La grande bolla speculativa del pallone

Di Gianfranco Teotino Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

Adesso si chiama salary cap, funziona bene negli sport professionistici USA, è una tentazione per il calcio europeo e uno spettro che si aggira per l’Italia. Gli inglesi ci stanno provando, per ora dalla serie B in giù. Pare invece che non vi sia alcuna possibilità che sia introdotto nel calcio italiano: impensabile, dicono, un gentlemen’s agreement fra i litigiosissimi presidenti del pallone, inesistente una qualsivoglia Autorità in grado di imporlo dall’alto. Una settantina d’anni fa si chiamava decurtazione degli stipendi e fu sancita con un’ordinanza del «Direttorio federale» del pallone (il «Consiglio federale» dei giorni nostri, sempre di federali si tratta).

 

Adesso si chiama salary cap, funziona bene negli sport professionistici USA, è una tentazione per il calcio europeo e uno spettro che si aggira per l’Italia. Gli inglesi ci stanno provando, per ora dalla serie B in giù. Pare invece che non vi sia alcuna possibilità che sia introdotto nel calcio italiano: impensabile, dicono, un gentlemen’s agreement fra i litigiosissimi presidenti del pallone, inesistente una qualsivoglia Autorità in grado di imporlo dall’alto. Una settantina d’anni fa si chiamava decurtazione degli stipendi e fu sancita con un’ordinanza del «Direttorio federale» del pallone (il «Consiglio federale» dei giorni nostri, sempre di federali si tratta). La sanzione per gli inadempienti non era naturalmente una semplice penalizzazione sportiva, ma una diretta denunzia al Partito nazionale fascista. Altro che scherzi. La decisione fu presa il 28 aprile 1934: «Il Direttorio federale ordina che tutti gli assegni o premi versati a dipendenti degli enti federali e delle società, ivi compresi i giocatori e gli allenatori (con o senza contratto), siano decurtati a partire dal 1 maggio nella misura stabilita dalle recenti disposizioni di legge per gli impiegati dello Stato. Gli inadempienti saranno denunziati al Partito nazionale fascista per i provvedimenti di competenza». La decurtazione era dell’ordine del 20% visto che la legge cui si fa riferimento prevedeva, ad esempio, che lo stipendio annuo di un Dirigente generale statale passasse da 42.240 a 37.171 lire.

Un provvedimento maturato nei mesi precedenti sulla base di alcune considerazioni ben riassunte da questi brani di un articolo pubblicato nell’ottobre 1933 dal presidente della Federcalcio dell’epoca, Giorgio Vaccaro; un articolo che recentemente Mario Pennacchia ha estratto dai suoi archivi e rispolverato sulle pagine de «Il Messaggero». Scriveva Vaccaro: «La Federazione è preoccupata dalle troppe società che passano da una crisi all’altra (…) Data l’ora che viviamo l’auspicata riduzione di tono del gioco del calcio, se applicata razionalmente e su tutto il fronte, non dovrebbe portare alcun pregiudizio al livello tecnico di questo sport (…) non sarebbe, infatti, la riduzione dello stipendio da 6.000 a 3.000 lire al mese di qualche asso o la liquidazione di parte del personale di qualche società un male grave. Male grave è, invece, quello attuale che costringe le classi più modeste o meno abbienti sovente ad autentici sacrifici per non disertare lo spettacolo calcistico. Perché – e tutti i tifosi ne saranno buoni testimoni – ad uno spettacolo cinematografico si può rinunciare, ma ad uno spettacolo calcistico il buon tifoso non rinuncia: per esso invece rinuncia magari al vino per una settimana».

Al di là degli aspetti storico-folcloristici dell’analisi di Vaccaro e della considerazione che comunque allora i bilanci erano in pareggio (i costi dei campioni venivano fatti pagare agli spettatori), c’è da osservare che nel mondo del calcio il timore di un crac economico, i «così non si può andare avanti», le grida «il pallone scoppia», sono in Italia talmente ricorrenti che alto è il rischio di una loro sottovalutazione, anche perché in qualche modo il calcio è sempre sopravvissuto alle emergenze, uscendone spesso anche più rinvigorito. Difficile che fallisca un’azienda capace comunque nel corso degli anni di riqualificare i prodotti e rinfrescare la clientela. La passione è un capitale rinnovabile che vale più di qualsiasi plusvalenza. Possono fallire i dirigenti. Può, questo sì, fallire qualche squadra, anzi se ne fallisse qualcuna di più di adesso sarebbe anche meglio. Ma il movimento non fallirà mai. E l’esempio della Fiorentina ne è un’ulteriore conferma. In C2 la «Florentia viola» riesce a richiamare più spettatori allo stadio di quanti non ne avesse la squadra di Cecchi Gori nel suo ultimo anno in serie A.

La specificità dell’azienda calcio non va mai dimenticata. Osservava recentemente Guido Ascari ( www.lavoce.info ): «Si dice che i club non guardino i bilanci e spendano scriteriatamente. È sempre stato così: dati gli obiettivi e i vincoli dei club è, infatti, razionale che questi siano in perdita e che le perdite siano appianate dalla proprietà, qualora questa sia disposta a farlo. L’obiettivo di un’impresa, s’insegna in economia, è quello di massimizzare il profitto (…) Ma un club di calcio non è un’azienda normale. I presidenti non acquistano le squadre di calcio per fare profitti. Solitamente (e non solo in Italia) sono uomini di successo che possiedono una o più aziende, e che acquistano un club per ragioni di prestigio personale, visibilità pubblica, pubblicità per il loro core business, possibile integrazione verticale (soprattutto per i media), passione o un misto di tutto ciò. Nessun altro business fornisce visibilità pubblica come il calcio. L’obiettivo di un club di calcio è quindi ben diverso: massimizzare la possibilità di vincere, dati i vincoli di spesa. Questi sono dati dai ricavi, ovviamente, ma anche dalla disponibilità finanziaria della proprietà». Per cui qualsiasi Massimo Moratti ha tutto il diritto di sperperare centinaia di miliardi suoi per comprare campioni sparsi per il mondo sperando prima o poi di vincere qualcosa.

Certo, gli ultimi dati sono spaventosi. Aggregando i bilanci 2001-2002 delle diciotto squadre di serie A (la serie B sta anche peggio), si scopre che il risultato operativo è di meno 948 milioni di euro: rispetto ai 677 milioni di dodici mesi prima, il 40% di perdite in più. Mentre il fatturato generale in un anno è cresciuto soltanto del 5% arrivando a 1.063 milioni di euro. L’indebitamento totale è pure salito del 41,1% da 1.806 a 2.549 milioni di euro, a fronte di un attivo circolante di 1.370 milioni (dati «Il Sole 24 ore»). Ma stante la sottocapitalizzazione delle società di calcio che portava al 30 giugno a un patrimonio netto di 450 milioni di euro, il rapporto fra indebitamento totale e patrimonio è balzato al 5,6% (4,4% al 30 giugno 2001). Il risultato operativo netto 2001-2002 è meno 288 milioni di euro, con un peggioramento annuo del 47% (era di 196 milioni nel 2000-2001). Un risultato ottenuto grazie a un saldo positivo di circa 709 milioni fra plus e minusvalenze. È questa la posta che finora ha contribuito a dare respiro ai club calcistici, ma un respiro comunque patologico. Intanto perché le nuove norme europee sui trasferimenti dei giocatori e lo stato economico generale del calcio internazionale hanno drasticamente ridotto negli ultimi mesi, e ancor più lo faranno in futuro, i valori fin qui arbitrariamente attribuiti ai calciatori. E poi perché comunque le plusvalenze realizzate peseranno enormemente sui bilanci futuri, in quanto i conseguenti ammortamenti dei diritti poliennali dei giocatori sono già cresciuti in modo spaventoso (dagli oltre 458 milioni del 2001 ai circa 619 del 2002) e saliranno ancora nei prossimi esercizi.

Proprio queste plusvalenze hanno consentito negli ultimi anni a società sull’orlo del precipizio di ottenere il visto all’iscrizione ai campionati nonostante gravi posizioni finanziarie. Plusvalenza è diventata una parola magica, la panacea che ha consentito al calcio italiano di sopravvivere conducendo un’esistenza al di sopra dei propri mezzi. Fra l’altro più volte si sono iscritte a bilancio cifre puramente virtuali, rimaste solo sulla carta. Somme di denaro che non sono mai circolate effettivamente. Significativi alcuni esempi relativi alla Roma, che ha chiuso l’ultimo bilancio con plusvalenze per 95,3 milioni (soltanto la Juventus ha fatto meglio ma grazie alla effettiva cessione di Zidane al Real Madrid). Ebbene, la Roma dalle carte risulta aver venduto tale Frezza al Torino per 7,7 milioni di euro, tale Ranalli al Cagliari per 7, tale Fontana ancora al Torino per 6,6. Più altri giocatori meno sconosciuti ma altrettanto sopravvalutati. E a completamento di chissà quale operazione con il Torino, nell’ultimo bilancio figura anche la cessione al club granata del portiere Gabriele Paoletti per 22 milioni di euro! Un giocatore sconosciuto agli appassionati che in questo momento è riserva nel Lanciano (serie C1). Ciò che fa la Roma non è un’eccezione, ma la regola. Altro esempio. Un vorticoso giro di scambi di giocatori, senza trasferimento di denaro ma con formazione di plusvalenze, si è verificato nelle ultime stagioni fra Inter e Milan. Alcune operazioni potevano magari avere un senso tecnico (vedi lo scambio Seedorf-Coco), altre solo contabile e a sprezzo del ridicolo, come la cessione di Helveg dal Milan all’Inter, seguita nel giro di ventiquattro ore dal prestito dello stesso Helveg dall’Inter al Milan. L’altro meccanismo attraverso cui le società riescono a rifare il trucco ai loro conti dissestati deriva dalla consuetudine di chiudere i bilanci al 30 giugno anziché al 31 dicembre. In questo modo le cessioni dei calciatori vengono registrate prima della fine di giugno e le entrate iscritte subito, mentre gli acquisti, anche se effettuati in precedenza, vengono differiti a luglio e quindi all’esercizio successivo.

Insomma una vera e propria bolla speculativa che però appare destinata a esplodere a breve: come si diceva, per la diminuzione del valore dei giocatori e per l’accumulo degli ammortamenti. Il presidente della Lega calcio, Adriano Galliani, calcola che solo gli scambi (veri o fittizi) dell’ultimo calcio-mercato (considerato stagnante) ammontano a circa 800 milioni di euro, i quali, spalmati mediamente su quattro anni, corrispondono a circa 200 milioni di euro di ammortamenti annui che aggraveranno il conto economico dei prossimi quattro esercizi. Una situazione insostenibile. Tanto che per la prima volta quest’anno una società, il Bologna, ha deliberato, in previsione del crollo delle quotazioni del calcio-mercato, di svalutare il patrimonio giocatori imputando l’operazione interamente all’esercizio, azzerando il capitale sociale e chiamando i soci a ripianare le perdite e ricostituire il capitale. Un’operazione accompagnata dalla decisione di tagliare del 50% gli ingaggi dei nuovi giocatori.

E qui veniamo al punto più dolente, in queste settimane, del sistema calcio. Gli stipendi dei giocatori. Nonostante i lamenti delle società e il dibattito in corso ormai da mesi sulla possibilità di istituire una qualche forma di riduzione collettiva, anche nell’ultima stagione sono aumentati ancora. E non di poco. Del 16%. Arrivando in serie A ad un totale di 905 milioni di euro, con una pazzesca incidenza sul fatturato dell’85%. Per curiosità, delle tre società che hanno l’incidenza maggiore, due sono in lotta per non retrocedere: il Piacenza (157%) e il Torino (107%), e una è in lotta per sopravvivere, la Lazio (107%). In assoluto la società che nel 2001-2002 ha speso di più per gli stipendi ai giocatori è stata l’Inter (oltre 133 milioni di euro), quella che ha speso di meno il Chievo (circa 15 milioni di euro). La società con la minore incidenza degli stupendi sul fatturato è l’Udinese: 54%.

Che fare? L’idea di un taglio collettivo degli stipendi è stata respinta dal sindacato dei calciatori. Mentre i presidenti delle società – in lotta fra loro proprio per ragioni economiche, ma non solo (leggi controllo degli arbitri e della giustizia sportiva) – non riescono a trovare un accordo né sul salary cap, né su un possibile tetto alle «rose» dei giocatori. Sì, perché il problema non è tanto o soltanto quello dei singoli stipendi, quanto quello degli organici iper-gonfiati. È vero che cresce il numero di giocatori con retribuzioni abbondantemente al di sopra del milione e mezzo di euro annui (dovremmo essere circa attorno al 15% della serie A), ma è soprattutto vero che a fare impressione è lo stipendio medio dei giocatori di A (472 secondo l’ultimo Almanacco della Panini): circa un milione e duecentocinquantamila euro lordi annui.

In Europa soltanto l’Inghilterra ha, in Premiership (la loro serie A, che fra l’altro ha due squadre in più), un monte salari paragonabile a quello italiano: 933 milioni di euro nel 2001-2002 (contro 905); e, comunque, in Inghilterra il monte salari è pari al 60% del fatturato, non all’85% come in Italia. Spagna, Germania e Francia non arrivano alla metà. Pagano meno i giocatori e soprattutto pagano meno giocatori. Sempre prendendo come riferimento l’Almanacco Panini, vent’anni fa, quando l’Italia vinse il Mundial spagnolo, i giocatori di serie A erano 303 contro i 472 di oggi (esclusi naturalmente tutti i giocatori Primavera, e cioè i giovani). La Juventus che vinse nel 1982 impiegò in tutto diciotto giocatori (Primavera compresi), quella che ha vinto l’anno scorso ventidue. E Roma e Lazio, vincitrici dei due campionati precedenti, addirittura ventitré. Fra l’altro, questo degli organici gonfiati è un problema che va al di là dell’equilibrio costi-ricavi. Crea scompensi in tutto il sistema. Perché se un Milan o un’Inter hanno «rose» di una trentina di uomini e, a parte i pochi, veri fuoriclasse, tutti più o meno del medesimo, alto livello, è chiaro che sottraggono giocatori al pubblico degli appassionati e titolari alle piccole squadre. Un calciatore come Brocchi che, per fare un esempio di un centrocampista di discrete qualità, nel Milan non va nemmeno in panchina, nel Como o nel Piacenza sarebbe un titolare fisso e quasi insostituibile. Il Di Vaio riserva nella Juventus e il Cassano a mezzo servizio nella Roma sono talenti sottratti al movimento calcistico nazionale: in un sistema più equilibrato sarebbero attori protagonisti e non comprimari dello spettacolo; magari giocando, come sarebbe logico almeno nella fase iniziale della carriera, in squadre di metà classifica.

Risulta pertanto abbastanza chiaro che il problema non sta solamente nei singoli contratti, ma nella massa di stipendi che le società di serie A si sono messe in condizione di pagare. Anche provvedimenti come quello, sacrosanto, di vincolare gli stipendi al merito, mantenendone una parte fissa e una, variabile, legata ai risultati, sarebbero soltanto palliativi. Di fatto, però, non si riesce ad arrivare neppure a questo, se non per iniziativa delle singole società. L’estate scorsa, nell’ambito della trattativa per il rinnovo del contratto collettivo – un anacronismo, così com’è anacronistica la figura giuridica dei calciatori come lavoratori dipendenti – era stato raggiunto un accordo fra Lega professionisti e sindacato giocatori che prevedeva l’abbattimento automatico del 20% degli emolumenti dei calciatori retrocessi in una serie inferiore. Mai ratificato. Non si è ancora capito bene per colpa di chi. Ma neppure questa misura sarebbe sufficiente a risanare il sistema, se non si riduce drasticamente il numero dei giocatori di serie A e B e anche il numero di società professionistiche e semiprofessionistiche. Dalla serie A alla serie C2 ci sono 128 club professionistici, un numero spropositato che non ha eguali in Europa. In Inghilterra ce ne sono 92, ed è un’altra eccezione. Nei Paesi normali ce ne sono una quarantina (42 in Spagna, 41 in Francia e 36 in Germania). E la riforma dei campionati attualmente in discussione ne farebbe scendere il numero a 114, una mini-riduzione beffa, del tutto insufficiente. Senza contare che poi c’è un campionato di serie D con 162 squadre, suddivise in nove gironi, buona parte delle quali opera con budget annuali ben superiori ai cinquecentomila euro. Alla faccia del dilettantismo.

Insomma, sarebbe giusto ridurre gli ingaggi e non sarebbe male se i calciatori fossero più disponibili a qualche «sacrificio», anche se hanno ragione quando dicono che non hanno mai puntato pistole alle tempie dei dirigenti per ottenere quanto hanno ottenuto. Ma sarebbe ancora più giusto ridurre drasticamente il numero degli stipendiati: sono decisamente troppi. Nonostante quel che dice il Cofferati del pallone, l’avvocato Sergio Campana, presidente dell’Associazione calciatori, uomo di sport e di grandi valori etici (rari nel mondo del calcio italiano), ma sindacalista «massimalista». E sarebbe anche interessante conoscere i guadagni dei dirigenti, dopo che si è appreso per caso che, in occasione delle sue dimissioni, Sergio Cragnotti ha ottenuto dal CDA della Lazio una buonuscita, non una remunerazione, di cinquecentomila euro per le sue sole prestazioni «professionali» dal 1 luglio 2002 al 3 gennaio 2003. Evidentemente un premio per aver lasciato un società con circa 250 milioni di euro di debiti. Chissà se negli anni precedenti Cragnotti percepiva dalla Lazio (società quotata in Borsa) emolumenti simili a quelli di Nesta e Crespo.

Ridurre le spese, dunque, è oggi il primo problema del calcio italiano. Ma non è vero che le entrate siano destinate per forza a diminuire o comunque a non crescere in misura significativa nei prossimi anni. Ora tutti sono terrorizzati dalla crisi delle pay-tv. Che esiste e che è internazionale, non solo italiana. Ma che ha delle specificità tutte italiane. Innanzitutto, la pirateria. Si calcola che in Italia, all’aprile dell’anno scorso, ci fossero oltre cinque milioni di parabole e decoder contro meno di tre milioni di abbonati a Stream e Tele+. Secondo una ricerca condotta l’estate scorsa da Italmedia Consulting per RAISAT, specificamente per quanto riguarda il calcio, per ogni 100 abbonati paganti ci sarebbero 166 pirati contro i 19 della Gran Bretagna. Finalmente qualcosa si sta muovendo: nel secondo semestre del 2002, grazie a una nuova smart card tecnicamente più raffinata, Tele+ ha avuto un’impennata di nuovi abbonati. Ora è stata anche approvata la legge contro la pirateria, ma è difficile che abbia gli stessi effetti. Inoltre c’è il monopolio. La fusione fra Stream e Tele+ e la nascita della succursale italiana dell’impero digitale di Rupert Murdoch (Sky Italia) sono ancora in attesa di giudizio europeo, ma tutti danno per scontato che, sia pure con il rispetto di qualche condizione, il via libera sia ormai imminente. E il lavorio per la costruzione di quella che nell’estate scorsa era chiamata la «terza piattaforma» e che domani sarebbe solo la seconda procede, ma fra mille ostacoli.

Ancora, la scarsa dinamicità imprenditoriale sia degli attuale gestori delle televisioni a pagamento, sia, soprattutto, dei dirigenti del calcio. Tutti condizionati anche dal diffuso conservatorismo del mondo del pallone: degli addetti ai lavori, innanzitutto, ma pure di buona parte del pubblico degli appassionati. La caduta del «muro» del fischio d’inizio concomitante di tutte le partite la domenica pomeriggio ha aperto molte ferite, che non si sono del tutto rimarginate ancora oggi. Per favorire le dirette in esclusiva delle pay-tv, in Inghilterra ormai si gioca sabato, domenica e lunedì con orari diversificati: primo e secondo pomeriggio, sera e addirittura mezzogiorno. Anche in Francia, Spagna e Germania giorni e orari sono sfalsati. In Italia molti lo considerano ancora un mezzo dramma. Così come resiste il tabù dell’esclusiva RAI sui diritti in chiaro. È quasi incredibile che le piattaforme digitali non abbiano ancora pensato di partire all’attacco su questo terreno. Sarebbe stato il grimaldello che avrebbe spalancato la porta alla diffusione delle parabole e delle televisioni a pagamento in Italia. Del resto, i diritti in chiaro della Premiership la BBC ormai da anni se li sogna, anche gli highlights sono riservati a BSkyB. E, ultima aggravante della crisi delle pay-tv italiane, va registrata una carenza di innovazioni di prodotto (lo spettacolo che precede e segue le partite e il modo di proporre la partita medesima) e di innovazioni nelle regole (play-off e play-out, utilizzo delle tecnologie in supporto agli arbitri) che aumenterebbero l’interesse del pubblico e quindi il valore dei diritti.

Poi c’è un’ulteriore specificità italiana che ha arrestato la crescita delle entrate televisive delle società calcistiche e che ha portato, all’inizio di questa stagione, alla clamorosa «serrata» delle piccole società che fece slittare l’avvio del campionato: è la legge, approvata all’epoca del governo dell’Ulivo, che stabilisce la «soggettività» dei diritti televisivi. Praticamente ovunque in Europa sono le Leghe a essere titolari della cessione dei diritti collettivi con successiva redistribuzione delle risorse sulla base di parametri diversi (in Inghilterra, ad esempio, c’è una quota uguale per tutti, una stabilita dalla classifica finale del campionato e una che premia i club che hanno più passaggi televisivi, insomma i più popolari). La «soggettività» italiana ha avuto invece come conseguenza l’azzeramento del potere contrattuale dei club minori e quindi l’allargamento della forbice fra grandi e piccole squadre con evidenti ripercussioni sull’interesse e la spettacolarità dell’intero campionato. Ripercussioni che si aggiungono a quelle di cui si diceva a proposito dell’allargamento delle «rose». Tanto che oggi in nessun campionato europeo come in quello italiano c’è tanto distacco fra la prima e l’ultima in classifica e soprattutto tanta differenza fra la somma dei punti delle prime cinque e quella delle ultime cinque.

Non è per nulla scontato, insomma, che la crescita dei proventi televisivi si debba fermare per forza, ma è vero che oggi, solo in Italia hanno una così grande incidenza sulle entrate delle società. Gli ultimi dati disponibili (rapporto Deloitte&Touche sul calcio italiano, stagione 2000-2001) fissano tale incidenza al 53,7% contro il 51% della Spagna e della Francia, il 45% della Germania e soprattutto il 39% dell’Inghilterra. E ancora peggio sta l’Italia se si considera l’incidenza degli incassi negli stadi sul totale delle entrate: la miseria del 16% contro il 25% della Spagna e il 31% dell’Inghilterra, che ha stadi non grandissimi, ma sempre pieni e prezzi dei biglietti piuttosto elevati.

E qui veniamo a un’altra debolezza strutturale del calcio italiano. Gli stadi. Il loro utilizzo e il loro riempimento. Negli ultimi dieci anni il numero degli spettatori è calato del 10%, anche se il girone di andata dell’attuale campionato ha fatto registrare una prima piccola inversione di tendenza, figlia di un lieve ma sensibile miglioramento della qualità del gioco offerto, con un aumento dei paganti di poco meno del 2% e degli incassi di poco più del 4,5%. Come media-spettatori alle partite di prima divisione l’Italia, nella scorsa stagione, era al quarto posto in Europa con 26.434 presenti a partita. Poco sotto la Francia e poco sopra la Spagna, ma a distanza ragguardevole dalla Germania (28.920) e soprattutto dall’Inghilterra, nettamente prima con 34.441. Soprattutto spaventosa è la differenza del tasso di riempimento degli impianti: in Inghilterra è del 94%, in Francia e Germania oscilla attorno al 75%, in Spagna è al 70% e in Italia soltanto al 54%. Gli stadi italiani sono enormi, scomodi, poco funzionali, mal gestiti e spesso quasi irraggiungibili. Sono quasi sempre mezzi vuoti nonostante i prezzi siano ragionevoli. Per una partita casalinga del Milan un posto «popolare» può costare anche solo dodici euro, per una dell’Arsenal non c’è niente a meno di ventidue sterline. Le infrastrutture italiane sono medioevali, specialmente servizi igienici e parcheggi. La manutenzione dei campi è da «codice penale». Il prato (si fa per dire) di San Siro ha fatto più vittime della violenza degli ultrà. Una domenica allo stadio spesso è un esercizio di puro masochismo: bisogna uscire di casa, prendere la macchina, attraversare la città nel traffico, cercare disperatamente un parcheggio, comprare un biglietto comunque caro, entrare nello stadio a rischio della propria incolumità, vedere malissimo spesso brutte partite e stando attenti a non essere colpiti da oggetti o liquidi vaganti, uscire dallo stadio rischiando di nuovo la propria incolumità, cercare la macchina, trovare la multa sul parabrezza, restare per almeno un’ora imbottigliati nel traffico, tornare a casa e non trovare più parcheggio. Naturale quindi che la possibilità di vedere la diretta in pay-tv e magari anche con una carta pirata abbia sottratto recentemente molti appassionati a questa tortura.

Un sistema che non potrà cambiare finché gli stadi saranno di proprietà dello Stato o degli enti locali. Altra anomalia italiana. Gli stadi di proprietà darebbero alle squadre consistenza patrimoniale e nuove fonti di reddito. Così sono totem inutilizzabili. Non è un caso che la Juventus – unica società italiana al momento gestita in modo assolutamente manageriale (anche il Milan ha strutture solide, ma bilanci molto meno rassicuranti il giorno in cui Berlusconi si tirasse indietro) – stia lavorando con grande lena a un progetto di privatizzazione e ristrutturazione globale del Delle Alpi. Ecco, se c’è un aiuto che lo Stato oggi potrebbe dare al calcio dissestato è favorire l’elaborazione di una grande piano di privatizzazione e manutenzione straordinaria degli impianti, coinvolgendo società, Comuni, progettisti, costruttori, naturalmente l’Istituto per il credito sportivo, ma anche altre banche che oggi trafficano comunque con il pallone a tutela di interessi più ambigui (particolarmente allarmante il ruolo, nella vicenda Lazio, di Capitalia, l’istituto guidato da Cesare Geronzi – le cui figlie hanno interessi nel mondo del calcio – attraverso il coinvolgimento di Medio Credito Centrale, presieduto da Franco Carraro che è anche presidente di Federcalcio).

La possibilità di un utilizzo all’inglese degli impianti porterebbe contemporaneamente benefici di carattere sia sociale sia economico. Sarebbe un deterrente contro la violenza, un modo per riportare le famiglie allo stadio e magari non solo la domenica: ristoranti sempre aperti, mostre, esposizioni, centri commerciali, spettacoli e così via. Con grande giovamento per le casse dei club. Anche nel settore delle sponsorizzazioni e, soprattutto, del merchandising, il calcio italiano è molto in ritardo rispetto a quello inglese: 13% contro 30% del fatturato. Non è un caso che il Manchester United, uno dei club più «venduti» nel mondo, abbia chiuso la stagione 2001-2002 con un utile record di oltre 48 milioni di euro, nonostante non abbia vinto nessun trofeo. Il Manchester United, come tutti i principali club inglesi, è quotato in Borsa, ma, secondo gli analisti, non è questo a fare la differenza. Anzi, la quotazione delle squadre italiane (in ordine Lazio, Roma e Juventus) non ha portato benefici economici di rilievo, anche se, curiosamente, tutte e tre le squadre hanno vinto il campionato proprio nell’anno del collocamento. E, tralasciando in questa sede per la sua complessità il tema della quotazione dei club calcistici (evidente comunque l’eccessiva volatilità dei titoli e il relativo scarso interesse degli operatori professionali), proprio la singolare «coincidenza» fra ingresso a Piazza Affari e conquista dello scudetto riporta alla grande questione, anche economica, della credibilità del calcio italiano e dei suoi dirigenti. Credibilità che mai è stata bassa come in questi mesi. Gli appassionati danno segni di insofferenza: troppe le ingiustizie e i conflitti d’interesse. Grandi interrogativi hanno sollevato prima il fallimento della Fiorentina e la sua retrocessione in C2 e poi l’ammissione alla serie A di una società, la Lazio, che i fatti hanno dimostrato essere messa peggio della Fiorentina. Interrogativi amplificati dal ruolo ambiguo di Franco Carraro, presidente di Federcalcio, l’organo che ratifica le iscrizioni ai campionati, e presidente di un istituto bancario (Medio Credito Centrale) azionista e creditore della Lazio. E altri dubbi sono stati suscitati dal ruolo di Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan di Berlusconi e presidente della Lega calcio, e dalle vicende complesse che nella scorsa estate hanno portato il laziale Nesta a vestire proprio la maglia del Milan. Curioso il fatto, che dopo sedici giornate di campionato, Milan e Lazio fossero le uniche due squadre a non avere subito rigori contro.

Insomma, oltre a essere mal gestito e a ritrovarsi in una condizione spesso pre-fallimentare, il calcio italiano paga anche il prezzo di uno scarsissimo appeal. Fra violenze, sospetti e veleni intestini, il pericolo è che non venga adottata autonomamente nessuna delle misure necessarie per modificare questa situazione. Siamo di fronte a una preoccupante paralisi d’iniziativa sia dal lato della riduzione delle spese (come detto: taglio degli stipendi di giocatori e dirigenti e soprattutto tetti alle «rose»), sia dal lato dell’aumento delle entrate (privatizzazione e sfruttamento degli stadi, nuova gestione dei diritti televisivi, sviluppo del merchandising, studio delle effettive potenzialità dei new media: internet, UMTS e così via). Probabilmente ci vorrebbe una guida esterna. Un’Authority del pallone o, più semplicemente, un gran commissioner, di accertata competenza e autonomia, sul modello della NBA, la lega del basket professionistico USA. Naturalmente non scelto dall’assemblea delle società: non troverebbero mai accordo sul nome. E forse bisognerebbe pensare a una Federcalcio all’interno della quale, dopo le rappresentanze dei tecnici e degli atleti, vengano ammesse anche le rappresentanze dei consumatori, degli appassionati. Per una maggiore trasparenza di conti e bilanci e un maggiore controllo democratico che garantisca la regolarità dei campionati al di là degli intrecci proprietari e degli affari di famiglia.