Comunità, coscienza di classe, coscienza di luogo. Parole chiave per l'agenda politica

Di Aldo Bonomi Giovedì 26 Giugno 2008 19:08 Stampa
La Lega Nord sin dalla sua prima fase ha cavalcato l’intuizione della “coscienza di luogo”. Nel corso degli
anni non si è limitata a riflettere il malessere sociale e le difficoltà del competere del Nord, ma da una parte ne ha alimentato le paure, dall’altra si è elevata a difesa dei valori comunitari. In questo contesto la Lega ha sviluppato una sintonia continua con gli umori e con i bisogni del territorio di insediamento, incarnando un “sindacalismo di territorio” che seleziona i temi dell’agenda politica trasformando interessi locali in passione politica.

Il percorso che in questi anni mi ha portato a compiere qualche riflessione sulla nascita e sullo sviluppo del fenomeno leghista non ha mai preso le mosse dallo specifico obiettivo di delinearne la parabola politica. È stato semmai il prodotto a latere, una sorta di esternalità, di un lavoro di territorio che, preso atto della crisi del fordismo e delle grandi narrazioni novecentesche, si interrogava sul divenire delle forme del competere e della coesione sociale, anche alla luce del depotenziamento di alcune prerogative dello Stato centrale. In particolare, il lavoro di ricercaazione compiuto nelle aree del Nord consegnava, come ho già cercato di descrivere nel libro “Il rancore”,1 alcune figure emblematiche del mutamento epocale che toccava la parte del paese più esposta ai processi di modernizzazione indotti dall’apertura internazionale dell’economia. “Stressati della competizione”, “naufraghi del fordismo” e “spaesati della comunità originaria” non erano altro che il prodotto antropologico dell’apocalisse culturale che aveva investito, più di altre parti del paese, il Nord a partire da metà degli anni Ottanta. Questa fenomenologia metteva in evidenza, per chi ovviamente aveva gli occhiali per leggerla o la volontà di volgervi lo sguardo, l’emergere di una “questione settentrionale” che, sin dalla sua prima fase, aveva trovato in un imprenditore politico come la Lega un soggetto capace di quotare al mercato della politica quegli elementi pre-politici (stress, spaesamento e rassegnazione) a partire dal nocciolo duro della “coscienza di luogo”, unico elemento identitario che in qualche modo era sopravvissuto alla turbolenze dei primi anni Novanta, mettendo in crisi la categoria della coscienza di classe. Turbolenze che non rimandavano esclusivamente ai mutamenti che cominciavano a interessare la sfera economica e sociale, ma anche quella politica con la stagione di Tangentopoli, che nella sua carica antipolitica ben “si accoppiava” all’emergenza leghista.

Come tutti gli imprenditori politici, la Lega non si limitava a riflettere nella sfera della rappresentanza politica il malessere sociale e le difficoltà del competere del Nord, ma da una parte ne alimentava le paure, dall’altra si ergeva a difesa di quei valori comunitari, che appunto attengono al pre-politico, che avevano sin lì assicurato coesione sociale e benessere economico, o almeno i loro simulacri. Due elementi che, come noto, nel nostro modello di capitalismo di territorio, fatto di economie territorializzate, sono fortemente intrecciati. Quell’insistere radicale sulla difesa delle prerogative del “luogo”, anche con accenti da invenzione della tradizione, fu largamente sottovalutato e derubricato a folclore bruno-alpino dal complesso delle forze politiche dell’epoca, in particolare della sinistra. Questa precisazione è importante, non tanto e non solo per richiamare ancora una volta alle responsabilità politiche della sinistra, ma piuttosto per giustificare quella che ritengo tenda oggi, dopo vent’anni di lavoro politico fondamentalmente indisturbato, a diventare egemonia culturale e poi politica. Ciò che infatti la Lega, più di altri, anche del successivo berlusconismo che presenta altri elementi di discontinuità nel modo di fare politica tradizionale, riesce a compiere è quella sintonizzazione continua con gli umori e con i bisogni del territorio di insediamento, che scaturisce dall’osmosi tra mutamento della composizione sociale e rappresentanza politica e che ne decreta il radicamento. Tutte cose per altro note sia alla DC che al PCI del Novecento. La novità della Lega stava e sta nella capacità di cavalcare, sin qui con una certa perspicacia, un’intuizione iniziale, quella della coscienza di luogo, che non sarebbe tuttavia bastata ad assicurare una rendita politica di lungo periodo senza quella sensibilità che deriva dalla capacità di trasformare in passione politica quelle che io chiamo le piccole e fredde passioni economiche. Questa trasformazione matura al sole della globalizzazione e al dispiegarsi del paradigma flussi-luoghi, che, piuttosto bruscamente, isterilisce le potenzialità insite nel conflitto capitale-lavoro.

A partire dagli anni Novanta, infatti, i processi di apertura dell’economia delineano uno scenario in cui il territorio diventa teatro del conflitto tra i flussi (di merci, informazioni, persone) di natura globale e i luoghi che si strutturano in piattaforme produttive. Simultaneità dei flussi versus lunga durata dei luoghi diventa una partita che ha, nelle economie regionali di “serie A”, il terreno di confronto emblematico, mentre le economie regionali di “serie B” arrancano per conquistare visibilità dentro questa dinamica, pena l’esclusione dai processi di modernizzazione. Fuor di metafora, il paradigma flussi- luoghi si dispiega prima nel Nord del paese, delineando con ciò la “questione settentrionale” come problema di competizione della parte più aperta al confronto con l’economia globale, poi come problema complessivo di modernizzazione del sistema paese, di cui il Nord è necessariamente avanguardia.

In questo contesto la Lega occupa, senza per altro grande competizione se non con la mediazione alta del formigonismo e convivendo con alti e bassi con Berlusconi, uno degli spazi di azione politica che si apre nel nuovo paradigma della modernità contemporanea, sino ad arrivare all’ultima alleanza elettorale che assume tratti “bavaresi”. Questo spazio di azione politica affonda sì le sue radici nello spaesamento, nello stress e nelle paure operaie, ma successivamente diventa qualcos’altro.

O meglio, accoppia a questo elemento identitario di difesa quello della modernizzazione di sistema, nel più puro solco della tradizione sindacale di difesa e progresso, non più della classe lavoratrice del conflitto novecentesco, ma degli abitanti di un ben determinato territorio nel loro rapporto con i flussi della globalizzazione, da quali ci si deve difendere (gli stranieri) e con i quali occorre connettersi (Malpensa, il disegno delle utilities del Nord, la gestione delle infrastrutture) attraverso il federalismo, avendo come riferimento sociale prima il capitalismo molecolare (quello a cui si rivolse a Vicenza anche Berlusconi scompigliando l’assemblea di Confindustria) delle migliaia di piccole e micro imprese e poi, ultimamente, anche i ceti operai orfani di una rappresentanza efficace. La Lega incarna quindi quel “sindacalismo di territorio” che seleziona i temi dell’agenda politica trasformando interessi territoriali in passione politica.

Ecco così delinearsi il posizionamento attuale, e credo in prospettiva, della Lega, al netto delle vicende di governo nazionale, che pure mantengono un loro peso potenziale.

Vista dal territorio, la Lega gioca la propria scommessa politica su due fronti strategici per il futuro del Nord, ma anche del paese nel suo insieme. Da una parte, la questione del fare società, rispetto alla quale la Lega agisce su quell’ampio spettro di paure della modernità attraverso continue perimetrazioni delle identità. Dall’altra, la questione del capitalismo delle reti, cioè di quell’insieme di beni competitivi territoriali strutturati a rete che connettono i territori ai flussi: infrastrutture fisiche, utilities, banche, università, fiere, aeroporti ecc. Dopodiché, le priorità sulla scelta di quali reti promuovere politicamente diventa fatto di congiuntura e di vicinanza con la propria base di rappresentanza. La Lega è comunque riuscita a trasformare in passione politica anche la domanda di modernizzazione delle reti, così come è avvenuto alle ultime elezioni con la questione Malpensa-Alitalia. Ciò che ci ha consegnato quest’ultima coda di turno elettorale è quindi la definitiva scavallatura postideologica oltre le grandi narrazioni novecentesche.

Di questo cambiamento è stato precursore Silvio Berlusconi, primo presidente della moltitudine, come potere del chiunque che dà identità al molteplice. Sono appunto astuzie da comunicatore consumato, così come lo sono quelle di Bossi quando agita lo spauracchio dei trecentomila spartano- padani armati di fucili. È il primato della società dello spettacolo, confermato dal fenomeno Grillo, anche lui consumato comunicatore, che scrolla l’albero del malcontento per fare cadere le nespole nella cesta elettorale di chi ha saputo andare oltre il paradigma novecentesco capitale- lavoro e porsi come credibile sindacalista del territorio. Territorio che esprime sia nelle metropoli (Milano e Roma), sia nelle tante pedemontane del Centro-Nord, domande di protezione e modernizzazione, “La paura e la speranza” di Tremonti.2 Un libro molto ideologico che spiazza, ancora una volta, un PD pressato dalla necessità di liquidare in tempi brevi le ideologie novecentesche per trovarsi in un paesaggio post ideologico ancora privo di riferimenti precisi.

A mio modesto avviso, il posizionamento post ideologico del PD dovrebbe confrontarsi con almeno tre ideologie, o protoideologie, che vengono avanti nella globalizzazione. La prima è tutta intorno al mercato. Si presuppone che il capitalismo globalizzato sia un sistema dotato della capacità di autoregolarsi, con una visione che sposta il potenziale conflitto tra shareholders e stakeholders territoriali all’interno dell’impresa. Al centro, la figura dell’utente- cliente come dominus del mercato, attore autonomo dall’impresa capace di vincolarne l’azione minacciando strategie di uscita individuale. È una visione che ha radici profonde soprattutto nelle società anglosassoni, dove ha assunto anche una veste giuridica attraverso le cosiddette class action di consumatori che, in quanto tali, divengono titolari di diritti. Sul lato opposto rispetto all’ottimismo di mercato c’è il pessimismo della “pedagogia della catastrofe” e della “decrescita dolce” di Serge Latouche, che propone un taglio netto con l’idea stessa dello sviluppo. In relazione a queste due ideologie il centrodestra ha elaborato una posizione; basti ricordare, appunto, quanto scritto da Tremonti, novello Robin Hood delle paure. La sinistra pare invece ondivaga tra queste due polarità, a volte ergendosi a paladino delle liberalizzazioni e della class action, a volte essendo affascinata dalle tesi del catastrofismo ambientale.

Vi è però una terza ideologia, o protoideologia, che è appunto quella che pone al centro la dialettica tra flussi e luoghi. Come detto, la globalizzazione ha cambiato le coordinate di fondo del sistema. È in questa sfera dell’azione sociale, in cui un’economia dei flussi finanziari, delle imprese transnazionali, delle grandi reti, dei flussi migratori, si confronta con la coscienza di luogo più che di classe, che può ricollocarsi una visione e una pratica politica moderna. Ciò non significa evidentemente scimmiottare la destra, o la Lega, dato che, specie quest’ultima, avrà sempre la necessità di alimentare il localismo nei confronti dei flussi.

Occorre quindi insinuarsi in questa contraddizione, che non è solo interna alla destra politica, ma che è soprattutto evidente sul territorio, dove alla paura dei flussi (anche quelli dei migranti) occorre rispondere puntualmente sul territorio, accompagnando i soggetti a elaborare politicamente in modo diverso le paure della modernità, con un’idea della speranza che non stia nell’identità (europea, cristiana ecc.), ma piuttosto nella relazione. L’elemento ideologico che dovrebbe quindi differenziare la concezione del territorio della Lega, pur quando nobilitata da Tremonti, è che in questa prevale l’idea di territorio come luogo dell’identità, mentre per la sinistra dovrebbe rappresentare il luogo della relazione, un po’ come accadeva un tempo nella fabbrica fordista. Quando il territorio è identità, allora anche il riferimento alla comunità si rifà a forme originarie e “naturali” che “perimetrano” contro il diverso e che rischiano di diventare comunità maledette, mentre il territorio come relazione presume la costruzione di una comunità artificiale (quella che io chiamo “geocomunità”), ovvero di una comunità fatta di attori che perseguono la relazione tra luoghi e flussi, tra lunghe derive territoriali e modernità, una geocomunità che persegue il semplice ma impegnativo solco tracciato da Cacciari quando dice che «la politica è innanzitutto far capire al tuo prossimo che non è solo».

Non credo che tutto ciò possa essere considerato semplice buonismo astratto, ma piuttosto invita a scegliere se assumere il territorio come variabile strategica e luogo di pratica politica o se lasciare al simbolismo leghista (lo straniero come simbolo di insicurezza, Malpensa come simbolo del Nord irretito nella sua voglia di modernizzazione) il monopolio della rappresentazione sul piano politico. A proposito di capitalismo delle reti, non vorrei indurre il pensiero per cui sia sufficiente controllare le reti, conquistare poltrone nelle utilities, allearsi con i padroni dei flussi, per pensare che la competizione con il sindacalismo di territorio sia vinta. Nel rapporto con il territorio i padroni dei flussi non stanno poi molto meglio della maggioranza dei partiti politici, un’alleanza tutta di vertice tra due soggetti che faticano a essere credibili non appare sufficiente per affrontare l’egemonia culturale richiamata in precedenza. Inoltre, organizzare un partito radicato non è evidentemente la stessa cosa del radicamento di un big player delle reti. Ovvero, non si tratta semplicemente di allearsi con i modernizzatori di sistema, ma lavorare per costruire artificialmente quegli ambiti nei quali si alimentano appartenenza e delega attraverso la costruzione di nuovi spazi pubblici che ragionino di cosa debba essere il PD in rapporto alle trasformazioni in atto. Se, torno a dire, un nuovo partito intende assumere fino in fondo il tema del territorio allora dovrebbe organizzarsi di conseguenza secondo la geometria territoriale delle piattaforme produttive.

Così, in Lombardia occorrerebbe prendere atto che esistono almeno quattro piattaforme produttive che condividono problematiche di modernizzazione simili a partire da matrici identitarie simili: Arco alpino, Pedemontana lombarda, Milano-città regione e Bassa padana, che presumono una qualche formula organizzativa che ricalchi queste suddivisioni. Il milione di abitanti della piattaforma alpina, con le sue circa 30.000 imprese artigiane e i relativi 327.000 addetti (ma anche con il suo altissimo tasso di suicidi), si trova oggi ad affrontare rilevanti problemi di modernizzazione che attengono, ad esempio, al crescente sviluppo del turismo, alla gestione delle risorse idriche, alle infrastrutture per la mobilità transfrontaliera. I 3,7 milioni di abitanti della Pedemontana lombarda, con i suoi 1,4 milioni di addetti e oltre 300.000 imprese artigiane, esprimono oggi, da Brescia a Varese, domande di accompagnamento alla competizione internazionale che rimandano all’efficienza del sistema universitario, di quello delle fiere, delle utilities e delle infrastrutture. Altri 3 milioni di abitanti si assiepano dentro e fuori le mura della città metropolitana di Milano, vera porta regionale dei flussi globali, oggi scomposta in una composizione sociale fatta di cinque cerchi: la post borghesia dei flussi, il ceto medio in trasformazione, la vita nuda schiacciata sui bisogni primari, la nuda vita della creatività al lavoro, general intellect essenziale per la commutazione dei nuovi linguaggi, la media impresa leader a capo di filiere produttive di eccellenza.

Tutti segmenti sociali che rischiano di percorre traiettorie non comunicanti e che non possono essere riunificate esclusivamente sotto l’ombrello dell’Expo, ma che necessitano di trame sociali più fitte. Infine gli 1,8 milioni di abitanti della Bassa padana, che si estende da Pavia a Mantova con i suoi oltre 700.000 addetti impiegati in un sistema agroalimentare di rilievo e in transizione dopo le riforme della Politica agricola comunitaria (PAC), che si interroga sulla propria identità di area di cerniera logistica tra i tre polmoni produttivi del paese: Pedemontana lombarda, Pedemontana veneta e Via Emilia, e sulla propria vocazione ai grandi eventi come il Festival della letteratura di Mantova.

Questa brevissima geografia per delineare l’utilità di avere un’organizzazione di circoli territoriali che nella dimensione orizzontale parli lo stesso linguaggio tra Varese e Brescia, tra Pavia e Lodi, o tra Luino e Sondrio. Questa stessa geografia pone poi in rilievo grandi temi (energia, infrastrutture, saperi delle università ecc.) che necessitano di essere riportati a una dimensione verticale nella quale vengono socializzate problematiche e strategie a partire da un personale politico selezionato territorialmente, sulla base di una pratica territoriale che ne denoti il radicamento.

Mi rendo conto che organizzare un partito per piattaforme possa rappresentare un azzardo, ma ritengo che questo sia il modo migliore non solo per scavare nelle contraddizioni della Lega, ma per dare una prospettiva di lungo periodo al PD nel Nord. Quando, insomma, il PD avrà la forza di promuovere una conferenza regionale sull’immigrazione e sulle forme di convivenza nella società che viene? Quando sarà in grado di promuovere un forum regionale sull’ambiente nell’area a massima concentrazione urbana del paese? Quando sarà in grado di promuovere un’ampia riflessione sulla famiglia e i disagi entro le mura domestiche? E quando sarà in grado di accompagnare le comunità di paese attraversate da una grande infrastruttura autostradale?

[1] A. Bonomi, Il rancore: alle radici del malessere del Nord, Feltrinelli, Milano 2008. Secondo il Devoto Oli con il termine “rancore” si identifica un sentimento che si manifesta nelle persone quando pensano di avere subito un torto o non riconosciuto un merito.

[2] G. Tremonti, La paura e la speranza. Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla, Mondadori, Milano 2008.