La fiducia, gli animal spirits e la crisi di Berlusconi

Di Salvatore Biasco Venerdì 01 Novembre 2002 02:00 Stampa

Mi limito a osservare dal punto di vista dell’economista, rinviando altrove un giudizio più squisitamente politico, l’appello di Berlusconi all’opposizione, all’indomani del varo di provvedimenti impopolari di stretta fiscale e dell’ammissione in parlamento di previsioni per l’economia italiana molto lontane dal quadro rassicurante sempre tracciato dal governo (e, ciononostante, a mio avviso ancora ottimistiche). Di quell’appello sorprendono anche i toni inusuali per il presidente del Consiglio: «…calmiamoci, abbandoniamo questo disfattismo, lavoriamo insieme per quattro anni, diamoci una mano per migliorare la situazione…».

 

Mi limito a osservare dal punto di vista dell’economista, rinviando altrove un giudizio più squisitamente politico, l’appello di Berlusconi all’opposizione, all’indomani del varo di provvedimenti impopolari di stretta fiscale e dell’ammissione in parlamento di previsioni per l’economia italiana molto lontane dal quadro rassicurante sempre tracciato dal governo (e, ciononostante, a mio avviso ancora ottimistiche). Di quell’appello sorprendono anche i toni inusuali per il presidente del Consiglio: «…calmiamoci, abbandoniamo questo disfattismo, lavoriamo insieme per quattro anni, diamoci una mano per migliorare la situazione…».1 Quell’appello suona come una presa d’atto che, al punto in cui sono giunte le cose, nessuna azione di governo può da sola consentire che gli operatori guardino al futuro con un fondo solido di fiducia. Qui non mi riferisco tanto alla fiducia che coinvolge il giudizio sulle prospettive a breve termine dell’economia (già di per sé preoccupanti) quanto a quella che coinvolge gli elementi impalpabili extraeconomici di auto-rassicurazione. Rassicurazione che si genera quando gli operatori sentono che il futuro è affidato ad una classe dirigente che giudicano nel complesso capace di saper interpretare, orientare e stimolare le prospettive della società (o, semplicemente, capace di far fronte alle difficoltà), o sentono che è poggiato su una realtà nazionale molto salda, fatta di sostanziale compattezza della società e larga condivisione soggettiva dei destini all’interno del corpo sociale.

Questo tipo di umori di fondo che percorrono gli operatori, in positivo o in negativo, non sono mai indifferenti per l’andamento dell’economia, influenzano le reazioni, hanno parte nell’incoraggiare o scoraggiare decisioni individuali, fanno da filtro per la valutazione delle prospettive. Si pensi, ad esempio, quanto siano state e siano importanti negli USA la fiducia nelle capacità gestionali del governo e delle istituzioni economiche o quante poche scosse produca in altre società l’alternanza di governo.

La contesa politica ha molto a che vedere con quegli umori. Se non altro perché, se esasperata, mina per varie vie la fiducia che una società ha in se stessa e nel suo futuro e fa emergere più diffidenza che ottimismo, più scetticismo e attendismo che recepimento degli stimoli e dei fattori di leva; e ciò anche in relazione alla percezione dell’azione di governo. La guerra di trincea penetra gioco forza nel sentimento di fondo del mercato, e se alla fine quel «sentire» finisce per influenzare, per rivoli che oltrepassano il calcolo di convenienza, i comportamenti economici, una chiave della prestazione dell’economia appartiene anche all’opposizione, nel senso che appartiene alla qualità e intensità della contesa politica e alla base che quest’ultima ha nel corpo sociale. Questo mi è stato sempre chiaro durante il governo del centrosinistra. In un intervento svolto nel novembre del 2000, mi chiedevo perché livelli di tassazione comparabili con quelli italiani fossero risultati compatibili in Germania e Francia con una crescita circa doppia della nostra nell’ultima parte degli anni Novanta, pur non usufruendo le imprese tedesche e francesi né di analoga compensazione su flussi e stock dell’indebitamento (per l’andamento dei tassi di interesse) né di analoga espansione dei corsi azionari (sempre che la pressione fiscale abbia influenza sulla prestazione dell’economia con i distinguo per i quali rimando all’articolo).2 «Temo – rispondevo – che qui occorra tirare in ballo elementi extraeconomici, più che la pressione fiscale in sé; elementi che, se poi di fatto rientrano nell’economia, vi rientrano attraverso il gioco delle aspettative e delle inclinazioni che si formano. In Francia e Germania non vi è, dietro la contesa politica e il conflitto sociale, l’assenza di compattezza nazionale che vi è in Italia. La spaccatura della società per sua natura non produce ottimismo e fiducia nel futuro del paese, ma inviluppo critico e percezione pessimistica del contesto. Io credo con convinzione che alla fine contino gli animal spirits e che qui ci sia uno degli elementi chiave delle loro determinanti.

Quando la variabile fiscale entra in gioco, nel contesto di spaccature esasperate, tocca i nervi scoperti della società, diventa il centro della contesa politica e della propaganda, fa breccia nelle aspettative anche al di là del merito effettivo. La drammatizzazione è inevitabile. La pressione fiscale diventa per sua natura “insopportabile”, il ministro delle Finanze il “Dracula” delle tasse. Ma questo investe tutti i piani. Centri di ricerca, commentatori e il dibattito pubblico attirano più attenzione se si concentrano sui pericoli piuttosto che sulle opportunità; le associazioni di categoria e professionali esercitano una critica difensiva e preventiva spargendo altrettanto pessimismo cautelativo e diffidenza verso obiettivi specifici o generali della politica economica. La stampa e la comunicazione non fanno che registrare e ampliare tutto ciò. Si aggiunga, che se l’utilizzo della leva fiscale si accompagna a un mutamento strutturale completo della fiscalità che comporta molte modifiche di impostazione – con leva essenzialmente, da un lato, sulle reazioni comportamentali alla distribuzione di sanzioni e premi e, dall’altro, sulla chiusura dei canali di evasione e sulla sostituzione dell’impostazione categoriale con quella universalistica – la spaccatura della società agisce in modo ancora più radicale. Agisce nella contesa politica come opera di svalorizzazione di ogni aspetto dei mutamenti, fa emergere diffidenza, paura, attribuzione di intenzioni perverse, che impedisce agli operatori di cogliere a pieno le leve insite nelle modifiche o qualsiasi disegno organico. Ciò a maggior ragione quando l’opposizione ha una potenza di fuoco mediatico, capace di diffondere emotivamente i suoi giudizi.

Non voglio essere frainteso e implicare qualcosa che sia fuori dal gioco democratico o dalla liceità o sia esente, una volta che il circolo del pessimismo si mette in moto, da giustificazioni.3 Voglio solo portare in evidenza come l’assenza di una coesione di fondo nazionale, in generale, e la presenza di una anomalia tutta italiana di non legittimazione reciproca tra gli schieramenti contendenti non produce self confidence e non è quindi neutra sugli eventi dell’economia: retroagisce pesantemente sulle reazioni comportamentali degli operatori, sul sentimento del mercato e sugli animal spirits. A parità di misure l’economia reagisce differentemente, perché diversa è la diffusione di paure. I filtri sono importanti. Mi colpisce ricorrentemente rilevare, nei rapporti col mondo dell’imprenditoria diffusa, quanto radicato sia il convincimento, anche tra operatori sofisticati, che l’IRAP abbia alzato la pressione fiscale o sia andata a vantaggio solo delle grandi imprese.

È appurato che non è così, ma né fatti, né cifre, né rivisitazioni dell’esperienza individuale possono sradicare questo convincimento. Mi capita altrettanto ricorrentemente di raccogliere la perorazione a favore del varo di una “Tremonti per gli investimenti” quando l’esigenza di agevolazione specifica è stata superata in questi anni da strumenti più potenti quali la DIT, la DIT “allargata” (entrambe permanenti), la “Visco per investimenti” (temporanea) e la forfettizazione del reddito conseguente agli studi di settore. Se la capacità di diffusione di filtri di giudizio – per opera delle tematiche dell’opposizione – è questa su temi fiscali specifici (che pure fanno parte di un progetto qualitativamente rilevante) è immaginabile quale sia la capacità di penetrazione pervasiva, su una base più consistente, quando la drammatizzazione si dirige verso la pressione fiscale «insopportabile»; un tema che più si presta a giudizi sommari. Continuo a ritenere che, a parità di circostanze, le stesse misure calate in un contesto di coesione nazionale e di fiducia istituzionale di tipo tedesco o francese avrebbero potuto coesistere con una diversa prestazione dell’economia».

Fin qui la citazione del 2000. Si potrebbe pensare che oggi la storia si ripeta a parti invertite, ma forse non fa che scorrere in piena continuità. Ad esempio, è difficile non provare l’impressione che Tremonti e i suoi siano rimasti vittima della vis demolitoria che ha impedito loro di capire che una campagna elettorale durata cinque anni e imperniata su paure degli operatori e su delegittimazione e irrisione era finita nell’aprile del 2002. E ha così impedito di evitare che la scure si abbattesse su ciò che era stato costruito in precedenza, là dove occorreva il bisturi e la cautela, finendo per porre il governo in un vicolo cieco. La discontinuità che è il pendant della delegittimazione precedente e doveva essere il perno di un mutamento delle aspettative (di cui dirò) è una scommessa oggi persa. La divisione, se non altro politica della società – con la diffidenza che genera nel corpo sociale e negli operatori economici – non dovrebbe mai essere un governo a cavalcarla. Oggi Berlusconi ha in qualche modo ragione nel paventare che la chiave di giudizio e di richiamo ai dati più crudi della realtà sia in mano all’opposizione e che il pessimismo che essa esprime, il suo calcare sugli elementi negativi della situazione, la totale chiusura di credito e la stigmatizzazione dell’operato del governo possano trovare accoglimento nel sentimento del mercato e contribuire al radicamento di un circolo vizioso delle aspettative. Ragione nel paventare quindi un crollo della reputation del governo. Dove reputation, nel senso in cui la usano gli economisti, è resa male dall’italiano «reputazione» e si riferisce a quell’insieme di convincimenti degli operatori che portano a ritenere che una istituzione sia in grado di saper perseguire efficacemente gli obiettivi che proclama, avere gli strumenti e la determinazione idonea per farlo, nonché le capacità gestionali; quell’insieme di attributi che portano a fare affidamento su di essa per un orientamento verso il futuro. Quando esiste è un bene pubblico. Qui riferita quindi alla «reputazione» del governo di saper guidare l’economia, avere gli strumenti del mestiere, l’orientamento e la bussola per accrescere ricchezza e sviluppo.

Un radicamento della sfiducia verso le prospettive e la guida del paese (non necessariamente tradotto in consenso per l’opposizione) è un danno più forte di qualsiasi inasprimento del clima sociale e della mobilitazione di piazza. Qui non si tratta tanto di «chi spada ferisce di spada perisce». La presa sulle paure dell’opinione pubblica non è la stessa, il momento non è lo stesso, ma anche l’azione di governo non è stata la stessa. Il livello di scontro imposto è stato molto più elevato. Uno statista è tale quando si accorge che la spaccatura della società è una esternalità negativa, non dopo essersi cacciato in una difficoltà che non può più evitare di ammettere (anche per aver nascosto a se stesso il volgere negativo di una realtà esogena), ma quando questa visione lo orienta, in una realtà come quella italiana, dal primo momento di governo. Si potrebbe procedere in un lungo elenco di retorici «era proprio necessario?» passando dai provvedimenti presi sull’economia, condoni, buco pregresso, articolo 18, fino alla giustizia e al falso in bilancio.4

Poiché l’intento è analitico non vado oltre su questo piano. L’interrogativo che mi pongo, a partire da qui, è se lo schieramento di centrosinistra debba porsi il problema, considerando che esso coinvolge qualcosa che riguarda il paese. Mi rimane poi la curiosità di capire quale rappresentazione della società italiana abbia portato così fuori strada la destra. È difficile rispondere alla prima domanda in modo astratto, prescindendo dal «fenomeno Berlusconi», che è tutto italiano. Perché in teoria si potrebbe rispondere anche affermativamente, se non fosse che non è stato il centrosinistra a scegliere il livello dello scontro (ora come nella scorsa legislatura), e che il comportamento e l’azione dell’attuale governo non sono stati né prima un indirizzo da ricompattamento nazionale né poi da emergenza nazionale, ma piuttosto, avventurista e  provocatorio. Credo che l’assenza di legittimazione reciproca e la connessa spaccatura della società sia un dato ineliminabile della situazione italiana da qui a un tempo indefinito. Con questo dovrà fare i conti chiunque governi. È un handicap nazionale, ma questo è. Ciò che oggi attiene all’opposizione per impedire su questo piano che il suo agire si ritorca poi anche su se stessa, una volta al governo, non è certo un comportamento da emergenza nazionale, ma tante azioni che a prescindere dall’ineludibile livello di scontro quotidiano – che in questo paese coinvolge perfino i principi dello Stato di diritto – mantengano la possibilità a lungo raggio di tenere unito il paese. Penso ad una azione di opposizione che faccia perno su un progetto identificabile per l’intera società italiana, che ne valorizzi i punti forza, che sposti l’asse del ragionamento dall’opposizione alla proposta e alla visione dell’agenda. Penso a una questione di metodo (densa di conseguenze) che parta dal riconoscimento che uno dei limiti del centrosinistra nel suo momento di governo è stato il riformismo illuministico e burocratico, non preceduto da libri bianchi dove ciascun soggetto individuale o collettivo potesse identificare in anticipo i cambiamenti proposti e le loro ricadute generali e particolari, identificando se stesso in tali cambiamenti e partecipando da protagonista e da testimone a un processo di verifica, di discussione, di correzione, di riequilibrio. Penso al mantenimento di coscienza europea, che, se sollecitata fuori dal governo, è prevalentemente azione culturale, ma è anche politica se le vicende dell’opposizione vengono rese coese e indistinguibili con quelle di omologhi protagonisti europei (è solo dal progredire dell’unificazione europea che possiamo attenderci nel tempo una evoluzione del grado di coesione del paese sui livelli degli altri partner). Penso a quanto si può offrire di bipartisan nella definizione della politica estera e della collocazione internazionale. Penso all’offerta di una classe dirigente alternativa, coesa, unita nella sostanza, e capace. Occorre quindi porsi il problema, ma affrontarlo a utilità differita, perché, ripeto, la spaccatura della società è oggi ineliminabile e altrettanto lo sono le ricadute di origine extraeconomica sull’economia.

Se questa conclusione disarmata esaurisce un tipo di riflessione, vi è un secondo tipo di riflessione cui sono interessato e che parte anch’essa da quell’appello di Berlusconi. Riguarda il determinarsi di quella nemesi della storia che porta il centrodestra dalla convinzione di avere una marcia in più nella capacità di generare fiducia e aspettative positive, ad adombrare di affidarsi al rapporto con l’opposizione affinché «il disfattismo» non si radichi più di quanto stia avvenendo. In realtà, l’addensarsi di umori negativi, al di là della situazione congiunturale, è un punto delicatissimo per il centrodestra – e qui vengo alla seconda questione – perché oltre ad intaccare la reputation, su cui aveva giocato molto, lo lascia privo di una (auto)rappresentazione della sua funzione nella società italiana. Ciò è fattore di estremo disorientamento. Il ruolo degli animal spirits era ben presente nei riferimenti del centrodestra. Si trattava di averne la chiave. In una estrema semplificazione – ma elementare era, al fondo, lo schema radicato soprattutto in Forza Italia – si trattava di compiere due operazioni, che, per la natura della società italiana venivano spontanee con l’avvento della destra. L’una rivolta all’Italia peculiarmente ricca di «spiriti animali», diffusi in sezioni larghe della società, che attendevano solo di essere liberati, il che sarebbe avvenuto allorché quella sezione si fosse trovata all’unisono per linguaggi, pathos e cultura col potere politico. L’altra, in parte conseguenza della prima, rivolta alla massa dei descamisados, che attendeva di godere di un pane meno razionato e meno affidato alla contrattazione di quello che ad essa erano in grado di garantire le rappresentanze; il che sarebbe avvenuto allorché fosse stato affidato al rapporto diretto con il governo. In fin dei conti, per entrambe le sezioni della società si trattava di un processo di liberazione. Liberazione da ciò che la sinistra non poteva per sua natura che comprimere.

Da qui il convincimento che la sintonia col mondo imprenditoriale – grande impresa come imprenditoria diffusa e mondo degli interessi organizzati – sarebbe stato sufficiente quasi di per sé a far partire una grande cavalcata produttiva, nello «spirito del West» e della conquista di orizzonti, sancita da pochi segnali che avrebbero separato l’ancient régime dal nouvel régime (quello delle opportunità). Anche perché nessuno dei vincoli (in primis di bilancio) che incontrava il centrosinistra (mortificando le potenzialità di crescita) sarebbe stato incontrato dal centrodestra. Si trattava quindi di mantenere alta la pressione per demandare a fiducia e attese (di crescita e di riduzione della pressione fiscale) l’aspetto propulsivo, nel convincimento che occorra ingenerare negli operatori un’aspettativa positiva, affinché i comportamenti diventino conseguenti e coerenti con quell’aspettativa (cioè la realizzino). Questa idea semplificata della realtà traspare chiaramente dall’intervista rilasciata da Tremonti al «Financial Times» prima delle elezioni: «prenderemo per prima cosa quei provvedimenti che lanciano lo sviluppo e che non costano, e poi saremo in condizioni di prendere tutte quelle misure che abbassano la pressione fiscale».5 Io penso che Tremonti fosse veramente convinto di avere la chiave magica, lui sì, per scatenare il meccanismo di fiducia e di aspettative con provvedimenti che attendevano il suo avvento per essere varati e produrre miracoli. Penso che la Casa delle Libertà credesse davvero che la crescita dell’economia sarebbe stata stabilmente sopra il 3%. Sono convinto che credesse davvero che i provvedimenti sul sommerso presi a settembre 2001 avrebbero prodotto l’emersione di 900.000 lavoratori già a novembre dello stesso anno,6 che la Tremonti avrebbe finanziato se stessa,7 che gli effetti psicologici della delega fiscale avrebbero creato le premesse per la sua attuazione.

Un disegno più «sofisticato» (se questo è il termine giusto) deve essere stato accarezzato dalla Casa delle Libertà a un certo punto del percorso (sempre di derivazione da quell’analisi): la via finanziaria allo sviluppo da imboccare rendendo l’Italia un paese a forte attrazione di capitale, una sorta di paradiso fiscale. Prendo dal lato, per così dire, nobile l’insieme dei provvedimenti che sono stati varati, astraendo da interessi innominabili: allo scudo fiscale era demandato il compito di riportare in Italia capitali che erano usciti. Il disegno sulle holding, cioè l’esenzione della tassazione sulle plusvalenze e sui dividendi percepiti, mirava a fare concorrenza ai paesi con legislazione più favorevole e fare dell’Italia un paese di attrazione per operazioni societarie di vario tipo. Viene ridisegnata la tassazione dei redditi finanziari, prevedendo l’introduzione dell’aliquota unica (come è giusto), ma uniformandola all’aliquota più bassa, del 12,50%, che non si giustifica sotto nessun profilo (quell’aliquota poteva sussistere in una fase di risanamento e di basso profilo del paese, ma è oggi la più bassa in Europa). Viene disegnata l’eliminazione della tassazione sul maturato. Anche il falso in bilancio rientra in questo quadro, se è vero che la concorrenza (verso il basso) per l’attrazione della locazione societaria è anche normativa. Si è poi soppressa quella struttura di tassazione dei profitti che tendeva a rendere meno fragili finanziariamente le nostre imprese sollecitandole alla patrimonializzazione (mi riferisco alla DIT), riproducendo una tassazione che favorisce il rapporto di debito e l’intermediazione finanziaria e orientando in questo senso anche i provvedimenti congiunturali. Tutto ciò riguarda la finanza privata. Per la finanza pubblica, il disegno, di innamoramento della via finanziaria allo sviluppo, passa per le cartolarizzazioni e le varie finanziarie pubbliche s.p.a.8

Concepire che quella via potesse affermarsi era ingenuo, come tutto è ingenuo, nel migliore dei casi, di ciò che è stato prodotto dalla Casa delle Libertà fino a questo momento. Oltretutto, una via basata su intermediari finanziari deboli, come sono quelli italiani, poco in grado di competere sul piano dei servizi specializzati con istituzioni finanziarie estere e divenire il perno e il fuoco di attrazione per questo processo. La City non si crea in questo modo. Una via basata, inoltre, sul presupposto che investimenti di portafoglio (ricchezza) portata all’estero per scelta valutaria non consentita (e chissà per quali ragioni), una volta regolarizzati, si sarebbero tradotti quasi automaticamente in investimenti produttivi (un indirizzo che avrebbero preso da tempo se questa fosse stata l’intenzione).9 Un disegno in un certo senso controproducente per la coesione europea e per gli interessi dell’Italia, che, su questo piano, avrebbe bisogno di armonizzazione (non al ribasso) e di politiche razionali, coerenti con lo status internazionale dell’euro e con il recupero di gettito dalle rendite finanziarie per alleggerire la fiscalità sul lavoro e sul capitale.

Questa visione finanziaria da un lato e, dall’altro, quella con al centro la chiave della fiducia e delle aspettative oggi fanno quasi sorridere, ma per il centrodestra è un castello che crolla, lasciando lo schieramento totalmente scoperto dal lato delle strategie e dell’analisi, ma soprattutto impreparato psicologicamente a governare il risveglio. Deve essere stato scioccante l’impatto con la complessità della realtà, con le ristrettezze di bilancio, con la scoperta, riluttante, che questa società o la si governa davvero o non risponde al governo per segnali. Eppure era talmente radicata quella visione che non sono bastate le prime complicazioni inaspettate a far prendere atto di questa complessità. Non mi riferisco alle difficoltà portate dall’11 settembre, perché l’economia era in decelerazione da prima.10 I provvedimenti hanno finito per impantanarsi nelle procedure parlamentari e nelle istanze particolari portate da più parti (in primis, della maggioranza). Il peso delle corporazioni ha cominciato a farsi sentire su liberalizzazioni e quant’altro; la resistenza della CGIL sull’articolo 18 ha rivelato la forza delle organizzazioni, e ha costretto, per arginarla, a riconoscerne il ruolo e concertare con altre organizzazioni per isolare quel sindacato; gli interessi hanno cominciato a far premio sulle adesioni in bianco dal punto di vista del consenso. Il risveglio è avvenuto quando l’economia è rimasta insensibile a qualsiasi sollecitazione, sempre più lontana da quanto immaginato, in un andamento ormai piatto, e la dittatura del bilancio a manifestarsi in tutta la sua prepotenza, rafforzata da un andamento pessimo delle entrate, con reazioni da panico (come sono sempre quelle tardive). Taglio delle promesse e dei finanziamenti, mondo degli interessi in rivolta, e governo esposto su tutti i fronti, anche dove – come sempre avviene in questi casi – le sue responsabilità specifiche erano limitate (leggi peggioramento dell’inflazione e percezione dell’andamento dei prezzi da parte dei consumatori). La finanziaria varata è una tipica finanziaria di panico e confusione, che spinge a salvare il salvabile.

Siamo lontani dal percorso lineare immaginato, ma questo era comunque una fuga dalla realtà per non vedere che sul centrodestra si addensavano una serie di domande particolaristiche, ovvero la richiesta di un più fluido funzionamento dello scambio politico-corporativo. Per non vederlo oppure per pensarlo sussunto dentro il meccanismo di fiducia e sviluppo che doveva mettersi in moto per congiunzione della storia. Certo, una vittoria elettorale ha tante componenti, ma il confluire di queste domande era fortemente presente. Quindi anche con maggiore successo e maggior fortuna il centrodestra si sarebbe comunque imbattuto in qualche vincolo (magari meno stringente e, in un certo senso, drammatico). Forse poteva dare soddisfazione maggiore alle attese specifiche organizzate intorno agli interessi, ma non avrebbe potuto comunque dare soddisfazione totale.11 Avrebbe dovuto comunque lasciare pezzi di domande insoddisfatte e proferire qualche no. E sarebbe bastata la parzialità di soddisfacimento delle domande a far premio sul resto. Nella mia esperienza parlamentare, a contatto – con responsabilità decisionale – col mondo degli interessi organizzati, ho imparato come l’umore su un provvedimento sia sempre determinato da ciò che gli interessati non hanno ottenuto, raramente da una valutazione d’insieme sul provvedimento, sull’innovazione settoriale o sull’impostazione legislativa che comprendesse ciò che era andato nella direzione desiderata. La parte acquisita era acquisita, diventava rapidamente qualcosa di scontato, passava in giudicato, archiviata immediatamente come qualcosa da sempre in essere (anche perché metabolizzata nel lungo iter dal momento dell’annuncio a quello del varo di un provvedimento) e la rivendicazione e l’attenzione si spostava su ciò che andava oltre o che allargava i benefici. Questo gioco infinito, che comunque è anch’esso frutto dello scollamento della società, perché è questo a rendere anarchico e contraddittorio l’affastellarsi delle domande, fertile il terreno di una opposizione che voglia cavalcarle, permeabili gli umori alla svalorizzazione dell’azione governativa, si sarebbe in ogni caso ripetuto col centrodestra. A maggior ragione, perché maggiori erano le promesse e l’affidamento ad esso di istanze particolaristiche. Sarebbe stato più governabile con una crescita più rapida, ma fino a un certo punto.

Proprio il carattere salvifico di cui era investito il centrodestra dai suoi elettori sta riversando su di esso la doppia insoddisfazione di non aver saputo governare in modo soddisfacente il quadro generale e di lasciare deluse le istanze particolari. Il risveglio lontano dalla linearità immaginata trova il Polo impreparato e scoperto sul suo terreno (immaginario), quello delle aspettative. Nella difficoltà ad affrontare la situazione è gioco forza che stia aprendo, di rinvio in rinvio, di una tantum in una tantum, di dati inventati in dati inventati, la strada a un susseguirsi di manovre annuali, per evitare le quali vedo margini molto ristretti. La delega fiscale, che doveva caratterizzare questa legislatura, è ormai poco più che un manifesto sbiadito a cui non si presta più attenzione.12 Certo, un diverso rapporto con l’opposizione potrebbe costituire una via d’uscita, ma la Casa delle Libertà è tutt’atro che in grado di tradurre in qualcosa di diverso dall’improvvisazione quell’appello del presidente, perché, per creare le condizioni che possano condurre a una sia pur minima convergenza di intenti, capace di far cambiare il clima, dovrebbe rinnegare se stessa. Difficile che si trasformi in strategia. Temo che man mano che il pallone si sgonfia tutti i riferimenti precedenti saranno mandati al mare e dovremo prepararci ad una evoluzione della Casa delle Libertà che la porti a salvare il salvabile (elettoralmente parlando). Una evoluzione che ci farà assistere a una accentuazione di politiche populistiche, welfaristiche (in senso tradizionale), o che comunque vadano in direzione di soddisfare il «patto per l’Italia», più altre politiche che elargiscano mance per le microimprese o che stringano legami con le grandi famiglie. Il tutto senza un progetto da un lato e collocando, dall’altro, tutta l’incombenza della responsabilità nazionale sul centrosinistra, lasciato in difficoltà anche dal punto di vista dell’esercizio dell’opposizione a tali politiche. Se ciò avverrà, richiederà un centrosinistra equilibrato e intelligente.13 Se esso rincorrerà il centrodestra su questo terreno sarà un disastro.

 

 

 

 

Bibliografia

1 «Corriere della Sera», 22 settembre 2002.

2 J. Jacobelli (a cura di), Dove va nel 2001 l’economia italiana?, Forum previsionale del Centro Culturale St. Vincent, Rubettino, 2000. Riproduco per intero una lunga parte, perché essa appare nel working paper, ma non nella pubblicazione, che fu accorciata per contenere l’intervento nello spazio prefissato. L’articolo affrontava anche altri argomenti in materia fiscale e di risanamento, che pure sarebbero rilevanti in questo contesto, ma sui quali non mi dilungo.

3 La stessa letteratura teorica fa riferimento a quegli equilibri indesiderabili, non giustificabili, exante, determinati dal pessimismo degli agenti, che si autoalimentano e quindi si autogiustificano perché trovano ex-post riscontro nel risultato dell’azione collettiva. Rimando al misuratissimo saggio di Bernasconi per la discussione della letteratura teorica nel contesto italiano in La finanza pubblica italiana. Rapporto 2000, Il Mulino, Bologna 2000, (a cura di Luigi Bernardi) [nota nel brano citato].

4 Cfr. I. Ariemma e S. Menichini, Un anno in rosso, Editori Riuniti, Roma 2002. E la serie non è completa, perché da maggio 2002 (momento di chiusura del libro) ad oggi quasi su ogni campo vi sono peggioramenti.

5 Cito a memoria, non testualmente.

6 Come è noto ne sono emersi un migliaio e la legge non è ancora definitiva, l’ultima scadenza essendo stata spostata a marzo 2003.

7 Tremonti non è stato sfiorato dall’idea che, venendo dopo un periodo di andamento sostenutodegli investimenti, la manovra non avrebbe potuto avere effetti impressionanti. In più veniva in concomitanza alla soppressione immediata di tutti i precedenti benefici, all’investimento senza contestualità con il nuovo schema, creando così nell’attesa che venisse varata in via definitiva, una stasi dell’investimento. La decelerazione conseguente dell’economia e, successivamente, gli eventi dell’11 settembre hanno fatto perdere e non solo posporre gli investimenti potenziali.

8 Ripeto, prendo il lato nobile di questi provvedimenti, che disegnano una linea; la chiamerei linea Fazio-Tremonti, nel senso che viene da Fazio, e non da oggi, l'indicazione di puntare sulla finanza come fatto propulsivo per la crescita futura dell’economia italiana. Non so se Fazio giudicherebbe corretta la traduzione di quell’indicazione in provvedimenti.

9 Adesso sappiamo anche che il 40% dei 53 miliardi di euro regolarizzati sono semplicemente rimasti all’estero.

10 Quanto avrà contato su quella decelerazione il fatto che si ricominciasse a parlare strumentalmente di «buco di bilancio»? Difficile dirlo, ma certo, quando si tocca quell’argomento l’indicatore di fiducia flette, come è regolarmente avvenuto. Quanto hanno pesato le vicende legate all’introduzione della Tremonti, citate nella nota 7?

11 È un motivo per cui ho sempre pensato che i timori a sinistra che si aprisse una lunga era del centrodestra fossero esagerati.

12 Immaginiamoci una situazione nella quale in futuro si tenti di applicare il «secondo» modulo della riforma IRPEF. Il «primo» (così sono presentate le rimodulazioni IRPEF in finanziaria), gli sgravi ai redditi più bassi, sarà acqua passata ormai acquisita e metabolizzata. Il nuovo sarà valutato per quello che di specifico contiene (sgravi ai più abbienti), non in congiunzione ad altro, e sarà politicamente impossibile vararlo. Alla soppressione dell’IRAP non ha mai creduto nessuno. La parte societaria è già stata introdotta per ciò che interessa contingentemente (l’aumento di gettito). Con l’attuale situazione del bilancio la riforma della tassazione finanziaria assume priorità zero.

13 Che, fra l’altro, cominci a riconoscere gli spazi di iniziativa politica e programmatica rigorosa che si aprono nel lavoro autonomo e nel Sud.