Crisi della FIAT o crisi del capitalismo italiano?

Di Patrizio Bianchi Venerdì 01 Novembre 2002 02:00 Stampa

La malattia della FIAT, così clamorosamente evidenziatasi con la dichiarazione dello stato di crisi richiesta ad ottobre 2002, non era certamente inattesa né imprevedibile. Da tempo si accumulavano segnali di malessere sempre più profondo al punto che lo stesso parlamento ha ritenuto di predisporre nella scorsa primavera un’indagine conoscitiva sull’industria dell’automobile. Dopo aver sentito i vertici aziendali, i sindacati, le autorità locali coinvolte, gli esperti ed infine lo stesso governo, le commissioni riunite di Camera e Senato segnalarono con chiarezza il rischio di una pesante crisi della FIAT alla ripresa autunnale, con la richiesta al governo di predisporre per tempo tutte le condizioni per evitare il collasso dell’impresa e nel contempo all’azienda ed alla proprietà di chiarire rapidamente la strategia di lungo periodo, così da ridurre quelle incertezze che segnavano in maniera evidente la situazione del gruppo.

 

La malattia della FIAT, così clamorosamente evidenziatasi con la dichiarazione dello stato di crisi richiesta ad ottobre 2002, non era certamente inattesa né imprevedibile. Da tempo si accumulavano segnali di malessere sempre più profondo al punto che lo stesso parlamento ha ritenuto di predisporre nella scorsa primavera un’indagine conoscitiva sull’industria dell’automobile. Dopo aver sentito i vertici aziendali, i sindacati, le autorità locali coinvolte, gli esperti ed infine lo stesso governo, le commissioni riunite di Camera e Senato segnalarono con chiarezza il rischio di una pesante crisi della FIAT alla ripresa autunnale, con la richiesta al governo di predisporre per tempo tutte le condizioni per evitare il collasso dell’impresa e nel contempo all’azienda ed alla proprietà di chiarire rapidamente la strategia di lungo periodo, così da ridurre quelle incertezze che segnavano in maniera evidente la situazione del gruppo.

Nonostante questo chiaro avvertimento si è giunti alla crisi di ottobre senza che né governo, né proprietà abbiano dato risposta adeguata alle richieste del parlamento. La crisi attuale ha certamente radici lontane, analizzate per la prima volta con accuratezza nel 1980, allorché l’allora ministro del Bilancio Nino Andreatta promosse una commissione di indagine sul settore, presieduta da Romano Prodi, che venne poi ripresa al ministero dell’Industria nell’ambito delle attività richieste dalla legge 675/77. Il 1980 fu l’anno di svolta nel lungo processo di ristrutturazione, che si era iniziato con la crisi degli anni Settanta. Quella prima crisi poneva fine al lungo ciclo di sviluppo postbellico, che aveva visto nel l’industria dell’auto il fattore di traino della crescita industriale. Un lungo ciclo che si basava su una domanda di primo acquisto di beni di massa, sostanzialmente soddisfatta in ogni paese da un ristrettissimo numero di imprese nazionali. Tale situazione si rompe negli anni Settanta, quando alla caduta di domanda (legata alla fine del ciclo di primo acquisto, alla crisi petrolifera, alla crisi internazionale) ed alla spinta sindacale si reagisce alla fine del decennio con massicci investimenti in automazione e con la necessità di mantenere i volumi produttivi, penetrando con più aggressività nei mercati vicini, in cui si potevano riscontrare stesse condizioni di domanda. Questa situazione viene resa più critica dalla forte pressione dei produttori giapponesi, che premono sul mercato sia americano sia europeo con veicoli prodotti con volumi e tipologie di prodotto molto competitivi nei confronti dei tradizionali leader locali.

In quella fase la FIAT reagì lanciando un piano di investimenti che ridisegnò alla base la stessa struttura del settore industriale. La Uno del 1983 segnò il vero avvio di un ridisegno organizzativo che si concluse dopo dieci anni con la Punto. Per intenderci: nel 1982 la FIAT disponeva di 12 modelli base costruiti usando 52 gruppi propri, cioè montati su un solo modello, e 41 gruppi comuni cioè montati su più modelli. Nel 1990 i 10 modelli base venivano costruiti con soli 13 gruppi propri e 49 comuni, a significare che in quegli anni l’intero sistema produttivo venne riorganizzato, attorno al modello Uno, che diviene il perno non solo della nuova gamma ma anche di una nuova strategia produttiva e di mercato. Un tale ridisegno si giustificava perché si delineava in quel momento un salto nell’estensione del mercato, legato al rilancio del mercato unico europeo, che portava tutti gli operatori fino ad allora operanti in mercati nazionali sostanzialmente captive a doversi misurare su un mercato tendenzialmente aperto e maturo. Contestualmente, con l’esito del forte scontro sindacale che ebbe proprio nel 1980 il suo crinale, si avviò una strategia di decongestione di Torino, con il trasferimento nel Mezzogiorno degli impianti di produzione dei nuovi modelli. È bene ricordare che in quegli anni difficilissimi tutto il sistema industriale si riorganizzò con sostanziali riduzioni occupazionali nei grandi impianti, forte destrutturazione produttiva, l’avvio del fenomeno dei distretti, ma anche delle prime privatizzazioni, che culminarono del dicembre 1987 con la cessione della Alfa Romeo alla FIAT, dopo diverse trattative dell’IRI con la Ford. Questa strategia si delineò con maggiore forza nella fase di nuova tensione di mercato coincidente con i primi anni Novanta, quando tutti gli operatori accelerarono le loro strategie di presenza europea, ma anche di riposizionamento a livello globale. La nuova fase di investimenti coincide con l’apertura di Melfi, con il lancio della famiglia di modelli Punto, ma anche con l’avvio delle attività in Polonia, Turchia, Sudamerica.

Nella seconda metà degli anni Novanta inizia tuttavia una nuova, terza, fase di riaggiustamento dell’industria dell’auto. Questa nuova fase di riorganizzazione coincide con la nuova fase di integrazione europea, che si delinea con la convergenza verso la moneta unica, e con l’estensione mondiale del mercato. Si profilano diverse strategie, che possono egualmente essere di successo se perseguite con coerenza. Il prodotto maturo non si individua più per il solo segmento di cilindrata (dal segmento small fino alle auto di grande cilindrata), ma sempre più per le rifiniture, la qualità delle sellerie, le tipologie delle strumentazioni, identificando un’area definita low value, cioè auto a basso costo in concorrenza essenzialmente di prezzo, ed auto a cui si riconosce, a parità di cilindrata, un premio di prezzo per l’immagine, la qualità, le prestazioni, detta high premium. Le strategie diventano quindi più complesse, gli investimenti in nuovi prodotti ancor più rilevanti, diventa cruciale la necessità di garantire una distribuzione sull’intero mercato europeo e mondiale. Di fronte a questo quadro tutte le principali case tendono a concentrarsi sul core-business, abbandonando i settori limitrofi, facendo acquisizioni mirate nel settore, stringendo accordi sia produttivi che distributivi che permettano la copertura globale del mercato.

Volkswagen, che dispone già dei marchi Audi e Porsche, acquista Seat e Skoda disponendo quindi di cinque marchi, quattro dei quali tendenzialmente full-liner, cioè con una gamma che copre tutte le cilindrate, che differenzia per valore intrinseco e premio riconosciuto. Quindi, leggendo il posizionamento dei marchi del Gruppo VW, dal basso (low value) all’alto (high premium), si sovrappongono Skoda, Seat, Volkswagen, Audi, Porsche, con auto di diverse cilindrate, che seguono però diverse politiche di prezzo e posizionamento sul mercato. Una strategia quindi di copertura completa del mercato europeo allargato, sia orizzontale (le diverse cilindrate), che verticale (con linee low price e linee high premium). D’altra parte il gruppo PSA compatta ancor più il suo posizionamento, sui marchi Peugeot e Citroên, consolidandosi nel suo mercato europeo e francofono (Nordafrica, estremo oriente), con un rafforzato presidio di vendita ed assistenza. Renault, superata la crisi, prende di fatto il controllo di Nissan, puntando dapprima sul suo tradizionale settore low price, in cui però ha pesantemente innovato i prodotti, spingendosi verso modelli high premium.

Del resto, con le sole eccezioni di BMW e Mercedes, in pochi anni tutti i produttori high premium sono stati acquisiti dai produttori maggiori americani: Ford acquisisce Volvo, Land Rover Jaguar e Aston Martin; GM prende Saab. Tutti gli operatori giapponesi e coreani, dopo anni di apparente invincibilità, affrontano difficoltà finanziarie significative, legate all’esplodere della crisi asiatica, da cui escono stringendo legami più o meno stretti con le maggiori case americane ed europee: DaimlerChrysler stringe un accordo con Mitsubishi e Hyunday, Ford con Mazda, GM con Isuzu, Suzuki, Toyota e Honda, oltre all’acquisto di Daewoo, Renault acquisisce il controllo di Nissan. In questo contesto si colloca l’acquisizione, avvenuta nel 1998, della terza impresa statunitense, Chrysler, da parte della società tedesca Daimler. Il caso assume grande rilevanza, perché concretizza per la prima volta un’acquisizione da parte europea di una grande impresa americana, mettendo in breve in luce tutte le difficoltà operative e manageriali di una tale fusione, ma nel contempo evidenziando il nuovo livello di concorrenza globale proposto da Daimler. Il gruppo Daimler, controllato da Deutsche Bank e da una varietà di istituzioni tedesche, operava in un vasto spettro del settore Automotive. Prima di questa fusione, aveva seguito una chiara strategia di rifocalizzazione settoriale, scorporando tutte le altre attività diversificate. Dapprima le attività ferroviarie, costituendo la società AD Tranz con la ABB, poi le attività aerospaziali, che confluirono nella EADS, costituita con Aerospatiale e CASA (divenute poi Atrium), infine i servizi finanziari, informatici e logistici, che vennero trasferiti alla nuova società DEBIS, avviata con Deutsche TeleKom. E la conquista di Chrysler.

Daimler, di fronte alla prevedibile crisi di sovraproduzione, si focalizza nel core-business impegnandosi contemporaneamente in una fusione che la colloca in posizione di leadership a livello mondiale su prodotti high premium di segmento elevato, ed in un processo di innovazione dei prodotti di fascia inferiore, che tratta esplicitamente come prodotti high premium (Smart e Mercedes Classe A). Una strategia quindi chiara, che punta sul settore auto come un settore globale e maturo in cui posizionarsi sulla fascia di alta qualità ed alto prezzo, con prodotti esplicitamente high premium. In questo quadro si colloca anche l’acquisizione da parte di BMW del marchio Mini, pure rilanciato in una netta posizione high premium, a completare verso il basso una gamma chiaramente collocata su una strategia di alti prezzi ed alta immagine.

Dovendo ragionare ora solo in via approssimativa per grandi numeri, assumendo i dati del 2001, in Europa si presentano i seguenti gruppi classificati per volumi

 

 VW Group (VW, Audi, Seat, Skoda)18,9 + 0,6 
 PSA (Peugeot, Citroên)14,4 +10,9
 Ford (Ford, Volvo, Land Rover, Jaguar)11,1 + 3,7
 GM (Opel/Vauxhall, Saab, altro)10,8 + 0,2 
 Renault10,7 + 1,0 
 FIAT (FIAT, Lancia, Alfa Romeo, altro)9,6 - 3,6
 DaimlerChrysler (Mercedes, Smart, Chrysler) 6,4 + 3,7
 BMW (BMW, Mini)3,7 + 9,3 
 Rover Group1,1 - 19,0 
 Tutti i giapponesi10,4 - 8,1 
 Tutti i coreani2,8 - 19,3 

 

Nei primi nove mesi del 2002 (gennaio-settembre) FIAT perde un ulteriore 3,7% riducendosi al 7,3% del mercato europeo. VW si assesta al 18,3%, grazie al successo del marchio Audi, PSA al 15%, Ford all’11,5%, giapponesi all’11,5%, Renault al 10,5%; negativo invece GM ridotta al 9,9%, cresce DaimlerChrysler al 6,6%, bene anche BMW al 4,3% nei primi mesi dell’anno; ancora in calo i coreani (2,7) e in ulteriore calo il gruppo Rover. Questo forte processo di consolidamento delle posizioni ettoriali, realizzatosi fra 1998 e il 2000, trova invece una FIAT che ritarda nella specificazione delle sue strategie di settore ed anzi dà segni discontinui di diversificazione verso altri comparti, culminati nell’acquisto di Italenergia, con una proprietà che sembra decisamente puntare erso una diversificazione finanziaria verso altri settori. Ma soprattutto, FIAT continua a delineare una strategia centrata su un solo modello low price, ritenendo che lì stia il perno di una gamma, da posizionare essenzialmente in un mercato nazionale da giocare tutto in difesa. Una strategia ripetuta nel processo di internazionalizzazione in cui in Polonia, in Argentina, in Turchia, in Brasile si è rilanciata la stessa strategia tradizionale di prodotti poveri per paesi in crescita. Una strategia infine che progressivamente ha svuotato il segmento alto del marchio FIAT, quindi low price, e che non ha utilizzato adeguatamente i marchi Premium Lancia e Alfa Romeo, fino all’incomprensibile non-utilizzo del marchio Ferrari, il cui eccezionale patrimonio di immagine, di tecnologia, di organizzazione non sembra avere alcun impatto sulle strategie del gruppo.

In questo contesto si colloca l’accordo tra FIAT e GM, che non ha portato ad una fusione come nel caso Daimler-Chrysler, ma si è fondato su uno scambio azionario fra proprietà, con un ulteriore diritto di opzione per il venditore con maturazione al 2004, e sull’attivazione di due joint ventures operative, l’una sulla componentistica, l’altra su meccaniche e motori, senza interessare l’integrazione delle reti distributive (come ad esempio nel caso Renault-Nissan). Il dato rilevante è comunque che il gruppo FIAT, che ha perso nel 2001 il 3,6% e nei primi nove mesi del 2002 un ulteriore 3,7% del mercato europeo, chiude i primi nove mesi del 2002 con perdite nette di 976 milioni di euro (contro un utile di 543 nel 2001); la sola FIAT Auto segna nei primi nove mesi 1.163 milioni di perdite nette; il debito del gruppo FIAT sale a 5,84 miliardi di euro. In questo contesto viene varata il 31 ottobre la ricapitalizzazione da 2,5 miliardi di FIAT Auto, che la proprietà sottoscrive dando infine un segno importante di impegno nella società, mentre GM comunica di non voler sottoscrivere questo aumento di capitale.

Allo stato attuale le soluzioni della crisi della FIAT, al di là di una possibile ripresa della domanda e dei necessari apporti di capitale, implicano una definizione chiara di strategia di lungo periodo, con interventi strutturali significativi per razionalizzare la produzione, per gestire il portafoglio di prodotti da offrire sui diversi mercati, per definire in breve tempo accordi per disporre di una adeguata rete di vendita a livello internazionale. La stessa ipotesi di accordo limitato a powertrain e componentistica, che pure ha dato già buoni risultati, sembra non sufficiente, dato che oltre a FIAT anche Opel e la stessa GM sono in grave difficoltà. Bisogna inoltre tener presente che GM ha acquisito Daewoo, che si situa sullo stesso segmento di FIAT e di Opel e che GM opera con propri impianti in Argentina, Brasile, Polonia e Russia. Quindi anche quelle attività dovranno entrare in un accordo di integrazione a livello globale, che sembra difficile – se questa è la strategia dei due gruppi – poter posticipare al 2004. La sola vendita della società a GM non risolverebbe quindi per sé i problemi della FIAT Auto, ma solo un’ampia ristrutturazione ed un ridisegno delle strategie di lungo periodo possono restituire dinamicità al gruppo, sia pure in un accordo globale che però deve approfondire i contenuti tecnologici ed organizzativi di una possibile integrazione fra imprese.

In questo senso va ripensato il ruolo delle tecnologie e dei marchi Premium disponibili da FIAT che finora sono stati marginali nel posizionamento del gruppo. Va precisato però che non si tratta solo di marchi, ma anche di tecnologie e capacità organizzative che debbono essere adeguatamente valorizzate. Si ricordi che attualmente le case di maggior successo, DaimlerChrysler, BMW, VW con il marchio Audi, sono quelle che decisamente hanno attuato una strategia di valorizzazione dei prodotti high premium, mentre la concorrenza sui prodotti low cost è segnata da un’ingente sovracapacità produttiva e da una possibile entrata di nuovi operatori asiatici.

In questo senso bisogna ribadire la necessità di mantenere la presenza in Italia dell’intero ciclo dell’automobile, ricordando come FIAT disponga in particolare nel Sud di impianti recenti ad alta produttività e come – sia pure nell’ambito di accordi soprattutto distributivi – si potrebbero valorizzare al meglio le capacità di immagine e di tecnologia dei marchi più qualificati del gruppo. Tuttavia bisogna ricordare che questa strategia implica una presenza dello Stato non rivolta ad offrire temporanei tamponamenti alla proprietà, ma a consolidare capacità di ricerca e sviluppo, presidio nelle funzioni più qualificate di un ciclo produttivo ad alta tecnologia, e se necessario anche interventi nelle aree meno favorite per sostenere processi di reindustrializzazione del tutto coerenti con le norme comunitarie.

La crisi della FIAT tuttavia è tale da segnare profondamente il capitalismo italiano, che continua ad essere caratterizzato da una presenza familiare che non ha eguali in Europa. Una presenza che dopo le grandi privatizzazioni degli ultimi anni Novanta, che avrebbero potuto garantire un ampliamento del nucleo di grandi imprese e di un sistema bancario in grado di sostenerne la crescita nel nuovo contesto europeo, ha preferito invece seguire la via della concentrazione nazionale, a partire dalle operazioni FIAT-Montedison-Italenergia e Pirelli-Olivetti-Telecom. Di fronte al quadro di riforme avviate in quel periodo ed al salto di mercato proposto dalla nuova Europa il vertice dell’industria italiana è sembrato ancora una volta frenare, rafforzando il carattere familistico e localistico della propria azione e partecipando molto scarsamente al grande fenomeno di fusioni ed alleanze sviluppatosi negli anni di creazione dell’euro.