Il vuoto a sinistra

Di Rossana Rossanda Giovedì 26 Giugno 2008 19:07 Stampa
La mancata elezione di esponenti della Sinistra Arcobaleno e la conseguente scomparsa dal Parlamento
delle forze che si richiamavano al PCI e alla tradizione socialdemocratica rappresenta una pericolosa
cesura nella storia della Repubblica e, alla luce della contestuale affermazione delle forze di
estrema destra, testimonia della singolarità del caso italiano rispetto al quadro politico delle altre democrazie europee.

La scomparsa dal Parlamento di Rifondazione Comunista, dei Verdi, del PdCI e della sinistra DS segna una cesura nella storia della Repubblica. Dal 1945 non era mai avvenuto che il Partito comunista, gli spezzoni che ne rimanevano o altre voci della cosiddetta sinistra radicale non vi fossero rappresentati. E che nemmeno dei socialisti restasse una traccia. La cancellazione della Sinistra Arcobaleno è stata facilitata dallo sbarramento che la legge elettorale imponeva: l’8% su scala nazionale, soglia che non pretende nessun altro sistema. Tuttavia, le prime tre sigle avevano raccolto da sole nel 2004 oltre il 13% degli elettori. E nel 2006, pur con la stesse legge del 2008, esse e Sinistra Democratica avevano superato la soglia. È quindi negli ultimi due anni che, con la partecipazione al governo Prodi, hanno perduto circa 2.400.000 elettori. Il fatto che quel governo non abbia cambiato subito il dispositivo e che le sigle che ne erano maggiormente minacciate non siano riuscite ad accordarsi, indica quanto il problema fosse sottovalutato. Mentre, caduto il governo, il blocco berlusconiano e il Partito Democratico hanno giocato la loro carta più grossa: era il momento di liquidare i partiti minori, puntando sul sistema bipartitico americano. Per il PD si trattava di cancellare le sinistre “estremiste”, per Berlusconi l’indisciplinata UdC. L’UdC non è poi scomparsa, ma il PdL è riuscito ad avere la maggioranza grazie alla Lega Nord, diventata primo partito in diverse città settentrionali; mentre è sparita la Sinistra Arcobaleno, e il PD non ha raccolto più voti di quelli che avevano ottenuto nel 2006, separati, DS e Margherita, e dovrà tener conto di quelli ottenuto dall’Italia dei Valori.

Sul momento non c’è stato osservatore politico che non si sia preoccupato che dalle Camere italiane sparisse la voce delle sinistre radicali e degli ambientalisti. Ma la preoccupazione non è durata più di quarantotto ore, dopo le quali tutti hanno applaudito alla «semplificazione» del sistema rappresentativo così velocemente ottenuta. Ne veniva cancellato ogni residuo di quello che era stato il Partito comunista più forte in Occidente – tanto forte da far temere, più che un’improbabile invasione sovietica, che il paese an- dasse a una costituzione materiale molto avanzata; almeno fino al 1973 quando, dopo il colpo di Stato cileno, Berlinguer tentò il compromesso storico. Si era negli anni Settanta, cioè l’altro ieri.

Da allora ad oggi il PCI, poi DS, ha effettuato due svolte: quella successiva alla caduta del Muro di Berlino, che parve per breve tempo condurlo verso una socialdemocrazia classica; e la seconda svolta l’anno scorso, con la fusione dei DS e della Margherita nell’attuale PD, che taglia ogni ormeggio con la tradizione del movimento operaio, socialdemocrazie “moderne” incluse, e separa la Repubblica non solo dalle sue origini, ma dal resto dell’Europa occidentale, giacché Spagna, Francia, Gran Bretagna e Germania (dove si sta affacciando una sinistra radicale con Die Linke) hanno conservato, al governo o all’opposizione, una forte socialdemocrazia. Più o meno marxista, perlopiù non marxista affatto, mai rivoluzionaria, il suo senso sta nel riconoscimento dell’asimmetria nei rapporti fra proprietari e non proprietari, capitale e lavoro dipendente: soltanto l’Italia l’ha cancellata. Non è la sola nostra singolarità. Siamo l’unica democrazia occidentale che ha legittimato tutta l’estrema destra. In Gran Bretagna non c’è traccia di residui fascisti, che erano del resto sempre stati poco consistenti, mentre in Spagna gli ex franchisti non compaiono nella destra di Aznar. La Germania ha sempre escluso la NPD, come la Francia ha fatto con Le Pen. Fin dal 1994, invece, in Italia e con le felicitazioni dei padri della Repubblica, sono stati “sdoganati” i fascisti dichiarati del Movimento Sociale Italiano, senza che da essi venisse una riflessione severa sul proprio passato, eccettuata la condanna dell’antisemitismo. La specificità italiana si sviluppa in due direzioni.

Chi è vicino ad Italianieuropei è troppo giovane per ricordare un detto del PCI secondo il quale soltanto l’esistenza di una forte presenza di sinistra avrebbe impedito una risorgenza fascista nel paese. Pareva anche a me una forzatura, essendo i veleni degli anni Trenta usciti di scena per sempre. Invece, c’è nell’Europa non anglosassone una radice di estrema destra non spenta, che ha alle spalle una grande cultura, e che riemerge in tempi di crisi nella triade populista: paura, xenofobia, razzismo. Non si vede infatti alcuna differenza fra il considerare sotto-uomo un ebreo, un nero o uno zingaro, che noi consegnammo e i nazisti sterminarono assieme, né fra i pogrom della polizia e di certo popolaccio romano o delle giunte milanesi e romane contro magrebini e romeni e quelli che costellarono a lungo l’Europa contro gli ebrei: sempre di pogrom si tratta. Neppure oggi mi rifugerei nello slogan: comunisti fuori eguale fascisti dentro, ma il dilagare delle idee dell’estrema destra nell’opinione comune (riconciliazione con i fascismi, perdita di senso dell’antifascismo, orrori della Resistenza, virtù delle monocrazie, antipolitica, perdita di senso della Repubblica) è innegabile. Così come il venir meno del principio di separazione fra Stato e Chiesa, che era stato rispettato in piena supremazia dalla Democrazia Cristiana e da De Gasperi. All’inizio del Terzo millennio c’è una liquidità, per dirla alla moda di Baumann, dei confini segnati dalla Costituzione del 1948, che dà un temibile spessore alla sparizione della sinistra socialista e comunista dalle Camere.

Per pessima che fosse la legge elettorale, non è ad essa che si può attribuire la fine della rappresentanza parlamentare delle sinistre e dei verdi. Parlano i numeri: c’è stato un rifiuto massiccio di ogni lettura – e soprattutto speranza – classista, per mitigata che fosse, del malessere della nostra società. Ha agito un risentimento verso le sigle che la significavano e non avrebbero difeso i più deboli durante il governo Prodi. Esso è comprensibile, e segnala il limite di quel governo in tema di una redistribuzione elementare delle risorse in anni di stretta delle pensioni e dei salari e di crescente precariato, ma è impossibile non valutare l’immaturità del dispetto e l’indifferenza per quel che ne conseguiva: se la condizione delle classi subalterne deve restare la stessa, passino Berlusconi, Bossi, Alemanno. Ma l’indifferenza era condivisa dal Partito Democratico, giacché i segnali dell’impoverimento e della esasperazione erano visibili, e irragionevole la richiesta alle sole sinistre di farsene carico a costo di dissanguarsi. Lo stesso vale per la posizione della CGIL sul cosiddetto Protocollo del welfare – non stava alla maggior confederazione sindacale dare la priorità a quella che Romano Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa consideravano essenziale alla tenuta del governo, incalzandoli a un referendum assolutorio, ma allo stato di sofferenza dei suoi propri aderenti; sarebbe stato più lungimirante premere perché ad essa si fosse dato qualche lenimento, trattando in sede europea (né a Prodi né a Padoa-Schioppa mancava l’autorevolezza) i tempi del rientro nei parameri di Maastricht. Il governo infatti non sarebbe caduto (e da destra) perché né Dini né Mastella avrebbero azzardato una mossa che portava dritti alle elezioni a blocco riformista e di sinistra non sfaldato. Gli errori si sono accumulati, e fra essi va inclusa l’affermazione corrente nell’ex Sinistra Arcobaleno che dunque non si doveva partecipare al governo Prodi: se lo avesse sostenuto dall’esterno, esso sarebbe caduto alla prima misura che le sinistre non potevano votare senza ledersi, e se avessero rifiutato l’appoggio esterno, il governo Prodi non si sarebbe potuto fare e le imprecazioni contro RC e i suoi alleati sarebbero piovute come e più che nel 1998. Quando, sia detto fra parentesi, il gran rifiuto non portò loro più voti.

La tenuta di una coalizione attraversata da una effettiva divisione di in- teressi, nata per far fronte all’allora Casa delle Libertà, esigeva una responsabilità condivisa, un vero compromesso da tutte le parti. A meno di considerare che la divergenza, e spesso conflitto, di interessi fra proprietà dei mezzi di produzione e forza di lavoro (materiale o immateriale) non sia che una fola, una favola seminatrice di odio, che renderebbe ingovernabili società altrimenti armoniose. Questo è stato affermato dal PD e ha spinto al «noi correremo da soli» a costo di un esito sicuramente minoritario.

Lasciamo da parte l’additare a modello di società armoniosa gli Stati Uniti, attraversati da guerre senza esclusione di colpi non solo fra repubblicani e democratici, ma fra gli stessi democratici, e trascinati nella disastrosa “guerra infinita” nel Medio Oriente – finora 4.000 vite perdute e 3.000 miliardi di dollari, calcola Stiglitz nel suo ultimo lavoro – da un presidente che non ha più la fiducia né della gente né del Congresso, tanto da aver perduto, fuorché sul piano militare, quella che era stata un’egemonia indiscussa in Occidente. Lasciamo da parte non solo la diminuzione clamorosa nei paesi dell’OCSE della parte della ricchezza nazionale che va ai salari negli ultimi venti anni, ma anche la sempre più flebile crescita europea a mercato e moneta unificati – noi siamo fra gli ultimi, ma nessuno prospera – e il riaffiorare di inopinati protezionismi, dalla UE verso la Cina e da Sarkozy e Tremonti in difesa di aziende nazionali (Immanuel Wallerstein parla già di fine del ciclo liberista e ritorno all’interventismo degli Stati). Limitiamoci al Rapporto mondiale sullo sviluppo umano della relativa commissione ONU: a un complessivo aumento della ricchezza mondiale si è accompagnato un ampliarsi delle ineguaglianze mai verificatosi nei paesi sviluppati dal 1910. Persino divertente è il confronto dei dati riportati da Forbes per il 1998 e il 2008 circa la presenza dei miliardari (in dollari): ce n’erano duecento in quarantuno paesi dieci anni fa, sono ora 1.125 in sessantuno paesi (nuovi entrati sono la Russia, la Cina, l’India, il Kazakhstan, l’Egitto e la Nigeria, mentre crescite esponenziali si sono registrate in Gran Bretagna, Germania e Canada; l’Italia per una volta non è in coda, superando in numero di miliardari gli Emirati Arabi Uniti). E questo di fronte alla derelizione e al saccheggio delle risorse di intere zone del mondo, e al crescente divario fra i redditi da rendite, da profitti e da salari. Si può dire tutto, ma non che siamo a un comporsi delle contraddizioni nel nuovo ordine mondiale sperato dopo il 1989. L’aumento della finanziarizzazione dell’economia, cioè di denaro che produce denaro, il valzer delle spaccature e fusioni di proprietà con regolare dispersione di manodopera, la crescita delle incursioni predatorie nelle zone disastrate (l’ultima Naomi Klein), il dilagare dell’economia criminale e il velenoso penetrare dell’illegalità come sistema, infine quella che Marx chiamava anarchia – anarchia nel riprodursi, a unificazione capitalistica del mondo avvenuta, delle guerre commerciali che sembrano far tornare la storia indietro di un secolo e mezzo. Di questi fenomeni su scala italiana erano la voce le sigle riunite nella Sinistra Arcobaleno. Che ora nessuna di esse abbia un microfono in Parlamento non è un problema solo per esse, è un problema per la nostra democrazia. Ed è più grave del pericolo di alcune sbavature di ribellismo che in Italia non sono mai granché e che qualcuno ha temuto. L’attuale governo non esiterà a regolarle in termini di ordine pubblico (già il presidente del Consiglio vaneggia di uso dell’esercito contro quella terribile insorgenza che è la protesta per la discarica a Chiamano). Come dopo la repressione di Genova al G8, parte della società si ammala per l’incapacità di chi ci governa di leggere il sintomo. Ma più infettivo è il silenzio dei ceti impoveriti che pagano il prezzo delle deregulation e hanno pazientemente sperato, senza ribellismo alcuno, non in un governo socialista, ma in una redistribuzione più giusta. Queste voci erano portate dalla coalizione SA, anche all’interno del governo, dove non c’è stata traccia di massimalismo ed estremismo nella richiesta di qualche miglioramento delle pensioni – altro che allungare i tempi di lavoro quando dopo i quarantacinque anni non se ne trova più – di qualche rivalutazione dei salari invocata perfino dalla Banca d’Italia per far ripartire una domanda interna in calo, di metter fine a un precariato dilagante che interdice a giovani e meno giovani di darsi un programma, dunque un senso di vita. Che altro aveva domandato il PRC al governo? Non è un onore della nostra stampa aver fatto chiasso se qualche ministro sfilava o no in un corteo dimenticando quale ne fosse l’oggetto. Non uno di questi editoriali, spesso autorevoli, è innocente rispetto al voto non dato alla SA e al suo conseguente azzeramento.

Più serio l’appunto che le si può fare – ma perché solo ad essa? – sulla perdita di coscienza operaia da parte di quei lavoratori che non da ieri votano Lega anche se iscritti alla CGIL. Non ne deriva, a mio avviso, che la Lega sia una costola della sinistra, ma che in mancanza di un linguaggio di sinistra quello populista paga fra i più fragili e sfruttati – la loro condizione sarebbe garantita dalla mancanza di lavoro o dal basso salario della concorrenza dell’immigrato più dal protezionismo di Tremonti che dal PD. È con miopia che la CGIL ha constatato tardi come votino Lega anche suoi iscritti, quasi che un sindacato potesse reggere se viene meno il principio di solidarietà. Gli anni Trenta dovrebbero pur ricordarci qualcosa. È un arretramento, una convulsione.

Ma come non riconoscere che una qualsiasi sinistra coerente con qualche suo principio s’è trovata stretta fra la difesa, a costo di lasciarci le ossa, del governo amico e l’incapacità ormai storica della classe dirigente italiana di stare sul mercato mondiale con una alta qualità di prodotto invece che con un più basso livello dei costi? E non è questo il problema cui non solo la sinistra, ma l’intero paese si trova di fronte rispetto a un processo di globalizzazione, per di più senza regole, e di crescita quasi inesistente, ai margini di una economia occidentale sull’orlo della recessione? Ai molti soddisfatti del tramonto della SA e dell’isolamento della FIOM viene da dire «bada che la campana suona anche per te».