I simili con i simili, per la casa comune dei riformisti

Di Ugo Intini Lunedì 02 Giugno 2003 02:00 Stampa

Dopo due anni di governo, gli italiani hanno capito che Berlusconi ha vinto le elezioni politiche perché è un grande venditore, ma è un venditore senza prodotto. Non una sola delle sue promesse è stata infatti mantenuta e i cittadini gli hanno voltato le spalle alle elezioni amministrative. Nei Comuni, nelle Province, in Friuli, hanno trovato una alternativa credibile nel centrosinistra e lo hanno votato.

 

Dopo due anni di governo, gli italiani hanno capito che Berlusconi ha vinto le elezioni politiche perché è un grande venditore, ma è un venditore senza prodotto. Non una sola delle sue promesse è stata infatti mantenuta e i cittadini gli hanno voltato le spalle alle elezioni amministrative. Nei Comuni, nelle Province, in Friuli, hanno trovato una alternativa credibile nel centrosinistra e lo hanno votato.

I tempi sono maturi perché accada esattamente lo stesso nelle elezioni politiche? Francamente, bisogna rispondere che se ne può fortemente dubitare, perché manca ancora un tassello decisivo. A livello locale infatti il centrosinistra si dimostra unito e credibile come forza di governo. A livello nazionale, no. Gli italiani sono insoddisfatti della maggioranza, ma non sono ancora pronti a fare un passo in più, quello decisivo: a votare per l’opposizione. C’è dunque il rischio di vedere ripetuta una situazione che è durata decenni. Quella di un elettorato che continua a scegliere, sempre turandosi il naso, anziché la DC, Forza Italia. Un tempo, ciò accadeva perché c’era l’Unione Sovietica, per un fatto cioè di forza maggiore. Oggi l’Unione Sovietica non c’è più e la maledizione pluridecennale potrebbe continuare soltanto per la nostra inettitudine e sprovvedutezza.

Questo è dunque il problema. Costruire un centrosinistra coeso, credibile come stabile ed efficiente alternativa di governo. Ci aiuta partire da una chiave internazionale. Esistono l’economia, il crimine, il terrorismo, l’inquinamento e lo spettacolo globale. Esiste dunque ormai anche la politica globale: l’unica che veramente conta. Nella politica globale, tutto è più semplice, schematico. Gli schieramenti sono sostanzialmente due. Da una parte stanno i liberisti, come Bush o Berlusconi. Dall’altra quanti vogliono porre al mercato dei limiti suggeriti da principi di equità. Se si dovesse spiegare in estrema sintesi a un giovane dove sta la differenza tra liberisti e non, tra la destra e la sinistra, si potrebbe dire. «I liberisti pensano che il mercato sia l’unico metro per le scelte politiche; gli altri che si debba essere sì per una economia di mercato, perché il mercato porta ricchezza, ma non per una società di mercato, perché la società è fatta da donne e uomini i quali hanno dei diritti spesso al di sopra del mercato stesso». E chi sta in questo secondo schieramento? La tradizione socialista, certo: l’Internazionale socialista e il Partito del socialismo europeo. Ma non basta più. Ci stanno anche i religiosi, i cattolici, che per un motivo morale non possono accettare il dominio esclusivo del denaro. Ci stanno anche i liberaldemocratici. Mentre Clinton, ad esempio, raccoglieva nell’ottobre scorso un uragano di applausi al Congresso laburista di Blackpool, il segretario dell’Internazionale socialista Louis Ayala, commentava: «ma questo parla come uno di noi». Ci stanno anche i comunisti pragmatici. I cinesi, innanzitutto, che ormai dicono: «certo che siamo comunisti, ma il comunismo è un obiettivo filosofico che sarà raggiunto tra molte generazioni, per il momento vogliamo costruire una moderna economia competitiva».

A ben vedere, le forze elencate in questo secondo schieramento sono esattamente quelle che costituiscono l’opposizione italiana. E qui, partiti dal contesto internazionale, si arriva al nostro problema contingente (e urgente). Possono tutte queste forze stare in un solo partito? In teoria, forse. Nel Labour Party britannico, ci stanno anche in pratica. Ma in Italia è davvero difficile pretenderlo. Tuttavia, neppure si può accettare l’eccesso opposto, ovvero una opposizione costituita da almeno otto partiti e partitini in continua, rissosa competizione tra di loro. Una semplificazione, una razionalizzazione sono pur sempre necessarie. Bisogna allora partire, sdrammatizzando, dalla accettazione di una semplice realtà. Quasi sempre nel mondo (e sempre in Italia) ci sono state due anime della sinistra o, se si preferisce, del centrosinistra. Una sinistra radicale, massimalista, della protesta. Una sinistra pragmatica, riformista, di governo. Molte persone fisiche sono passate personalmente dall’una all’altra. Quanti dirigenti iper moderati della sinistra pragmatica, ad esempio, sono stati nel 1968 rivoluzionari ed estremisti? Le due sinistre sono due facce della stessa medaglia, sono naturali alleate. Ma devono organizzarsi, strutturarsi, rafforzare la propria rispettiva identità raccogliendo tutto il consenso potenziale, ciascuno grazie alla omogeneità e chiarezza della propria linea politica. Il primo passo è che, ponendo fine a bracci di ferro e liti defatiganti, i simili, semplicemente, vadano con i propri simili. Prima lo si fa, con serenità e realismo, meno si accumulano tensioni. La linea di confine tra le due anime della sinistra già si vede: come sempre avviene, è stata segnata dalle grandi scelte, dalle votazioni alla Camera sulla politica estera al referendum sull’art. 18. Da una parte, stanno Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Verdi, movimenti. Dall’altra, DS, SDI, Margherita, UDEUR.

Guardando l’area pragmatica e riformista, è oggi difficile prevedere come possa strutturarsi: se come federazione democratica o come un unico partito, e attraverso quali passaggi. Ma è chiaro il vantaggio che si trarrebbe da una aggregazione. I DS, inseriti in un contesto più ampio, non sarebbero più vulnerabili con l’appellativo di «comunisti» pervicacemente lanciato dalla propaganda berlusconiana. La Margherita risolverebbe un problema di identità destinato ad aggravarsi. Il pur piccolo SDI, il mio partito, farebbe finalmente da catalizzatore per un processo che indica da anni, si scioglierebbe in una entità riformista dove la sua storia lo renderebbe centrale e assolutamente «di casa». L’opposizione nel suo complesso si libererebbe dalla sterile competizione tra DS e Margherita, che non risolveranno mai i problemi né propri né della coalizione con qualche punto percentuale ciascuno in più o in meno. Gli steccati innaturali tra tutti noi cadrebbero, si aprirebbero sinergie e rapporti trasversali perché, anche qui, i simili sceglierebbero i propri simili: avremo un nuovo, vitale «melting pot» dal quale potrà nascere una opposizione rinnovata nei programmi, nella identità e nella cultura.

Si tratta di un disegno troppo schematico e astratto? Forse. Ma certo più lontani dalla realtà sono oggi i contenitori artificiosi in cui l’opposizione è costretta. Colgo ad esempio a prima vista la differenza tra Diliberto ed Enzo Bianco, che stanno entrambi nell’Ulivo. Non la colgo così facilmente tra Diliberto e Bertinotti. So che Bersani ed Enrico Letta, come ministri dell’Industria, farebbero esattamente le stesse scelte, pur militando oggi formalmente in partiti diversi. Ma che Salvi non sempre le approverebbe, pur essendo nello stesso partito di Bersani. Credo nell’appeal dell’Ulivo come forza europea di governo, ma non vedo come tale appeal possa sopravvivere al fatto che un pezzo dell’Ulivo ama Fidel Castro e aborre Tony Blair.

Tanto è evidente la inadeguatezza degli attuali contenitori, che le «scatole partito» esistenti perdono continuamente autorevolezza e coesione, così da sembrare adeguate più alla storia del secolo (o del millennio) passato che alle sfide del nuovo. Così da sembrare tenute insieme più dagli interessi personali dei gruppi dirigenti che dalle esigenze obiettive. Dunque, i simili si raggruppino finalmente con i propri simili, prendano finalmente il mare su due imbarcazioni (quella della sinistra radicale e quella della sinistra pragmatica ) e inizino la navigazione verso il possibile successo elettorale. A un certo punto, l’imbarcazione della sinistra pragmatica e riformista, che dovrà essere la nave ammiraglia, imbarcherà l’ammiraglio (verosimilmente Prodi) e il successo elettorale si avvicinerà ancora di più.

Qui, in questo passaggio, sorge tuttavia un problema tanto delicato quanto decisivo. La sinistra radicale e quella pragmatica risultano entrambe indispensabili, devono comportarsi da alleate leali, però la seconda deve guidare ed essere, appunto, la nave ammiraglia, la prima deve seguire. Anzi, a occhio e croce, la seconda deve pesare elettoralmente almeno tre volte di più, se si vuole vincere le elezioni e poi governare stabilmente. Insisto non perché appartengo, evidentemente, alla sinistra pragmatica e riformista. Non perché una sinistra sia necessariamente migliore dell’altra. Anzi, può anche darsi che la sinistra radicale abbia molte ragioni non sufficientemente riconosciute. Insisto per due solidi motivi obiettivi. Il primo è quasi ovvio. Nei sistemi bipolari, le elezioni si vincono conquistando il voto incerto del centro. Lula, che oggi ci fa tutti sognare, è stato per anni un caro amico, ma anche un demagogo massimalista. Ha vinto in Brasile quando si è scelto come vicepresidente un ipermoderato e ha rassicurato il mondo economico. Senza andare lontano, come si sono vinte le elezioni nelle amministrazioni locali? Si è candidata una persona di buon senso in grado di conquistare il voto dei ceti medi, alla quale Rifondazione Comunista ha saggiamente dato il suo aiuto: nella campagna elettorale prima e mandando uno o più assessori in Giunta poi.

Ma c’è un secondo motivo, persino più importante. Le grandi scelte ormai vengono fatte in Europa e proprio noi vogliamo che sia sempre più così. Ma in Europa esistono, contestualmente, governi di destra e governi di sinistra. Come potranno seguire la stessa politica? Evidentemente, trovando un punto di incontro intermedio, smussando gli estremismi di destra e di sinistra. Ecco perché l’Europa unita non consente e non consentirà governi guidati dalla sinistra radicale anziché da quella pragmatica. Questo è il vincolo europeo. Ma è anche l’unica, vera speranza proprio per la sinistra radicale. A Bertinotti non piace il liberismo all’americana oggi dominante. Neanche a me. Ma può un singolo paese mettersi di traverso facendo qualcosa di profondamente diverso? Finirebbe alla bancarotta. Un singolo paese non può. L’Europa sì, perché ha il peso per farlo. D’altronde, non si tratta di una scoperta «riformista» di oggi. Filippo Turati, il padre fondatore del riformismo, nel 1929, scriveva al leader laburista inglese Henderson: «gli Stati Uniti d’Europa sono una esigenza assoluta per noi, altrimenti diventeremo una colonia di quella nostra colonia di un tempo che sono gli Stati Uniti d’America». Esattamente il tema più scottante del momento dopo la guerra unilaterale di Bush.

Certo, queste ragioni sono solide e tuttavia la sinistra radicale potrebbe chiedersi perché mai debba lavorare come portatrice d’acqua a quella pragmatica. Perché il punto di mediazione fra i paesi europei – si potrebbe rispondere – può essere spostato verso sinistra dalle battaglie culturali e dalla mobilitazione della sinistra radicale. Perché l’utopia spesso diventa realtà prima del previsto. Perchè il linguaggio della passione politica è ascoltato dai giovani più di quello del realismo politico. Perché, senza utopia, la sinistra non sarebbe neppure nata. Infine, perché è meglio una «cattiva» sinistra («cattiva» in quanto considerato troppo moderata ) piuttosto che una buona destra: meglio Blair della Thatcher, meglio Schroeder di Stoiber, meglio Prodi, D’Alema, Amato di Berlusconi. Ciò detto, la vignetta quotidiana di Giannelli, sul Corriere della Sera, raffigura il primo ministro Berlusconi con al guinzaglio un cane che abbaia ma non morde, ovvero Bossi. Vinceremo e governeremo stabilmente quando la vignetta del Corriere raffigurerà secondo la stessa logica i rapporti di forza nella sinistra tra il nostro Primo Ministro e il leader della sinistra radicale (spero con maggior rispetto per Bertinotti, o il futuro capo dell’area massimalista, che comunque non sarà mai «un Bossi», ma un compagno, con radici comune alle nostre, con una cultura che può essere criticata, ma non negata).

In questo schema, risulta chiaro che non si deve auspicare una grave scissione nei DS e si devono apprezzare i prudenti sforzi di Fassino. La fuoriuscita verso l’area radicale di un grosso pezzo del partito renderebbe infatti i rapporti di forza tra sinistra massimalista e riformista non fortemente sbilanciati a favore della seconda, ma quasi paritari, così da preparare per tutti la sconfitta elettorale e uno scenario da anni Cinquanta. Quando le piazze si riempivano, sì, gli slogan erano aggressivi, sì, ma i sindacati erano divisi e si perdeva regolarmente dappertutto: nelle fabbriche come nelle elezioni.

Mentre prefiguriamo la nave (o la casa) dei riformisti (o della sinistra pragmatica), formata da socialisti, cattolici e liberaldemocratici, non possiamo sfuggire a una domanda: quale deve essere il suo ancoraggio internazionale? Nonostante le difficoltà, credo che la risposta possa essere: l’Internazionale socialista. Qual’è infatti l’ostacolo insormontabile a starci per un cattolico della Margherità? Il suo presidente stesso, Guterrez, è un fervente cattolico. Qual è l’ostacolo per un liberaldemocratico? Blair è in pratica più simile a un socialista continentale o a un liberale? Da quando la società fabiana, in Gran Bretagna, ha teorizzato il «Lib-Lab», ovvero il liberalsocialismo, sono passati decenni. E il «Lib-Lab», con un libro omonimo scritto a quattro mani da Enzo Bettiza e da me, è stato propagandato in Italia già nel 1979, all’inizio del nuovo corso craxiano. Inoltre, le prospettive di cambiamento per l’Internazionale socialista già si vedono. In mezzo agli errori degli ultimi tempi, questa è forse l’intuizione più lungimirante di Blair: egli immagina infatti una Internazionale socialista che trova finalmente, per incidere davvero nel mondo, un punto di riferimento nei democratici americani e in Clinton; pensa di essere lui il ponte tra Europa e Stati Uniti; spera forse di poter assolvere un ruolo storico creando, nei tempi lunghi, una nuova e più vasta Internazionale. Tutto si muove, dunque, nel nostro campo. Resta fermo invece il fatto che il Partito popolare europeo è ormai la casa dei conservatori e di Berlusconi, nella quale è difficile immaginare un futuro per i cattolici che gli si contrappongono in Italia.

È anche ora di guardare al futuro con più ottimismo (non soltanto per i risultati delle amministrative) e con più vision. È vero che la sinistra è da sempre rissosa e divisa (a «fractious bunch», dice Blair). Ma ha ideali, storia, radici, persino tipologie umane comuni. Craxi e Cossutta litigavano oltre quaranta anni fa quando erano consiglieri comunali del PSI e del PCI a Milano, ma cionondimeno si chiamavano compagni e si sono poi alleati per amministrare insieme la città (quando la minaccia sovietica c’era ancora, non dopo). La destra sta potenzialmente peggio di noi. AN ha come simbolo il tricolore: la Lega, sul tricolore, dichiara di sputarci. L’UDC è diventato il primo partito della Sicilia: l’esatta antitesi di chi è il paladino del Nord. I nuovisti del «partito azienda» e della «politica-spot pubblicitario» si scontrano provincia per provincia con i vecchi democristiani. Una singola persona fisica (Berlusconi) e il potere sono per il Polo un cemento, certo, ma l’unico e, come suggerisce l’esperienza, il più friabile di tutti.

I parallelismi e il pendolo della storia danno finalmente nuove carte ai riformisti, li spingono a gettare lo sguardo più lontano e con più fiducia. La rivoluzione dei computer è stata forse più grande di quella industriale. Di fronte alla prima, si formò inizialmente un magma ribellista, confuso, violento a parole e spesso nei fatti. Poi, Filippo Turati, centodieci anni fa, a Genova, fondò il Partito Socialista, si separò da tutto questo nettamente, prese la strada della sinistra pragmatica e riformista. Anche oggi, di fronte alla rivoluzione dei computer, madre della globalizzazione, la risposta iniziale è stata il confuso ribellismo dei no global. Dobbiamo con fiducia fare esattamente quello che ha fatto Turati, ma a livello non più nazionale bensì mondiale. La protesta senza frontiere ha costruito il rivoluzionarismo globale, noi dobbiamo costruire il riformismo globale, la politica globale della sinistra pragmatica e di governo. Il parallelismo continua. Sembrava che il pendolo della storia, dal reaganismo-thatcherismo in poi, si fosse collocato saldamente dalla parte dei liberisti. Adesso, sta ritornando verso di noi. La rivoluzione industriale, con la ferrovia e il telegrafo, trasformò le economie da provinciali in nazionali, riducendo le distanze: grande sviluppo, ricchezza, boom delle Borse, squilibri e crollo. Intervennero allora gli Stati nazionali, corressero gli squilibri (come Roosevelt con il suo New Deal) e lo sviluppo riprese. Oggi, la rivoluzione dei computer, cancellando le distanze, ha trasformato le economie non da provinciali in nazionali, bensì da nazionali in globali. Stesso schema: ricchezza senza precedenti, boom, squilibri e crollo. Anche nelle università americane, si è ormai capito che il mercato non basta a rimettere ordine, che ci vuole il ritorno della politica, uno Stato (o comunque una autorità) che intervenga. Ma gli Stati nazionali non bastano più. Se il riformismo di Roosevelt poteva essere nazionale, oggi occorre un «riformismo globale». Oggi tutti hanno capito che senza di esso non si assicura la pace (l’Iraq insegna) ma neppure il progresso economico. Se dunque Turati, nel 1929, già indicava gli «Stati Uniti d’Europa», noi oggi dobbiamo avere più vision, cominciare ad indicare gli «Stati Uniti del mondo». Forse, non passeranno settant’ anni perché una nuova generazione li veda realizzati . Anche i riformisti infatti, come i massimalisti, sanno sognare. Ma i loro sogni, spesso, prefigurano la realtà del futuro.