Cos'è davvero la devolution britannica?

Di Davide Gianluca Bianchi Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

Da anni ormai, in Italia, si registra un pronunciato interesse per il tema devolutivo, senza che lo stesso sia riuscito tuttavia a penetrare in misura adeguata l’ambito scientifico. Il fatto che l’argomento sia stato tematizzato prevalentemente dalla classe politica e dalla stampa quotidiana, e in termini meno percepibili dalla comunità scientifica, mette il ricercatore di fronte a non poche difficoltà: da un lato, le indagini positive sul tema rischiano di essere gravate dal sospetto di strumentalizzazione rispetto all’attualità politica italiana, dall’altro, nel momento in cui si parla di devolution, si deve fatalmente fare i conti con il significato «vergato» dai media e diffuso presso l’opinione pubblica dando conto del dibattito politico in corso nel nostro paese.

 

Devolution is a process, not an event

Ron Davies (1997)

 

Da anni ormai, in Italia, si registra un pronunciato interesse per il tema devolutivo, senza che lo stesso sia riuscito tuttavia a penetrare in misura adeguata l’ambito scientifico. Il fatto che l’argomento sia stato tematizzato prevalentemente dalla classe politica e dalla stampa quotidiana, e in termini meno percepibili dalla comunità scientifica, mette il ricercatore di fronte a non poche difficoltà: da un lato, le indagini positive sul tema rischiano di essere gravate dal sospetto di strumentalizzazione rispetto all’attualità politica italiana, dall’altro, nel momento in cui si parla di devolution, si deve fatalmente fare i conti con il significato «vergato» dai media e diffuso presso l’opinione pubblica dando conto del dibattito politico in corso nel nostro paese. Oltre alla questione del grado d’accuratezza di una nozione di fonte giornalistica, il vero paradosso è costituito dal fatto che nel dibattito politico italiano si usa sempre più spesso il termine devolution, ma si parla assai raramente, e il più delle volte in termini troppo sommari ed imprecisi (se non proprio inesatti…), della devolution britannica. Per queste ragioni, si sconta una profonda ambiguità in ordine non solo alla fisionomia concettuale, ma addirittura alla questione decisiva della paternità culturale e delle responsabilità politiche delle riforme devolutive in seno al sistema politico britannico.

 

Il concetto di devolution

Per una circostanza particolarmente fortunata, la terza lettura alla Camera dei Comuni dell’ultimo Scotland Bill ha coinciso con la ricorrenza del centenario della morte di William Ewart Gladstone (1809-1898), statista e uomo politico liberale che nell’ultimo quarto del XIX secolo profuse grandi sforzi per individuare un compromesso di alto profilo in grado di comporre la questione irlandese. È significativo che il suo progetto fallì in ordine agli obiettivi immediati, ma finì per introdurre nella vita politica e istituzionale britannica l’idea dell’autonomia e dell’autogoverno delle componenti nazionali che costituiscono, insieme all’Inghilterra, il Regno Unito. Infatti, soltanto a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento è possibile parlare propriamente di devolution, riconoscendo nell’Home Rule gladstoniana l’archetipo del decentramento britannico. Nel Law Dictionary di De Franchis, la devoluzione è descritta come il «trasferimento in genere (...); in un altro senso (devolution of government) esso indica il regionalismo, ossia il decentramento di taluni poteri legislativi ed esecutivi dagli organi centrali alle varie regioni della Gran Bretagna».1 Un’ottima monografia giuridica apparsa nel 2000 ad opera di uno studioso scozzese riporta, invece, questa nozione: «Devolution essenzialmente significa il trasferimento, e di conseguenza la ripartizione di poteri (sharing of powers) fra istituzioni di governo all’interno di una cornice definita (limited framework) posta dalla legislazione».2 Vernor Bogdanor, il suo maggior studioso britannico, ha sostenuto che: «La devolution comporta il trasferimento di poteri da un’autorità politica superiore ad una inferiore. Più precisamente, la devolution può essere definita dalla compresenza di tre elementi: il trasferimento ad un corpo elettivo subordinato (subordinate elected body), su di una base geografica, di funzioni al momento esercitate da ministri e parlamento. Queste funzioni possono essere legislative (...) oppure esecutive (...)».3

Quindi, la devolution è essenzialmente un metodo; in altre parole, non è possibile individuare dei contenuti minimali atti a identificare un ordinamento politico, ovvero a caratterizzarlo, in termini devoluti o devolutivi. La devolution, più che una struttura oggettivabile oppure un assetto statuale, è un processo politico che ha luogo in una comunità soggetta a sollecitazioni centrifughe: ciò che ha in comune con il federalismo si limita a questo. Più precisamente, sotto il profilo genealogico presenta delle analogie con il federalismo «per dissociazione o differenziazione », vale a dire con quel tipo di federalismo – caratteristico dell’Europa del secondo dopoguerra, si pensi al Belgio oppure alla Spagna – che si innesta nell’impianto di uno Stato centralizzato dando luogo a un riordino autonomistico degli equilibri di potere politici e istituzionali (ex uno plures); fattispecie questa che ampiamente differisce dal federalismo classico «per aggregazione», cioè quella dinamica che porta distinti soggetti sovrani ad unirsi e a costituire un comune governo federale (ex pluribus unum) al quale attribuire specifiche e limitate competenze (gli esempi classici sono rappresentati dalla Conferazione Elvetica e dagli Stati Uniti d’America).

Ma al di là di queste annotazioni, è opportuno ribadire che la devolution non incarna, di per sé, una variante del federalismo: pur non escludendolo a priori, essa rappresenta precipuamente una modalità di decentramento di poteri e funzioni da un centro politico – che conserva formalmente il suo primato dottrinario – a neo-costituite istituzioni rappresentative ed esponenziali di comunità storiche con spiccate identità culturali. Come è stato osservato criticamente da parte di un’autorevole dirigente del Plaid Cymru, il partito nazionalista gallese: «La nozione di devolution fa assegnamento sull’esistenza di un organo centrale titolare dell’autorità politica e tutore (controlling) del potere politico. Il processo di trasferimento del potere dall’alto di questa unità centrale assume legittimità solo se l’organo amministrativo viene anch’esso riconosciuto come legittimo (...) la fonte legittima ed il tutore (controller) del potere politico è il parlamento di Westminster; si potrebbe sostenere che ciò sia un’eredità della nozione à la Dicey di sovranità parlamentare (...) Sposare questa concezione del decentramento di potere implica una tacita accettazione della normalità della concentrazione del potere politico (...)».4

Dal brano citato emerge il dato rilevante dell’unilateralità del processo di decentramento, in quanto la dinamica che lo presiede muove invariabilmente dall’alto in basso, da un parlamento supremo a delle istituzioni da esso costituite e ad esso formalmente subordinate. Si noti un dato squisitamente lessicale: volendo tradurre etimologicamente il termine devolution si sarebbe costretti ad optare per «devoluzione/devolvere» che nel linguaggio giuscivilistico significa regalia, atto di liberalità; in altre parole, l’etimologia del lemma segnala un carattere strutturale che addirittura riporta la memoria alla dottrina delle carte octroyée del secolo XIX! La devolution è un prodotto dottrinario della cultura istituzionale britannica e in tale contesto deve essere situata e visitata. Come noto, la dottrina dello Stato di matrice anglosassone presenta delle notevoli discrepanze strutturali rispetto all’omologa dottrina «continentale».5 Lo Stato britannico non risulta dotato di personalità giuridica (che è attribuita invece a ciascuna delle tre «istituzioni» titolari delle grandi funzioni dello Stato: il King in Parliament, il King in Council, il King in His Court); non si ha costituzione scritta e l’ordinamento giuridico di common law è eterogeneamente composto non solo di elementi positivi (Acts of Parliament e Statutes, questi ultimi inerenti alla materia costituzionale) ma anche dalle presunte consuetudini cristallizzate dai precedenti giurisprudenziali; l’intera funzione normativa, compresa quella regolamentare, è in genere formalmente attribuita al parlamento, o meglio al King in Parliament. Inoltre, si deve tenere conto della particolare posizione costituzionale del governo locale: «Nel Regno Unito le collettività locali godono da sempre di self-government, che non corrisponde tuttavia ad una condizione di autonomia costituzionale – cioè di distinzione e di (relativa) indipendenza dallo Stato-apparato – degli enti in cui esse si organizzano: questi sono parte, insieme al governo nazionale e agli enti pubblici non territoriali, dell’unica amministrazione statale (the executive) e svolgono funzioni statali in ambito locale. Le loro competenze non rientrano in una sfera esclusiva o garantita di attribuzioni, che non sia liberamente avocabile dallo Stato centrale, e non sono generali, ma dettagliatamente previste dalla normativa nazionale vigente; inoltre, sono generalmente tassative, nel senso che non solo agli enti locali spettano esclusivamente le funzioni attribuite dalla legge, ma che, di norma, essi sono obbligati ad assolverle compiutamente. Una simile forma di organizzazione accentrata è temperata dalla circostanza che i titolari degli organi locali sono eletti dai cittadini della loro circoscrizione».6 Alla luce di questa annotazione è evidente che la devolution stessa assume una fisionomia e un rilievo del tutto specifici, essendo tesa a coniugare due principi apparentemente in conflitto come l’incontrastata sovranità del parlamento di Westminster e la garanzia dell’autogoverno delle componenti nazionali minoritarie del Regno Unito,7 in una cornice dottrinaria che non contempla un’autentica articolazione istituzionale del potere politico lungo la dimensione territoriale.

In altre parole, tutta l’architettura dottrinaria dello Stato britannico fa sponda sulla centralità dell’assemblea di Westminster che, da tutti gli autori britannici, viene posta mediante la nozione della «sovranità o supremazia del parlamento», concetto cardine e principale acquis della Gloriosa Rivoluzione – dottrinariamente «canonizzata», com’è noto, dai «Due trattati sul governo» di John Locke.8 Lo stesso principio politicoistituzionale ha trovato poi definitiva sanzione dottrinaria e costituzionale ad opera della generazione dei giuristi tardo-vittoriani, il cui più importante esponente è stato Albert Venn Dicey (1835-1922).9 Il risultato netto di questo passaggio è stato che il parlamento inglese, da allora, sussume in sé, come tutti gli organi legislativi, il potere costituito ma ad esso, in ragione di questa genesi storica, somma il potere costituente, vale a dire il potere di incidere, attraverso gli stessi strumenti normativi, sull’architettura istituzionale del sistema politico. È quasi inutile mettere in chiaro che questa fattispecie è una specificità tutta britannica, che non ha riscontro nella tradizione politica e costituzionale tributaria dell’esperienza rivoluzionaria francese.

 

I partiti britannici di fronte al tema dell’autonomia

La storia inglese è stata, ed è, anche una lunga disputa fra concezioni alternative della società e della politica incarnate da formazioni e movimenti politici che nel linguaggio moderno chiameremmo partiti. Non casualmente si deve a Edmund Burke (1729-1797) quella che probabilmente è la prima nozione consapevole e moderna di partito politico: «Il partito è un complesso di uomini che, per promuovere con i loro sforzi comuni l’interesse nazionale, si uniscono in base ad un principio particolare sul quale sono tutti concordi».10 Da allora le proposte di riforma costituzionale, in genere, provengono dai partiti nel loro ruolo di vettori di culture politiche alternative, anche in ragione del fatto non secondario che, come si è visto, il parlamento di Westminster, in ogni momento della sua attività, è allo stesso titolo depositario del potere costituito e del potere costituente. Tuttavia, delle contrapposizioni frontali di seicentesca memoria è rimasta soltanto la struttura a scranni contrapposti del parlamento di Westminster e un sistema elettorale che costantemente riduce il panorama politico a non più di due significative ed incidenti presenze partitiche: nel Settecento e nell’Ottocento Whigs e Tories, nel Novecento conservatori e laburisti. La parte Whig, cioè il partito parlamentare del XVII secolo, ha avuto il fondamentale merito di sconfiggere il partito assolutistico organizzato intorno alla Corona e di porsi come antesignano dei moderni principi liberali, sia sul terreno dottrinario che su quello più squisitamente istituzionale. Come si è visto in esordio, in anni a noi più vicini il Liberal Party, erede di questa tradizione e quasi a voler reiterare il proprio ruolo di formazione dotata di spiccata sensibilità istituzionale, è stato l’incubatore partitico dell’idea di devolution. Se il Conservative Party esprime tutto l’orgoglio e lo sciovinismo inglesi e risulta per sua costituzione incapace d’immaginare forme d’autonomia politica che, a suo avviso, non sarebbero altro che l’anticamera della dissoluzione del Regno Unito, il Labour Party tende a vedere nell’autogoverno di Scozia Galles e Irlanda del Nord (specialmente se ciò implica potestà impositiva e propria capacità di spesa) non soltanto un vulnus ai principi perequativi di standardizzazione dei diritti sociali, ma anche l’impossibilità tecnica di impostare una politica economica coerente a livello nazionale secondo quelli che sono i dettami delle dottrine keynesiane.11

In ogni caso, le vocazioni attitudinali dei partiti non devono essere assolutizzate e, a questo proposito, non mancano esempi di duttilità politica: dalla fine degli anni Settanta la devolution è stata costantemente presente nei programmi del Labour ed è stato un premier laburista di origini scozzesi, Tony Blair, a realizzarla concretamente, soprattutto in ragione della consapevolezza che senza solide maggioranze elettorali in Scozia e Galles – sempre più insidiate dall’esistenza di partiti nazionalisti – difficilmente il Labour sarebbe riuscito di nuovo a guadagnare il governo del paese. In altre parole, era ormai emerso in modo evidente che la frammentazione partitica – oggi esistono non solo partiti nazionalisti in Scozia e Galles, ma anche il Liberal-democratic Party nato dalla fusione dei vecchi liberali con alcuni fuoriusciti dal Labour che, in un primo momento, avevano dato vita al Social-democratic Party – finiva più che altro per danneggiare i socialisti nel momento in cui essi non rimanevano l’unica alternativa al voto conservatore.

Al di fuori dello schema bipartitico si trovano lo Scottish National Party e il Plaid Cymru, il primo fondato nel 1934 da uno studente laburista, John MacCormick, il secondo nato nel 1925 e subito guidato, per oltre un decennio, da uno straordinario intellettuale di nome Saunders Lewis (1893-1986). Mentre il partito scozzese da subito si attestò su posizioni favorevoli alla Home Rule scozzese e molto più tardi, intorno alla fine degli anni Settanta, è divenuto indipendentista, quello gallese si eresse immediatamente a paladino della declinante lingua gallese e soltanto negli anni Sessanta registrò quel conflitto generazionale interno che portò alla modernizzazione della propria dottrina.12 Oggi ormai le posizioni del Plaid risultano essere alquanto articolate: dopo aver superato la fase in cui si proponeva principalmente di dare rappresentanza ai gallesi gallofoni della parte nord occidentale del principato, il partito nazionalista gallese oggi coniuga i valori che sono propri di alcuni filoni minoritari del socialismo britannico con gli elementi più vitali della cultura federalistica.13

 

Duttilità e asimmetricità dello strumento devolutivo

Precisate le diverse vocazioni dei partiti britannici di fronte al valore dell’autonomia, bisogna riportare l’attenzione ancora una volta sulla spiccata ecletticità e sulla sostanziale indefinibilità contenutistica della devolution. Assodato che si tratta di un trasferimento di competenze dal parlamento del potere centrale ad altre istanze istituzionali periferiche e rappresentative di comunità sub-nazionali, la devolution, così come si manifesta nell’esperienza britannica contemporanea, si presta a sostanziare degli assetti consensuali e consociativi congegnanti per la pacificazione dell’Irlanda del Nord in una complessa cornice di mediazioni e di accordi internazionali; così come può essere lo strumento costituzionalistico che ridefinisce i termini dell’Unione anglo-scozzese del 1707; può dare luogo ad un’originale forma d’autonomia che investe solo la sfera esecutiva, come è avvenuto in Galles, e può del pari ricostituire le istituzioni dell’autogoverno amministrativo della capitale londinese dopo la perentoria soppressione ad opera dei governi conservatori; può infine introdurre forme di regionalizzazione nel governo e nella gestione del territorio inglese, così come sta avvenendo in questi ultimi anni, senza che sia possibile ancora prevedere l’esito finale di tale processo.14

 

Neolaburismo e devolution

Le ragioni politiche per cui il Labour Party – a partire dalla fine degli anni Settanta, e con successo sotto la direzione di Tony Blair – ha scelto di promuovere la devolution sono fondamentalmente di due specie. In primo luogo esiste un’esigenza di carattere elettorale: come sanno gli studiosi del sistema politico britannico, «i conservatori vincono le elezioni in Inghilterra e i laburisti in Scozia e Galles», nel senso che senza un forte bottino di voti in queste due regioni, i laburisti ben difficilmente potrebbero garantirsi una maggioranza alla Camera dei Comuni, atteso il forte consenso conservatore in Inghilterra. Di conseguenza, l’ascesa elettorale dei partiti nazionalisti in Scozia e Galles, pur senza consentire agli stessi una significativa presenza politica a Westminster, rischierebbe di confinare il Labour Party permanentemente all’opposizione. In questi termini, la devolution si pone come uno strumento per la battaglia del consenso nelle regioni più fortemente caratterizzate da una propria identità nazionale distinta da quella inglese, dal punto di vista del Labour a discapito dei conservatori e soprattutto dei partiti nazionalisti locali.15 Vi è poi, da parte del New Labour, la volontà di modernizzare profondamente il sistema politico e istituzionale britannico per adeguarlo alla globalizzazione, e tale orientamento è uno degli elementi più qualificanti dalla nuova offerta politica laburista.16 A fronte di due decenni d’immobilismo conservatore, il New Labour, fra le altre cose, ha inteso spostare il baricentro del confronto politico dalle ricette sociali ed economiche – proprie della stagione della class politics – al terreno istituzionale, sicuro di trovare impreparato il Conservative. Questo importante passaggio ha sostanziato un sensibile avvicinamento alla tradizione liberale e radicale che, sul fronte progressista, ha storicamente preceduto la nascita del Labour: abbandonata l’etichetta di partito della working class e fatti propri i presupposti individualistici della cultura radicale (si pensi al concetto di stakeholder society su cui tanto hanno insistito sia Giddens che Blair),17 il Labour non ha potuto evitare di recepire le stesse sollecitazioni autonomistiche che sono iscritte nella storia e nelle dottrine di tali tradizioni politiche.18 A tale proposito non è casuale che la maggioranza di governo, sia all’interno del parlamento scozzese che dell’Assemblea gallese insediati dalle prime elezioni post-devolutive del 1999, sia retta da un patto politico locale fra i laburisti e i liberali, con i partiti nazionalisti all’opposizione insieme ai conservatori, e ciò a conferma – contrariamente alla sensazione che si potrebbe trarre seguendo il nostro dibattito politico – dell’estraneità alla devolution, politica e culturale, dei nazionalisti dello Scottish National Party e del Plaid Cymru.

Del resto, si è già posto in evidenza il tributo che la devolution paga all’ortodossia costituzionale inglese, e si deve aggiungere il rilievo, non certo marginale, che è nei poteri del parlamento di Westminster revocarla in ogni momento, proprio in virtù della potestà costituente di cui rimane depositario in via esclusiva. A ben vedere, quindi, la prova di tenuta di questo congegno istituzionale sarà fornita dall’operatività del sistema politico nel momento in cui a Londra, Edimburgo e Cardiff – la realtà dell’Irlanda del Nord, come sempre, deve essere situata a margine – si avranno maggioranze politiche di colore diverso.

 

 

Bibliografia

1 Lemma «Devolution» in F. De Franchis, Dizionario giuridico - Law Dictionary, vol. I, Giuffrè, Milano 1984.

2 N. Burrows, Devolution, Sweet and Maxwell, London 2000, p. 1.

3 V. Bogdanor, Devolution in the United Kingdom, Oxford University Press, Oxford 1999 (II ed.),  pp. 2-3.

4 L. Mc Allister, Community in Ideology: the Political Philosophy of Plaid Cymru, University of Wales, Cardiff 1995, p. 274.

5 G. Balladore Pallieri, Dottrina dello Stato, Cedam, Padova 1964 (II ed.); A. Passerin d’Entreves, La dottrina dello Stato. Elementi di analisi e di interpretazione, Giappichelli, Torino 1967.

6 S. Troilo, Gran Bretagna, in Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica, Il governo localein Francia, Gran Bretagna, Germania, Giuffrè, Milano 1998, p. 216.

7 V. Bogdanor, op. cit., p. 1.

8 J. Locke, I due trattati sul governo (1690) e altri scritti politici, UTET, Torino 1982.

9 A.V. Dicey, Introduction to the Study of Law of the Constitution (1886 I ed.), Macmillan, London1959; cfr. anche A. Torre, Interpretare la costituzione britannica. Itinerari a confronto, Giappichelli, Torino 1997.

10 E. Burke, Thoughts on the Cause of the Present Discontents (1770) citato in G. Sabine, Storia delle dottrine politiche (1937), EtasLibri, Milano 1998, p. 469.

11 In Scozia le sezioni autonome dei due principali partiti si chiamano oggi Labour Party’s Scottish Council e Scottish Consevative, mentre in Galles la formazione più forte è sempre stata il Welsh Council of Labour, radicatissimo nelle contee industrializzate della parte meridionale del Principato; già in questi elementi largamente si riflettono la diversa morfologia e genealogia dei due partiti: cfr. A. Panebianco, Modelli di partito. Organizzazione e potere nei partiti politici, Il Mulino, Bologna 1982 (in particolare la parte seconda).

12 I pensatori politici che più hanno condizionato la nuova leva dei nazionalisti gallesi sono stati L. Kohr, The Breakdown of Nations, Routledge & Kegan Paul, London 1957 e F. Schumacher, Small is Beautiful, Abacus Editon, London 1974.

13 G.D.H. Cole, «Il socialismo in Gran Bretagna prima del Partito Laburista», in Storia del pensiero socialista dal 1789 al 1940, Laterza, Roma-Bari 1967-1968 (vol. III - tomo I); L. Mac Allister, op. cit.

14 Cfr. R. Hazell (a cura di), The State and the Nations: The First Year of Devolution in the United Kingdom, Imprint Academic (The Constitution Unit), London 2000; A. Trench (a cura di), The State of the Nations: the Second Year of Devolution in the United Kingdom, Imprint Academic (School of Public Policy – The Constitution Unit), London 2001; R. Hazell (a cura di), The State and the Nations 2003: The Third Year of Devolution in the United Kingdom, Imprint Academic, London 2003.

15 Queste considerazioni sono largamente confermate dai risultati elettorali del 1997 e del 2001: nelle prime elezioni i conservatori non hanno vinto neppure un seggio nei collegi uninominali scozzesi e gallesi (nel complesso oltre 110 seggi), tendenza pressoché confermata nelle più recenti elezioni.

16 R. Hazell (a cura di), Constitutional Future: a History of the next Ten Years, Oxford University Press, Oxford 1999.

17 T. Blair, Il nuovo Labour, Reset, Milano 1997; A. Giddens, La Terza Via (1998), prefazione di R. Prodi, Il Saggiatore, Milano 1999.

18 G. Maccoby, English Radicalism, Allen, London 1955-1961 vol. 5; G. De Ruggero, Storia del liberalismo europeo, prefazione di R. Romeo, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 97 e ss.