Come l'ultimo allargamento ha cambiato l'Europa

Di Jan Zielonka Giovedì 26 Giugno 2008 18:42 Stampa
L’allargamento verso l’Europa orientale ha cambiato radicalmente l’Unione europea, introducendo una nuova
gamma di diversità alle quali l’UE deve ora adattarsi. E non è detto che una maggiore concentrazione di potere a Bruxelles sia la soluzione migliore per il futuro dell’Europa. Una governance flessibile e confini più elastici potrebbero offrire la risposta più adeguata alle sfide della globalizzazione.

L’ultimo allargamento ha cambiato l’Unione europea fino a renderla irriconoscibile. Non si è trattato semplicemente di un matrimonio di convenienza tra paesi simili che condividono idee simili, ma di una coraggiosa mossa strategica per stabilizzare il versante orientale del continente dopo la fine della guerra fredda e il crollo del sistema sovietico. I dieci nuovi Stati membri dell’Europa centrale e orientale sono molto diversi dagli Stati che formavano l’UE a 15. Hanno una storia e una cultura differenti, diverse strutture economiche e giuridiche e diversi interessi in politica estera. Il loro ingresso nell’UE, pertanto, sta producendo un impatto enorme sulla stessa natura dell’integrazione europea.

Nell’Unione allargata si assisterà probabilmente alla compenetrazione di varie tipologie di fattori politici, operanti in un sistema privo di un preciso centro di potere e di una gerarchia definiti. Le discrepanze socioeconomiche aumenteranno verosimilmente senza modelli uniformi. I confini esterni dell’Unione allargata saranno sottili e in movimento, piuttosto che rigidi e fissi. La norma sarà una governance a cerchi concentrici, su più livelli e policentrica. L’identità paneuropea sarà fragile e confusa, senza un demos realmente europeo.

Tutto ciò non è ben compreso da politici e studiosi, che continuano a enfatizzare quelle caratteristiche che fanno assomigliare l’UE a uno Stato: la moneta comune, i confini esterni e le istituzioni centrali di Bruxelles. Occorre invece prendere atto della nuova realtà e farla funzionare. In effetti, questa realtà non è necessariamente così nuova, perché somiglia alla condizione che l’Europa conobbe nel Medioevo. Anche a quel tempo i confini erano piuttosto variabili, la sovrapposizione di molteplici livelli politici e amministrativi era la norma e l’identità culturale era connessa molto debolmente all’insieme dei centri di potere.

Questo articolo tenterà di analizzare la natura in evoluzione dell’Unione europea e di illustrare nei dettagli modalità di governo dell’Europa più efficaci e legittime del rafforzamento del Parlamento europeo, della creazione di un esercito europeo o dell’introduzione della figura di un presidente europeo.

Integrazione attraverso l’allargamento

L’Unione ha subito diversi allargamenti prima del 2004. Nel 1973, il Regno Unito, la Danimarca e l’Irlanda per primi raggiunsero i sei Stati membri originari della Comunità economica europea. La Grecia arrivò nel 1981 e la Spagna e il Portogallo nel 1986. Nel 1995 furono accolte nell’Unione Austria, Svezia e Finlandia. La riunificazione tedesca spinse i confini dell’UE ancora più a est. Ogni nuovo allargamento ha portato con sé nel sistema europeo cambiamenti istituzionali e procedurali. I nuovi membri hanno apportato all’Unione le proprie differenti culture, i diversi interessi politici e procedure legali. Sebbene gli studiosi tendano a sottolineare i progressi funzionali del progetto europeo (il cosiddetto approfondimento), si può affermare che l’ampliamento attraverso i successivi allargamenti è stato di per sé altrettanto o persino più rilevante, nel modellare il processo di integrazione e la natura dell’Unione. Ciò appare ancora più vero quando si prende in considerazione l’ultima tornata di allargamenti. La gamma di diversità importate dall’Unione con questa nuova ondata determinerà nettamente quelli che saranno probabilmente i prossimi progressi funzionali dell’Unione.

Perché questa nuova fase di allargamenti è stata speciale? A prima vista, essa non sembra tan- to diversa, nella sostanza, da quelle precedenti. In termini macroeconomici, per esempio, la portata dei nuovi Stati membri dell’Europa orientale, raffrontata a quella dell’UE a 15, è praticamente equivalente a quella di Grecia, Portogallo e Spagna negli anni Ottanta a confronto con l’UE a 9. Anche la popolazione dei nuovi membri dell’Est è simile a quella che avevano allora i nuovi tre arrivati del Sud. Anche i negoziati di accesso con i candidati dell’Europa orientale hanno ricalcato da vicino lo schema dei precedenti allargamenti. Non solo le procedure, ma anche la sostanza stessa dei negoziati è stata simile: la questione dell’agricoltura, per esempio, è stata uno dei punti più controversi sia nel caso dell’allargamento verso est sia in quello dell’allargamento verso sud.

Queste analogie, tuttavia, non colgono e sottostimano un punto fondamentale: i nuovi paesi membri dell’Europa orientale sono tutti Stati postcomunisti. Prima del 1989, attraversare la frontiera Est-Ovest era come entrare in un impero assolutamente alieno, se non addirittura ostile, con leggi, economia, istruzione, ideologia e culture differenti. È vero che, da un punto di vista storico più ampio, l’Europa orientale e quella occidentale condividono alcune importanti caratteristiche, ma sotto il dominio comunista l’Europa dell’Est rappresentava l’antitesi dell’Unione europea. È altrettanto vero che i nuovi paesi membri dell’Europa orientale hanno subito una profonda trasformazione di sistema dalla caduta del comunismo, ma i retaggi culturali e storici tendono a sopravvivere per molti anni. Non è un caso, per esempio, che quello che viene chiamato “processo di lustrazione” (ossia il capillare controllo e l’epurazione dei funzionari sospettati di azioni improprie sotto la protezione dell’ancien régime) sia al centro di controversie politiche all’interno di tutta l’area postcomunista. È anche un fatto che le economie dell’Europa centrale e orientale stanno crescendo più rapidamente di quanto non facciano quelle dell’Europa occidentale. Tuttavia, il dislivello strutturale fra le condizioni economiche è ancora grande e rimarrà tale per due o tre decenni, in alcuni casi anche più a lungo.

In altri termini, l’allargamento verso est ha determinato una straordinaria importazione di differenze che difficilmente possono essere affrontate solo con l’adozione formale, da parte dei nuovi membri, dell’intero corpo di leggi e regolamenti europei: il famoso (o vituperato) acquis communautaire. Nonostante gli enormi progressi fatti, i nuovi membri dell’Europa centrale e orientale non assomigliano e agiscono (ancora) come i vecchi membri dell’Europa occidentale. La mappa dell’unità e delle diversità presenti nell’Europa allargata potrebbe rivelarsi estremamente complessa e non sempre corrispondente alla vecchia divisione Est-Ovest. Inoltre, le linee di divisione all’interno dell’Unione sono in costante cambiamento e il processo di allargamento costituisce un fattore importante che spinge verso l’adattamento, se non proprio verso una piena convergenza. In passato, paesi come il Portogallo, la Grecia, la Spagna, l’Irlanda e persino la Finlandia hanno sperimentato una modernizzazione e un adattamento significativi dopo essere entrati a far parte della Comunità/Unione europea. In ultimo, ma non per importanza, sarebbe errato supporre che tutte le attuali caratteristiche dell’Europa occidentale siano qualitativamente superiori a quelle dell’Europa centrale e orientale. Per esempio, è facile riscontrare un più intenso spirito imprenditoriale nei nuovi Stati membri, piuttosto che nei vecchi.

Detto ciò, l’attuale pluralità di sistemi diversi di governo, strutture giuridiche, zone economiche di scambio e identità culturali è stridente e presenta un’analogia impressionante con la situazione che esisteva in Europa durante il Medioevo. Inoltre, le politiche adottate dai nuovi Stati membri dell’Europa orientale finiranno probabilmente per accrescere la complessità e le divergenze. Per esempio, i nuovi membri sono determinati a raggiungere, in termini economici, i vecchi paesi e ciò li rende meno sensibili a temi come gli standard nelle politiche del lavoro o quelli ambientali.

I nuovi paesi membri dell’Europa centrale e orientale sono particolarmente interessati alla Russia, ma relativamente indifferenti alla vasta regione mediterranea. Mentre l’Europa occidentale sta tentando in ogni modo di far fronte ai (nuovi) immigrati dai paesi del Terzo mondo, l’Europa centrale e orientale è più interessata alle proprie ragguardevoli (vecchie) minoranze nazionali: ungheresi, russi, polacchi o turchi che vivono sul versante “sbagliato” del confine. La domanda che si pone, dunque, è questa: quali sono le conseguenze di questo scenario neomedievale per il funzionamento dell’UE allargata?

Le tre principali implicazioni del neomedievalismo

Le principali conseguenze dello scivolamento verso un neomedievalismo potranno essere osservate nei campi della democrazia, della governance economica e degli affari esteri. L’allargamento ha avuto un impatto positivo sul consolidamento della democrazia in Europa centrale e orientale. Tuttavia, l’UE allargata si troverà di fronte a parecchie sfide per la democrazia, alcune nuove, altre già in atto.

L’allargamento ha ampliato lo spazio pubblico democratico e ha moltiplicato la pluralità di culture civili. Di conseguenza, il processo decisionale democratico interno alla UE deve soddisfare una gamma più diversificata di interessi e di orientamenti culturali. Dopo tutto, quali sono i legami profondi che uniscono i greci ai lettoni, o i bulgari ai danesi? I cittadini dei diversi paesi possono percepire una sempre maggior distanza tra loro e i processi decisionali; potrebbe non essere semplice offrire loro un maggiore accesso a tali processi (in particolare dopo che i referendum europei hanno fornito un’arena più al populismo che a una genuina partecipazione).

Idiomi molto diversi e una frammentazione sistemica renderanno difficile comunicare all’interno dello spazio allargato dell’Unione. Ciò intralcerà la formazione di valori e norme condivisi e renderà più complicato il processo di negoziazione dei differenti interessi settoriali e nazionali. L’allargamento, in poche parole, farà arretrare ancor più la prospettiva di un demos genuinamente europeo, e renderà altresì necessario all’Unione un aumento ulteriore dei poteri delle istituzioni basate su un sistema non maggioritario, quali la Commissione europea, la Corte di giustizia europea e le varie agenzie di regolazione. I parlamenti nazionali, di conseguenza, rischiano di venire ulteriormente indeboliti nell’Unione allargata. Sempre più decisioni verranno assunte a porte chiuse, poiché, in caso contrario, sarebbe difficile anche solo raggiungere una decisione qualsiasi.

L’impatto dell’allargamento sarà ugualmente profondo anche sul sistema di governance dell’Unione. La gamma di diversità introdotte in Europa dagli ultimi allargamenti renderà il modello ge- rarchico di governo largamente inadeguato. L’UE allargata dovrà abbracciare modelli di governo più flessibili, decentralizzati e leggeri. Il sistema europeo di governo è stato già messo sotto pressione, perché la modernizzazione e la globalizzazione non possono essere gestite in maniera appropriata da un sistema di governo europeo gerarchico e relativamente rigido, caratterizzato da una struttura istituzionale gerarchica, leggi prefissate, controlli regolari e attribuzione di pene in caso di infrazione. L’allargamento è solo servito ad accentuare questa discordanza, e ora l’Unione si sta muovendo decisamente in una direzione medievalista.

Politiche uniformi provenienti da un lontano centro posto a Bruxelles difficilmente possono essere idonee a un ambiente europeo sempre più diversificato. Con ogni probabilità, la principale risposta dell’Unione alle discrepanze economiche innescate dall’allargamento sarà un’ulteriore liberalizzazione e devoluzione, tese a stimolare la crescita. Il sostegno ai paesi più poveri, gestito in modo centralizzato, sarà probabilmente limitato e volto a promuovere efficienza, piuttosto che convergenza. Tutto ciò non accadrà necessariamente perché i nuovi Stati membri sono più neoliberisti dei vecchi. Comunque, flessibilità e liberalizzazione danno ai nuovi membri alcuni vantaggi economici in termini comparativi, mentre i vecchi Stati sembrano intenzionati a impedire ogni ulteriore aumento del bilancio dell’Unione da destinare alla redistribuzione (la differenziazione istituzionale attraverso la delega, la devoluzione e la sperimentazione in direzione del decentramento sono sollecitate anche dalla crescente competizione con gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone e l’India).

Anche in politica estera l’allargamento rafforzerà il nuovo scenario neomedievale. L’allargamento ha reso ovviamente più difficile per l’Unione dotarsi di una politica estera governata centralmente, per non parlare di una politica estera unica. Il numero di membri è quasi raddoppiato e i nuovi paesi hanno preoccupazioni e priorità internazionali differenti, quando non divergenti. In particolare, tutti i nuovi membri hanno un orientamento più filoatlantico che filoeuropeo in politica estera; la maggior parte di essi vede la Russia con notevole preoccupazione o con vero e proprio sospetto. Certamente la politica economica estera dell’Unione continuerà a essere condotta in maniera sempre più centralizzata, ma anche in questo settore la sovranità della UE è intralciata dal proprio ingombrante sistema decisionale e dalle residuali prerogative dei paesi membri.

Nell’Unione allargata, i confini saranno probabilmente “morbidi”, e non rigidi, e resteranno verosimilmente in movimento, poiché i nuovi Stati membri dell’Europa centrale e orientale hanno cospicui segmenti di popolazione che vivono al di fuori delle frontiere dell’UE. Confini rigidi non solo scoraggerebbero l’intenso scambio di relazioni umane attraverso la frontiera con i rispettivi connazionali, ma metterebbero anche un freno alle fiorenti relazioni economiche che nascono da questi legami, e causerebbero persino problemi di sicurezza (si consideri, per esempio, la delicata situazione della numerosa popolazione russa residente in Lettonia ed Estonia). D’altronde, i nuovi paesi membri stanno facendo pressione per un ulteriore allargamento verso Oriente. Non vogliono rimanere nella condizione di paesi di confine, esposti in particolare all’instabilità dell’Ucraina e dei Balcani.

Adattarsi per cambiare

Coloro che hanno a cuore la visione di una federazione europea sono chiaramente preoccupati dal sorgere dello scenario neomedievale provocato dai recenti allargamenti. Essi preferiscono mettere in sospeso ogni ulteriore allargamento e introdurre forme di governance dell’Unione più centralizzate. Queste preoccupazioni sono infondate e le ricette politiche che ne derivano sono sbagliate. Il neomedievalismo non necessariamente porta al conflitto e al caos, a condizione che si abbandonino soluzioni di tipo statuale per governare un ambiente neomedievale.

La visione di una federazione europea è sempre stata utopica e difficilmente adatta ad affrontare le pressioni crescenti della modernizzazione e della globalizzazione. Essa si è anche scontrata con la persistente volontà degli Stati nazionali di rimanere centri decisionali importanti.1 Ciò tuttavia non significa necessariamente proclamare la fine dell’integrazione europea, né che la democrazia, a livello dell’Unione, non possa essere migliorata. Significa solo che occorre elaborare modi diversi per governare l’Europa allargata e che non bisogna aver paura di sistemi di governo più pluralistici e flessibili.

Tanto per cominciare, fare affidamento su modalità di governo più duttili è la via più sicura per rafforzare la competitività dell’Europa. La produttività economica non richiede forse un’ulteriore devoluzione, decentramento e liberalizzazione? Le competenze decisionali in Europa devono proprio essere monopolizzate da Bruxelles? Non dovrebbero essere condivise dai vari protagonisti, a livelli diversi? La conformità alle leggi e alle direttive comunitarie deve essere ottenuta solo a suon di ordini amministrativi e sanzioni? Non produrrebbero, magari, migliori risultati la persuasione, gli incentivi, l’incoraggiamento delle best practices e il biasimo di quelle peggiori?

L’Unione ovviamente ha bisogno di una certa qual sorta di governo centrale, ma non occorre un governo unitario strutturato in modo piramidale come prefigurano i sostenitori di una federazione europea. L’Unione deve garantire ai cittadini che anche in uno spazio pubblico europeo più ampio e diversificato non si ritroveranno senza alcuna forma pubblica di protezione, arbitrato, giurisdizione, regolazione e riallocazione, ma un modello di governo gerarchico non è necessariamente il mezzo migliore per garantire tutto ciò. La governance, in essenza, consiste nella difesa degli obiettivi comuni, ma non sempre una direzione e un controllo a livello centrale costituiscono il modo migliore per garantirne il raggiungimento.

Una direzione flessibile, basata sulla devoluzione e il decentramento, porterà il governo europeo più vicino ai suoi cittadini. La moltiplicazione dei centri di potere contribuisce a una maggior responsabilizzazione, in quanto centri o reti di potere differenti si controllano reciprocamente e possono rendere pubblici gli abusi. È anche vero che reti complesse sono in grado di sfuggire a un controllo democratico formale, ma esse sono soggette a una varietà di controlli informali invece meno presenti nei sistemi gerarchici. I parlamenti hanno difficoltà a intuire quanto avviene nei processi di contrattazione policentrica, ma questo evidenzia solo la crescente inadeguatezza delle forme tradizionali di controllo democratico, specialmente quando debbono confrontarsi con la complessità dell’odierno spazio pubblico europeo. Conferire più poteri al Parlamento europeo non cambierà probabilmente tale situazione. Un governo flessibile è anche più adatto a gestire confini più leggeri e in continua trasformazione. Non c’è alcuna necessità di fissare i confini dell’UE. Ogni nuovo allargamento rappresenterà certamente una sfida alla coesione politica, economica e culturale dell’Unione, ma l’allargamento si è dimostrato lo strumento più efficace per modellare l’instabile ambiente dell’Unione. L’ingresso di paesi come la Turchia, la Serbia o l’Ucraina sembra destinato a essere un processo a lungo termine talvolta frustrante. Ma chiudere le porte a questi paesi priverebbe l’Unione europea della grande leva che essa ora può vantare nei loro confronti, e avrebbe anche conseguenze destabilizzanti.

Gli ultimi allargamenti hanno cambiato l’Unione fino a renderla irriconoscibile, ma il cambiamento era teso al meglio, non al peggio. Ora, tuttavia, dobbiamo adattarci a questo cambiamento e dobbiamo intraprendere nuove strade per promuovere l’integrazione europea.