I danni del bipolarismo sindacale, il valore dell'autonomia

Di Antonio Panzeri Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

In questa fase di transizione, che ha visto modificarsi in profondità tutto il panorama politico e istituzionale, anche il sindacato è messo in gioco e ha bisogno di ridefinire il suo ruolo e la sua prospettiva. In un mondo che cambia velocemente, il sindacato non è al riparo e non può solo affidarsi alla sua tradizione, alla sua consolidata forza organizzativa. Se cambia il contesto politico e sociale significa che si aprono anche per noi essenziali problemi di strategia, che dobbiamo – in altre parole – realizzare un’operazione complessa di riposizionamento, per essere non solo una forza di resistenza, chiusa nelle sue vecchie trincee, ma uno dei protagonisti che concorrono, nella dialettica sociale, a disegnare i nuovi equilibri del paese.

 

In questa fase di transizione, che ha visto modificarsi in profondità tutto il panorama politico e istituzionale, anche il sindacato è messo in gioco e ha bisogno di ridefinire il suo ruolo e la sua prospettiva. In un mondo che cambia velocemente, il sindacato non è al riparo e non può solo affidarsi alla sua tradizione, alla sua consolidata forza organizzativa. Se cambia il contesto politico e sociale significa che si aprono anche per noi essenziali problemi di strategia, che dobbiamo – in altre parole – realizzare un’operazione complessa di riposizionamento, per essere non solo una forza di resistenza, chiusa nelle sue vecchie trincee, ma uno dei protagonisti che concorrono, nella dialettica sociale, a disegnare i nuovi equilibri del paese. È per questo che è utile ragionare su alcune parole-chiave (autonomia, unità, rappresentanza, democrazia) per cercare di reinterpretarle nella nuova situazione, perché non siano parole morte e ormai solo rituali, che non hanno più nessuna presa sulla realtà.

Le parole si logorano nel tempo, e rischiano di decadere a medi orpelli retorici. Oggi dobbiamo quindi interrogarci sulla loro verità, sul loro significato attuale. Nella storia della CGIL, si è via via approfondito e affinato il principio dell’autonomia sindacale, il quale si fonda in ultima istanza sul fatto che la dinamica sociale non è mai una semplice riproduzione della dinamica politica, che i due piani si incrociano, ma non si sovrappongono, che c’è dunque una irriducibilità del dato sociale. L’autonomia non è, in questa chiave, estraneità dal quadro politico, o pretesa di assoluta autosufficienza, ma è la capacità di interagire con il contesto politico, di essere un elemento permanente di stimolo e di sfida, per imporre alla politica una diversa agenda delle priorità. Si può viceversa intendere l’autonomia in un modo passivo e subalterno, poiché il sindacato si ritaglia un suo delimitato ambito di competenza, di tipo corporativo, lasciando che la politica sviluppi senza interferenze la sua funzione generale. A conferma della necessità di chiarificare il senso delle parole che usiamo, appare qui evidente come la stessa parola – autonomia – possa essere usata in funzione di prospettive del tutto diverse.

Questa duplice interpretazione (autonomia passiva o autonomia dinamica, indifferenza alla politica o rapporto critico e conflittuale con la politica) attraversa tutta la storia delle grandi confederazioni sindacali, con un andamento alterno e con diverse fasi, in ciascuna confederazione, di vitalità o di ripiegamento. Non c’è, su questo punto, una diversità di principio, concettuale, ma un diverso modo di interpretare i singoli passaggi della vicenda politica. Venendo all’attualità, il nodo dell’autonomia si presenta come un passaggio ancora sostanzialmente irrisolto: o perché, di fronte al nuovo quadro politico, ci si limiti ad occupare i pochi spazi residui di contrattazione, senza mettere in discussione il modello sociale dominante, o perché, viceversa, si introduce nell’azione sindacale una logica politica, facendo del sindacato non più uno strumento di negoziazione sociale, ma di mobilizzazione per una alternativa di governo. Nel momento in cui il governo brucia tutto lo spazio di una politica di concertazione e relega il sindacato in una posizione del tutto marginale, non riconoscendogli la dignità di un interlocutore politico, prendono obiettivamente corpo sia le spinte corporative sia quelle massimalistiche. Le divisioni attuali tra le confederazioni sindacali sono dunque l’effetto di una difficoltà oggettiva, di uno spiazzamento, dovendo rispondere ad una offensiva politica che restringe il nostro campo di azione. Non si tratta affatto di una diversa e opposta collocazione di campo: un sindacato di opposizione e un sindacato governativo.

Una tale interpretazione sarebbe del tutto fuorviante. Si tratta piuttosto del fatto che, di fronte all’offensiva politica della destra, diventa per tutti più difficile tenere saldo il campo di una pratica di autonomia sociale, e si presentano allora più praticabili, in alternativa, delle vie di fuga, verso una posizione di difesa corporativa e subalterna, o verso una contrapposizione frontale, di natura esclusivamente politica; e in entrambi i casi il sindacato finisce per essere usato politicamente, piegato a logiche che gli sono imposte dall’esterno. La riconquista dell’autonomia passa dalla rottura di questi meccanismi, dal rifiuto delle vie di fuga, rimettendo al centro, nella sua concretezza e nelle sua irriducibilità, la questione sociale, ovvero i problemi dell’inclusione e dell’esclusione, dei diritti e delle disuguaglianze.

L’autonomia ha qui il suo fondamento. E a partire da questo fondamento irrinunciabile possono essere utilizzati tutti gli strumenti, esplorati tutti i possibili tavoli di confronto e di negoziazione, non seguendo la bussola della politica, ma solo, rigorosamente, quella della rappresentanza sociale. Sul tema dei diritti, la CGIL ha lanciato una efficace offensiva, cercando così di unificare il mondo del lavoro e di contrastare la sua frammentazione. Viene così ribaltata l’idea che il nostro futuro debba solo essere affidato ai meccanismi della flessibilità e della competizione, che il lavoro debba adattarsi passivamente a questa logica, che dunque la frantumazione sociale e la totale relativizzazione dei diritti sia il portato inevitabile della modernizzazione. Occorre aggiungere che i diritti esistono in quanto c’è una forza in grado di farli valere, che dunque la battaglia per i diritti chiama necessariamente in causa i poteri e gli assetti istituzionali. Si ripresenta quindi tutto il problema dei rapporti del sindacato con la sfera politica e del suo potere contrattuale nelle relazioni politiche. La nostra azione inevitabilmente incrocia la politica, si inscrive in un determinato contesto politico che va conosciuto nelle sue forme e nella sua dinamica. Noi tutti, oggi, avvertiamo che la politica ha subito una mutazione profonda. Ma spesso di questa mutazione si dà una rappresentazione del tutto superficiale e di stampo giornalistico: il passaggio dalla prima alla seconda repubblica determinato dall’avvento del sistema maggioritario e dalla conseguente bipolarizzazione del sistema politico. Con la conseguenza, non sempre esplicitata, ma sottintesa, che nel bipolarismo anche il sindacato deve necessariamente dislocarsi in un determinato campo e trovare nuove forme di raccordo, se non di apparentamento, con le forze politiche.

Sul sindacato viene così esercitata una fortissima pressione politica per costringerlo dentro questo schema, per traghettarlo nella seconda repubblica, e in questo percorso l’autonomia si smarrisce e si offusca perché l’unica dialettica consentita è quella tra i due poli dello schieramento politico. Il bipolarismo non ammette eccezioni. Di questa logica stiamo misurando gli effetti perniciosi, con i processi di politicizzazione e di manipolazione che avvengono in tutti i campi, dall’informazione alla giustizia. Se può essere utile un sistema politico bipolare, ciò non significa affatto che la medesima logica valga per l’intera realtà sociale, che si debba cioè accettare in tutti i campi una scissione, una contrapposizione, una situazione di incomunicabilità; che ogni tentativo di dialogo debba essere bollato come consociativismo da prima repubblica. Il sindacato rifiuta di farsi bipolarizzare, perché è nella sua natura e nella sua funzione essere sempre uno strumento di confronto, e anche necessariamente di conflitto, in una relazione sempre aperta con tutti gli attori sociali e politici. La linea di ragionamento che punta ad assimilare il sindacato nella seconda repubblica va quindi nettamente respinta, perché non solo è inaccettabile nelle sue conclusioni, ma errata nelle premesse, fondata solo sugli aspetti formali del sistema politico, come se esso si riassumesse tutto nel passaggio al maggioritario, vedendo nella legge elettorale non una tecnica sempre suscettibile di verifiche e di innovazioni, ma un principio di carattere ideologico.

La mutazione del quadro politico ha diverse e più profonde ragioni. La prima sta in quel grande processo storico che si usa chiamare globalizzazione. Tutti gli orizzonti della politica sono ormai proiettati su una scala immensamente più larga, perché si sono spostati i centri di decisione e di regolazione oltre i confini degli stati nazionali. Di qui viene la necessaria accelerazione del processo di costruzione politica dell’Europa, con l’unificazione della moneta, con la riforma delle istituzioni comunitarie, con l’allargamento dell’Unione verso nuovi paesi, in particolare dell’Europa dell’Est, con un processo quindi destinato a sovvertire le vecchie autonomie nazionali, le politiche protezionistiche, le teorie e le pratiche di una sovranità nazionale autosufficiente. La partita politica si gioca su questa dimensione allargata, e il problema che hanno tutte le forze politiche italiane è quello di costruire una propria rete efficace di relazioni internazionali, per non trovarsi spiazzate e marginalizzate nel nuovo ordinamento politico che si viene istituendo. In secondo luogo, è cambiata profondamente la configurazione sociale e culturale delle forze politiche, con la messa in crisi delle grandi ideologie del Novecento e con la scomposizione dei blocchi sociali, con un processo quindi che ha reso molto più fluido e mutevole il rapporto tra politica e società. Ciò ha prodotto effetti rilevanti soprattutto sul versante di destra, dove i cambiamenti, non solo in Italia, sono di grande portata. Rotti gli schemi ideologici del passato, la destra tenta una incursione a tutto campo, con una miscela di populismo plebiscitario, di liberismo economico, di intolleranza xenofoba e di arroganza nell’uso del potere.

Non è un’anomalia italiana, ma una tendenza che attraversa il cuore dell’Europa. Berlusconi non è una macchietta nazionale, ma un dirigente politico che ha saputo interpretare le nuove tendenze e organizzarle in una nuova struttura, in una nuova forma di partito. Non si tratta affatto di un’escrescenza malata, cresciuta sul corpo sano della democrazia europea, ma di un indicatore significativo di ciò che sta maturando nelle nostre società, delle nuove forme politiche che si stanno organizzando. La destra si sta riorganizzando con nuove basi, con una linea più aggressiva e cercando di realizzare, spesso con successo, un’operazione di sfondamento sociale nelle basi tradizionali della sinistra, con le armi del populismo, con l’uso spregiudicato del mass-media e con la strumentalizzazione politica delle paure e delle insicurezze dei settori sociali più deboli, incapaci di organizzare e progettare il loro futuro. Ciò che è avvenuto in questi anni è un complesso sommovimento politico, che ha messo in crisi le appartenenze, le identità collettive, le culture, dando luogo a forme nuove di rappresentanza; e anche il mondo del lavoro è coinvolto in questo processo, alla ricerca di una risposta alla propria crisi di identità e di un nuovo punto di approdo. Anche nel passato, dobbiamo ricordarlo, le relazioni tra la sinistra e la politica e il lavoro non sono mai state univoche e lineari, ma soggette ad una mediazione culturale assai complessa, e oggi questa trasversalità politica appare ancora più evidente.

Non ci sono per nessuno rendite di posizione garantite. Tutto ciò non nasce per effetto del maggioritario, ma sull’onda di una crisi sociale che scompagina i vecchi schieramenti e dissolve i grandi aggregati ideologici su cui si era formato il sistema politico. In Italia tutto questo recesso ha avuto un’asprezza particolare, perché c’è stato un vero e proprio collasso delle forze politiche tradizionali, ma in forme diverse un analogo problema è aperto in tutta la realtà europea. È l’intera geografia delle rappresentanze politiche che si sta ridefinendo, in un rapporto assai complesso con le trasformazioni degli assetti sociali. Anche la sinistra politica deve, in questo nuovo quadro, ridefinire la propria identità, il suo sistema di valori, il suo progetto. A questo problema il sindacato non è sicuramente insensibile, ma non è abilitato a fornire nessuna risposta. I due piani, quello politico e quello sindacale, restano necessariamente distinti.

Una sovrapposizione non sarebbe utile per nessuno. La politica deve trovare in piena economia le sue soluzioni, e la sinistra potrà avanzare una proposta vincente se riesce a comunicare trasversalmente con i diversi settori della società. Non può essere il sindacato il luogo di incubazione di un nuovo progetto politico, né direttamente né per vie traverse. Si può dire, con una formula un po’ schematica, che la politica è socialmente trasversale, perché il suo problema è unire una pluralità di interessi in un progetto di società, mentre il sindacalismo è politicamente trasversale, perché il suo problema è unire il mondo del lavoro, al di là delle diverse appartenenze politiche, in un’azione coerente di protezione sociale e di affermazione dei diritti. Da una sovrapposizione dei due piani, da un allentamento della loro reciproca autonomia, deriverebbe solo una maggiore debolezza sia del sindacato sia della sinistra politica, perché entrambi sarebbero condizionati da una logica che è esterna alla loro specifica funzione. Un terzo elemento di trasformazione del quadro politico è dato dal progressivo incepparsi dei canali della partecipazione democratica e dall’affermazione di modelli oligarchici e verticistici, nella vita delle istituzioni e anche nel funzionamento interno dei partiti politici. Da questo punto di vista, occorrerebbe fare un bilancio critico del passaggio al sistema maggioritario, dei modi e delle forme in cui esso si è realizzato, degli effetti che si sono prodotti nel senso di un restringimento delle sedi decisionali e di una esasperazione del ruolo personale del leader, senza riuscire ad attivare nessun efficace contrappeso, nessun effettivo controllo dal basso del processo politico.

In queste condizioni di democrazia ostruita, prendono forza le spinte populiste e plebiscitarie, su cui fa leva la destra, ma nel contempo si mette in moto anche un altro e opposto processo, con la sperimentazione di inedite forme di auto-organizzazione sociale, con lo sviluppo di movimenti che cercano di riaprire i canali della partecipazione, di riattualizzare la domanda di democrazia. In ogni caso, è aperto il problema in quale forma democratica si debba modellare il nostro sistema politico: in una direzione plebiscitaria o in una direzione partecipativa; e la discussione sui modelli democratici passa dentro tutte le grandi organizzazioni. Anche nel sindacato, in effetti, si confrontano diverse concezioni e diverse pratiche politiche, forme di direzione carismatiche o collegiali, verticalizzate o disposte lungo una rete di autonomia. La democrazia, questo storico requisito della cultura dell’occidente, torna ad essere per tutti un problema di difficile soluzione. Da questo insieme di mutamenti l’effetto combinato che ne consegue è uno stato di complessiva incertezza e fragilità delle istituzioni politiche, per l’assenza di strumenti di governo capaci di fronteggiare la globalizzazione, per la crisi delle rappresentanze politiche, per il carattere sempre più elitario e asfittico della vita democratica. È una condizione rischiosa perché si è determinato un vuoto politico, e in tale vuoto si possono inserire con efficacia manovre e avventure di vario segno.

In questo quadro, come ridefinire il ruolo del sindacalismo confederale? È chiaro che noi non possiamo prescindere dal contesto in cui ci troviamo ad agire, anche se possiamo cercare nei limiti delle nostre forze di modificarlo. E il contesto ha quei tratti che abbiamo prima descritto, quelle incognite che sono proprie di una fase ancora confusa e non stabilizzata. Seguendo l’analisi precedente, possiamo indicare le possibili risposte che il sindacato può offrire nella sua autonomia, ai processi che sono in atto. Nella nuova realtà del mondo globalizzato, ha forza e influenza solo chi riesce ad organizzarsi sulla scala dell’economia globale, e sotto questo profilo il movimento sindacale deve compiere una decisa trasformazione delle sue strutture, ancora troppo rigidamente modellate sulla dimensione nazionale. Comunque si giudichi la globalizzazione in atto, è questo oggi un terreno obbligato, e il sindacato deve darsi una sua strategia globale, se vuole avere una voce nel dibattito e nel conflitto politico che si misura sul tema del nuovo ordine mondiale. Ma soprattutto è nella dimensione europea che il sindacato può definire e rilanciare il suo ruolo. Nel momento stesso in cui si compie una più decisa scelta europea e si costruisce una dimensione sopranazionale, si possono aprire nuovi spazi di iniziativa a livello regionale, perché l’Europa che si sta costruendo è una istituzione organizzata su diversi livelli, regolata dal principio di sussidiarietà, con una combinazione, quindi, di regolazione centrale e di autogoverno locale.

Per quanto riguarda le trasformazioni del sistema politico e il pericolo di un nuovo populismo aggressivo e demagogico, il problema che il sindacato deve affrontare è quello della rappresentanza del mondo del lavoro sempre più frammentato e diversificato. Il populismo sfonda là dove non c’è rappresentanza, dove gli individui sono lasciati a loro stessi, esposti alle leggi feroci della competizione e per ciò, non avendo forza propria, non avendo nessun controllo sul proprio futuro, sono il materiale su cui lavora la manipolazione ideologica della nuova destra. È la società senza rappresentanza che offre al populismo di destra le sue basi di consenso, è la società atomizzata e individualistica nella quale le persone sono messe nell’ingranaggio della competizione senza tutele, senza diritti, senza nessuna organizzazione degli interessi collettivi. Il sindacato deve allargare la sua capacità di rappresentanza a tutto il vasto arcipelago delle nuove figure sociali, a tutto il mondo che sta in bilico tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, alla nuova generazione che entra nel lavoro in forme precarie, discontinue, in una condizione di incertezza e all’interno di rapporti di pesante subalternità. C’è ormai uno squilibrio crescente tra l’insediamento sindacale e l’evoluzione del mercato del lavoro, e il permanere di questa divaricazione non può che produrre un indebolimento strutturale del peso politico del sindacalismo confederale. Per recuperare questo ritardo e per affrontare i nuovi problemi della rappresentanze del lavoro, occorre spostare il baricentro della nostra iniziativa e investire soprattutto sulla dimensione territoriale, perché solo l’azione orizzontale nel territorio può riunificare i diversi segmenti frammentati del lavoro. Occorre dunque una riforma sia delle strutture organizzative, sia delle politiche rivendicative e dei modelli contrattuali.

Il compito del sindacato, di fronte alla nuova destra populista, è quello di presidiare il territorio, di organizzare la domanda sociale, di dare ai diversi segmenti del mondo del lavoro rappresentanza e organizzazione. È un compito strettamente sindacale, che può avere però una decisiva influenza sulle dinamiche politiche. In questo caso, vediamo concretamente come l’autonomia del sindacato sia una grande risorsa politica. Il sindacato, se realizza coerentemente la sua funzione di rappresentanza sociale, contribuisce per se stesso, senza aver bisogno di nessun collateralismo, alla battaglia per il rinnovamento civile e democratico del paese. Ciò è evidente anche sul terreno della democrazia. A una democrazia politica inceppata il sindacato può offrire la grande risorsa di una partecipazione dei lavoratori, attraverso i molteplici canali della contrattazione e della concertazione. Questo grande potenziale democratico non è ancora pienamente sviluppato, ed è questo uno dei nodi che dobbiamo urgentemente affrontare. La democrazia sindacale è tuttora affidata alla casualità di intese temporanee e non si è definito un corpo unitario di regole che definisca i percorsi di decisione e di verifica. Si determina così una pericolosa strozzatura nel rapporto con i lavoratori, posti in molti casi di fronte al fatto compiuto di accordi o divisioni di vertice.

Il sindacalismo confederale avrà tanta più forza nel rapporto con le sue controparti e nelle sedi politiche di concertazione se riesce a dispiegare un largo processo democratico, su cui fondare la sua piena legittimazione rappresentativa. Dopo i tentativi infruttuosi di una regolazione per legge della rappresentanza, falliti per un complesso di cause di natura politica e «intrasindacale», questa strada appare ora assai meno percorribile, data l’attuale composizione politica delle due Camere. Dobbiamo allora rinviare tutto ad una scadenza futura e imprecisata, e convivere a lungo con l’attuale situazione di incertezza? Rinviare il problema sarebbe un errore, ed è possibile, anche in assenza di un intervento legislativo, fissare un codice di autoregolamentazione tra le organizzazioni sindacali. Già esiste un importante rete democratica e unitaria, quella delle RSU, legittimata dal voto dei lavoratori, ma questa rete non viene pienamente valorizzata e responsabilizzata. È una grande risorsa potenziale, che può essere la struttura portante di un nuovo sistema di democrazia sindacale, evitando i due estremi di una democrazia solo associativa o solo referendaria. Anche in questo caso, di fronte al problema di una crisi della democrazia, il sindacato ha un ruolo importante in quanto organizza la sua autonoma funzione di rappresentanza sociale. Non ha funzioni di supplenza politica, ma incide nel processo politico per la sua forza rappresentativa e per il suo rapporto strutturato e democraticamente legittimato con il mondo del lavoro, nelle sue diverse espressioni. L’unità sindacale può essere il risultato di un confronto serrato su questi temi, ragionando sul presente e sul futuro, e non restando imprigionati da una riproposizione statica delle singole identità di organizzazione.

Anche l’unità, peraltro, rischia di essere solo un’invocazione retorica. Non basta proclamarla astrattamente, ma va praticata e costruita nella concretezza della situazione che è in movimento. Qui abbiamo offerto uno schema di analisi e di interpretazione: confrontiamoci seriamente, senza pregiudiziali e senza diffidenze preconcette. C’è comunque una condizione di partenza che è necessario ripristinare: il riconoscimento reciproco di legittimità, il riconoscimento cioè di un pluralismo che è tutto interno al mondo del lavoro, alla sua storia e ai suoi valori, per cui le differenze, anche quelle più aspre, non sono mai rotture definitive e non interrompono mai la ricerca di una possibile mediazione. La divisione, su singoli aspetti anche di grande rilievo, non significa che siamo in due campi opposti, ma che il nostro campo ha al suo interno una pluralità di espressione e di proposte che dobbiamo cercare di portare a sintesi. Senza questa condizione di partenza, le rotture diventano insanabili e si alimenta una spirale di intolleranza e di settarismo dalla quale non è facile uscire. Sarebbe un utile passo in avanti affermare che non c’è una verità e un’eresia, che la ricerca tra di noi deve restare aperta e che il contributo di tutti è necessario. L’unità non può essere una battaglia pedagogica per convincere gli altri delle nostre ragioni, ma è – come sempre in passato – un lavoro di mediazione e di sintesi. Ora, realisticamente, si può valutare che il cammino unitario sia ancora lungo e problematico, e sia impossibile porsi a breve termine obiettivi troppo ambiziosi o velleitari.

Ma possiamo, o meglio dobbiamo, interrompere un processo distruttivo, di reciproca delegittimazione, che condurrebbe il sindacato in un vicolo cieco e lo lascerebbe in balìa delle più diverse manovre politiche, tutte giocate a scapito della sua autonomia. Cominciare un cammino nuovo, senza farci illusioni e senza retorica, con la pazienza e la determinazione di chi sa guardare, oltre l’immediatezza, agli interessi generali e di fondo del mondo del lavoro: questo possiamo fare, e in questo lavoro pretendiamo che la CGIL sia in prima fila. Ciò che è in questione è la prospettiva sindacale, non altro. È l’autonomia del nostro ruolo, non il gioco di sponda rispetto alle vicende politiche della sinistra italiana. La CGIL non è una pedina da manovrare sullo scacchiere politico, ma una grande organizzazione sociale che si deve fare pienamente carico della necessità di riaprire una prospettiva unitaria, perché sono in gioco i destini non di questo o quel dirigente, ma i destini del paese. In questo, non in altro, sta la nostra forza. E questa forza deve essere messa al servizio di una nuova prospettiva democratica che veda il mondo del lavoro, in tutta la sua complessità, come un protagonista decisivo.