A che punto è la Convenzione europea?

Di Giuliano Amato Venerdì 01 Novembre 2002 02:00 Stampa

Sino a questo punto il lavoro della Convenzione è andato al di là delle aspettative iniziali per almeno tre ragioni. Prima ragione: nella Dichiarazione di Laeken non si parlava di «Costituzione». Si chiedeva alla Convenzione di fare delle raccomandazioni per la semplificazione e la ristrutturazione dei Trattati e l’aggettivo «costituzionale» compariva solo accanto al sostantivo «futuro», seguito da un punto interrogativo. Ora la Convenzione ha già approvato l’ossatura di una vera e propria «Costituzione» e il passo è avvenuto senza alcuna forzatura.

 

Sino a questo punto il lavoro della Convenzione è andato al di là delle aspettative iniziali per almeno tre ragioni. Prima ragione: nella Dichiarazione di Laeken non si parlava di «Costituzione». Si chiedeva alla Convenzione di fare delle raccomandazioni per la semplificazione e la ristrutturazione dei Trattati e l’aggettivo «costituzionale» compariva solo accanto al sostantivo «futuro», seguito da un punto interrogativo. Ora la Convenzione ha già approvato l’ossatura di una vera e propria «Costituzione» e il passo è avvenuto senza alcuna forzatura. È stato per primo Eurobarometro a dirci che l’idea di una Costituzione europea gode dei favori della maggioranza in tutti i nostri paesi. E la stessa cosa ci hanno detto le tante associazioni e organizzazioni della società civile che abbiamo ascoltato.

Seconda ragione: della Costituzione europea farà parte la Carta dei diritti, già approvata come documento soltanto politico dalla Conferenza intergovernativa di Nizza. Non è stato facile ottenere il consenso di tutti su questo inserimento e quindi sull’attribuzione alla Carta di valore giuridico. E per trovare un accordo si è dovuto precisare che in essa vi sono veri e propri diritti, che come tali saranno salvaguardati dalle Corti, ma vi sono anche principi (soprattutto in materia economica e sociale), che avranno il solo valore di orientare l’azione legislativa dell’Unione e che, in assenza di questa, non potranno offrire la base di azioni giudiziarie. Molti avrebbero preferito ignorare questa distinzione, ma è vero che essa era già nella Carta e nelle «spiegazioni» che la accompagnavano ed i colleghi britannici sono stati molto fermi nel farla valere. Resta il fatto che, sia pure con questa limitazione, il valore giuridico della Carta, che era oggetto sino a ieri di una questione molto aperta, farà parte delle proposte unanimi della Convenzione.

Terza ragione: qui entrano in gioco non i documenti formali della Convenzione, ma quelli delle due principali famiglie politiche (quella socialista e quella popolare). In essi si riscontrano consensi importanti sui valori, le missioni e gli obiettivi dell’Europa di domani. Sappiamo tutti che, più delle relative definizioni, contano gli strumenti per realizzare ciò che si promette. Ma l’esperienza di questi cinquant’anni ci dice che anche fini e valori hanno importanza, per la forza che offrono alle proposte intese a realizzarli e per l’influenza che comunque esercitano sulle scelte politiche e giudiziarie dell’Unione. Fa differenza che l’Unione abbia tra i suoi scopi la crescita o lo sviluppo sostenibile, un’economia di mercato o un’economia sociale di mercato, la protezione delle sue diversità culturali o questa stessa protezione insieme però alla formazione di valori e di responsabilità comuni, una politica internazionale volta alla sicurezza dei suoi cittadini ovvero una politica estera che la sicurezza dei cittadini la colloca in un mondo più giusto, con meno povertà e con più rispetto dei diritti fondamentali di tutti. Ecco, leggendo i documenti dei socialisti e dei popolari si può fare la ragionevole previsione che sarà regolarmente la seconda l’opzione prevalente nella Convenzione sui temi qui indicati. E questo è un altro segno di positiva innovazione.

Ce ne saranno altri, che già l’ossatura della futura Costituzione ha in parte anticipato. Avremo un’Unione più leggibile, perché le sue procedure saranno meno numerose e più semplici e i suoi strumenti saranno anch’essi meno numerosi e li chiameremo con nomi meno astrusi di quelli di oggi. Gli atti che in tutti i nostri paesi chiamiamo «leggi», in sede europea si chiamano ora «regolamenti», ora «direttive», ora «decisioni quadro». E a volte il Consiglio dei ministri li approva con la «codecisione » del Parlamento, altre volte con la sua «cooperazione», altre ancora con il suo «parere», ovvero con il suo «parere conforme». Per non parlare del fatto che noi diciamo «Consiglio», ma in realtà ci sono innumerevoli Consigli – per i trasporti, per l’ambiente, per l’agricoltura e così via enumerando – e ognuno di essi è dotato di potestà legislativa. Ebbene, basta leggere quello che nella Convenzione si è scritto e si è detto sino ad ora per capire che tutto questo dovrebbe cambiare. E dovremmo avere soltanto leggi, regolamenti esecutivi delle leggi e provvedimenti individuali (oltre naturalmente alle decisioni politiche, prive di effetto giuridico), un’unica procedura legislativa e un unico Consiglio dei ministri con potere legislativo. Se, grazie a questo, i cittadini capiranno meglio l’Europa, la conseguenza sarà che potranno anche influenzarla di più, criticarla con maggiore efficacia, rendere più responsabili le sue istituzioni.

Qui però finiscono le buone notizie e comincia la parte su cui personalmente nutro forti preoccupazioni. Ed è la parte che riguarda gli equilibri da realizzare fra le istituzioni, sia nella vita complessiva dell’Unione sia in quei settori specifici per i quali più forte è la domanda di «più Europa»: la politica estera e di sicurezza comune e il coordinamento economico e sociale. In questi ambiti le gelosie fra le istituzioni e le gelosie degli Stati possono rendere assai arduo per la Convenzione il raggiungimento dei risultati che sarebbero necessari.

Come sanno coloro che seguono da vicino le questioni europee, c’è da tempo una forte domanda, che viene in particolare da alcuni dei paesi maggiori, perché si abolisca la presidenza semestrale del Consiglio europeo e si passi ad un presidente eletto dallo stesso Consiglio con un mandato più lungo. La domanda ha un fondamento, perché è vero che la presidenza semestrale ha diversi svantaggi, destinati ad aggravarsi con l’allargamento: priva di continuità le politiche del Consiglio europeo, perché ogni nuovo presidente è indotto a fissare sue priorità che mutano così ogni sei mesi; priva di autorevolezza lo stesso presidente nei rapporti internazionali, che pure deve intrattenere, perché non c’è abbastanza tempo di familiarizzare. Detto questo, è altrettanto evidente che, eliminando la rotazione semestrale, si perde anche il beneficio che ne deriva e che è rappresentato dallo stimolo a «pensare europeo» per gli apparati e per le stesse opinioni pubbliche dei paesi più piccoli e più periferici: un vero e proprio beneficio di integrazione. C’è inoltre il problema dei rapporti fra questo presidente e quello della Commissione: se avranno entrambi un mandato lungo, si potrà evitare che finiscano su una rotta di collisione? E non finirà per risentirne lo stesso ruolo della Commissione nel caso che il presidente eletto del Consiglio arrivi ad avere voce e autorità sulle stesse questioni di governo quotidiano dell’Unione?

Si tratta di un problema difficile, che secondo alcuni non ha soluzione e che quindi non dovrebbe neppure essere aperto, lasciando dunque le cose come stanno e tenendosi la rotazione semestrale con tutti i suoi difetti. Secondo altri lo si dovrebbe invece affrontare, adeguando tuttavia il contesto complessivo in modo da tener conto sia delle ragioni degli Stati minori sia di quelle della Commissione e del suo presidente. E le proposte, in questa prospettiva, sono già tante: per le ragioni degli Stati minori, un vice-presidente a rotazione, un team di presidenza con componenti a rotazione, le presidenze a rotazione dei Consigli dei ministri che rimarranno o almeno di alcuni di essi. Per le ragioni della Commissione, rafforzare il suo ruolo di responsabile di tutte le attività di coordinamento e di esecuzione e magari affidare al suo presidente il compito di presiedere il consiglio degli Affari generali, che è quello che prepara il Consiglio europeo.

Sono tutte proposte – come si vede – che vanno a incidere sul funzionamento di una macchina molto complessa e che dovrebbero essere valutate con l’unica preoccupazione di farne uscire un funzionamento equilibrato ed efficace. Temo invece che prevalgano altre preoccupazioni – gelosie e difesa di prerogative esistenti – col rischio che poi ne esca un patchwork, capace di produrre non collaborazione, ma interdizione istituzionale.

Sul terreno della politica estera, e sullo stesso terreno del coordinamento economico e sociale, si contrapporranno due ipotesi, entrambe modificative della situazione esistente, ma profondamente diverse fra loro. I sostenitori della prima si avvarranno dell’insieme delle esperienze sin qui fatte per dimostrare che dovunque ci si è affidati all’iniziativa della Commissione e ai suoi poteri conseguenti si è arrivati a risultati più rapidi e più rispondenti agli interessi europei; dovunque ci si è affidati al metodo del puro negoziato intergovernativo, ci si è molte volte arenati e, quando si è arrivati in fondo, ci si è ridotti a compromessi di basso profilo. Di qui la necessità, ai fini di una politica estera davvero comune e di un effettivo coordinamento economico e sociale, di affidarsi di più alla Commissione: da una parte inserendo in essa, sia pure con un ruolo speciale, l’Alto rappresentante per la politica estera, che oggi fa capo direttamente ed esclusivamente al Consiglio; dall’altra affidandosi ad iniziative e, ovunque possibile, a vere e proprie proposte della Commissione, che hanno una maggiore forza vincolante (il Consiglio, per cambiare una «proposta» della Commissione, deve votare all’unanimità). I sostenitori della seconda ipotesi diranno che tutto questo è semplicemente utopico, che stiamo appena ora cominciando a unificare queste politiche e non possiamo aspettarci che gli Stati siano disposti a fare spazio alla Commissione, che il vero problema è abituare progressivamente loro ad una gestione davvero comune. Per questo serve trasformare l’Alto rappresentante in un vero ministro degli Esteri che, a nome dell’Unione, presieda il Consiglio dei ministri per gli Affari esteri. E per questo serve dare al Consiglio europeo un presidente duraturo, che, dall’interno del Consiglio, rafforzi la lealtà all’interesse europeo dei primi ministri che ne fanno parte, abituandoli a rinunciare all’unanimità e ad accettare le decisioni a maggioranza.

Sarebbe sbagliato leggere la prima come l’unica strada ispirata da una motivazione sinceramente europeista e la seconda come un maquillage degli Stati membri per non cambiare niente. Dobbiamo saper fare i conti, piuttosto, con la diversità fra l’europeismo, ad esempio, dei tedeschi e quello, ad esempio, degli svedesi, che sono entrambi amanti dell’Europa, ma l’uno in chiave potenzialmente federale, l’altro in chiave di joint venture. Certo è che le due strade sono diverse e che la scelta fra di esse spezzerà il largo consenso che sembra esserci sui nuovi obiettivi dell’Unione e sarà determinante nel precostituire la capacità di perseguirli. Per questo vedo con preoccupazione l’avvicinarsi della scelta. E spero in cuor mio che possano avere ragione i lungimiranti convenzionali che già hanno proposto di cercare un’intesa usando il fattore tempo e quindi mettendo le due strade in sequenza, partendo ovviamente da quella tutta interna al Consiglio. All’euro, in fondo, ci siamo arrivati così.