quasi in stato d’assedio. La realtà mi è parsa assolutamente diversa, se non addirittura rovesciata. Qui, sembra quasi che la guerra la si avverta sostanzialmente come «attentati», che incidono a livello sottocutaneo nella vita di tutti i giorni. Qualcosa di più forte, ma abbastanza simile a quello che succedeva in Italia ai tempi del terrorismo «nero» e delle Brigate rosse. La guerra sembra altrove, qui se ne avvertono solo i contraccolpi (non solo gli attentati, ma anche le difficoltà economiche – che però, all’occhio del turista, risultano non particolarmente evidenti). Ecco, questo non me lo sarei aspettato».

Durante questo fine settimana i giornali israeliani hanno parlato moltissimo, nell’anniversario della guerra dei sei giorni (36 anni il 5 giugno), della piccola e della grande Israele, del prima e del dopo, di Israele di prima dell’Intifada e del dopo Intifada. E sono due paesi diversi, diversissimi, quelli del prima e dopo Intifada, eppure sono passati appena due anni e mezzo. Anche i territori palestinesi sono cambiati. Moltissimo. Il popolare commentatore economico di «Yedioth Aharonot» sostiene che 32 mesi di lotta armata sono costati, e non solo in vite umane, feriti, invalidi e tragedie umane. La seconda Intifada, quella attuale, è scoppiata quando Israele e i palestinesi vivevano un periodo di relativa prosperità. Dal 2000 in poi, invece, tutto è cambiato: 120.000 palestinesi hanno perso il loro posto di lavoro in Israele. La disoccupazione nei territori è salita fino al 35%. Il 60% degli abitanti della West Bank (e il 75% a Gaza) vive con un’entrata inferiore a 2 dollari al giorno. E in Israele? Israele ha perso in questi quasi tre anni circa 23 miliardi di dollari. E questo non è nulla... Se il conflitto continuerà le perdite saranno molto maggiori e arriveranno fino alla fine del decennio da un minimo di 65 miliardi a un massimo di 130 miliardi di dollari. Già ora siamo a un tasso di disoccupazione mai visto prima, dell’11%. Già ora i tagli economici si fanno sentire ovunque. Se non per altre ragioni, a un accordo si dovrà arrivare proprio per questo.

 

Yossi Beilin, ex parlamentare laburista, ex ministro della giustizia, amico e compagno di lotta durante la campagna per il ritiro dell’esercito israeliano dal Libano

«Secondo la road map, la pace dovrebbe arrivare nel 2005. La road map la si può definire come una «strada a pagamento» e io mi chiedo se questo governo, che proprio l’Intifada ha portato al potere, sia in grado di pagare il prezzo della pace definitiva. Anche da parte palestinese il governo è debole e bisogna vedere se riuscirà a resistere all’opposizione. Abu Mazen non vuole arrivare alla guerra civile all’interno del suo paese».

«Sospetto, inoltre che Sharon non vorrà mai arrivare alla terza parte della “road map” quella dell’accordo definitivo del 2005. I suoi elettori certo stanno cominciando ora a chiedersi in che cosa hanno creduto durante questi ultimi 36 anni dalla fine della guerra dei sei giorni e da questi 32 mesi dall’inizio dell’Intifada. Penso che per loro sia la fine di una ideologia, forse si sentono un po’ stupidi... Se la destra veramente ha capito il suo errore storico cos’ha da offrire in cambio? Gran parte degli insediamenti è stata creata dalla destra (più di 150), e in particolare da Sharon, non perché fosse naturale farlo, non perché la zona fosse fertile, avesse pozzi di acqua o sorgenti, ma per creare in futuro un fait accompli, cioè confini diversi. E i coloni, i “mitnahalim”, non sono, nella loro maggior parte, contadini che lavorano la terra col sudore della fronte, come quelli americani dei film dei pellerossa. I “mitnahalim” vanno in città a lavorare e tornano a casa solo la sera e vengono difesi, intorno ai reticolati che chiudono parte degli insediamenti, da soldati israeliani. Insomma, il peso della loro ideologia cade sull’intero paese, costa all’intero paese».

«Chi sono i “mitnahalim”? Sono circa 350.000. Circa 200.000 vivono nella striscia di Gaza e nella West Bank, 150.000 intorno a Gerusalemme.Per un buon 20% sono “ideologici”. E la loro ideologia è un’ideologia religiosa e messianica che vede nel ritorno alla terra degli avi lo scopo dei loro insediamenti. Gli “ideologici” sono i più pericolosi ed è possibile che al tentativo di smantellamento si oppongano con la forza. Dopo tutto, sono armati. Armati fino ai denti. Ma anche tra loro i “violenti” sono una minoranza. Il resto sono, almeno un 60%, coloni per comodità. Perché lì la casa costa meno e possono persino realizzare il sogno israeliano borghese della villetta con giardino. Tutto qui. E quindi spero non sarà un grande problema riportarli a vivere in Israele. Anche il problema dei profughi palestinesi è risolvibile (ci eravamo quasi arrivati durante i colloqui di Taba).Tutto, in realtà, è risolvibile, non perché sia facile, anzi, ma perché non abbiamo scelta».

«Se sono ottimista? Nel mio pessimismo, sono ottimista. Però sono certo che senza la pressione degli Stati Uniti e, perché no?, dell’Europa, non si andrà avanti. Da soli non ce la faremo. Ci vuole il texano con la frusta».

È sera. I nomi dei morti di oggi sono ormai conosciuti. Un altro morto, israeliano, a Hebron. Una forte nausea mi sale nella gola, la paura mi attanaglia lo stomaco. L’idea che il futuro possa essere identico a questo presente, che sia sempre così, o simile al passato di questi tre anni mi terrorizza. Mi terrorizza l’idea che parte di questo popolo, una grande parte, sia stata drogata da certi slogan vuoti inventati dallo stesso Sharon e dai suoi compagni, slogan assimilati poi dalla diaspora ebraica e diffusi come se fossero la verità unica assoluta e indiscutibile, mescolandoci la Shoà per non permettere a nessuno di criticarli (eppure è solo un normale conflitto territoriale, uno come tanti, tra due popoli semiti e molto più simili l’uno all’altro di quanto si possa credere)... Sharon stesso dovrà iniziare la cura di astinenza questa sera, alla convention del partito Likud.

La diaspora, del resto, merita un capitolo a parte. «Quando ho bisogno di tirarmi un po’ su, guardo le notizie su Israele sul “New York index”» dichiara Elie Wiesel in «Against silence». Non credo che gli succeda molto ultimamente... Gli ebrei hanno imparato a prendere le distanze o ad avvicinarsi a Israele secondo il loro vantaggio oppure a farlo rimanere per sempre ai loro occhi una specie di Sparta, di cui vantarsi. Ma senza viverci. Noam Chomsky suggerisce che certi sostenitori della politica d’Israele a priori dovrebbero essere più propriamente chiamati «sostenitori della degenerazione morale e della distruzione definitiva di Israele».

È dunque possibile la distruzione di Israele? Penso proprio di sì. Il futuro, se esiste, dipende dalla possibilità di un accordo. Se l’accordo non ci sarà, se non si dividerà questa terra, sarà la fine di questo paese, e succederà molto prima di quanto si possa credere. Dal punto di vista demografico siamo vicini a una maggioranza araba. Non era questo il paese che sognavano per noi i nostri padri. Siamo come un treno in cui è stato tirato il freno d’emergenza... Ce la farà a fermarsi? Dopo tutto, si diceva, questo è anche il paese dei miracoli...

Lunedì, 9 giugno. L’esercito israeliano ha raso al suolo a Hebron la casa da cui un palestinese ha ucciso un soldato israeliano, ieri sera. Sharon è stato fischiato ieri alla convention del Likud durante il suo discorso, ma ha continuato a parlare imperterrito, come niente fosse. Buon segno. Il vecchio leone regge bene. L’esercito dichiara che inizierà a smantellare i primi insediamenti, quelli illegali. Buona parte sono vuoti. Abu Mazen cerca di avvicinare i gruppi di Hamas e Jihad. Abu Mazen e Sharon incontreranno Berlusconi, in visita ufficiale. Salta l’incontro Berlusconi-Abu Mazen. Le ruspe israeliane cominciano a smantellare i primi avamposti selvaggi. A Tel Aviv muore Meir Vilner, l’ultimo comunista. Era l’unico sopravvissuto tra i firmatari della carta d’indipendenza d’Israele, nel 1948.