Primarie per l'Ulivo (e non solo)

Di Augusto Barbera e Stefano Ceccanti Venerdì 01 Novembre 2002 02:00 Stampa

Le primarie si sono radicate negli USA, con alterne vicende, favorite dall’assenza di stabili organizzazioni di partito (rilanciate, però, sarebbe da aggiungere, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta contro le macchine locali dei partiti). Ma anche nella tradizione europea, più legata ai partiti, si stanno moltiplicando le occasioni di coinvolgimento degli iscritti e degli elettori nella scelta dei candidati.

Le primarie si sono radicate negli USA, con alterne vicende, favorite dall’assenza di stabili organizzazioni di partito (rilanciate, però, sarebbe da aggiungere, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta contro le macchine locali dei partiti). Ma anche nella tradizione europea, più legata ai partiti, si stanno moltiplicando le occasioni di coinvolgimento degli iscritti e degli elettori nella scelta dei candidati. Dal Partito socialista francese (Jospin assunse la leadership dopo la selezione da parte di tutti gli iscritti quale candidato presidenziale nel 1995), al Partito socialista spagnolo (l’esperienza negativa, perché troppo pasticciata, a livello nazionale nel 1998 non ha impedito che fosse poi utilizzata come normale a vari livelli), alla investitura di Tony Blair, che ha coinvolto quasi un milione di elettori del Labour (e persino in Israele in una situazione di emergenza si sono organizzate in queste settimane elezioni primarie nel partito laburista).

In Italia l’essenziale funzione di selezione dei candidati è stata assolta dai partiti, ma è stata spesso delegata, attraverso i voti di preferenza, alle organizzazioni collaterali e ai gruppi di pressione. Con la transizione maggioritaria le coalizioni hanno provveduto alla designazione dei candidati organizzando, nel centrosinistra, estenuanti tavoli di trattative fra partiti oppure, nel centrodestra, più agili riunioni nella villa di Arcore. In entrambi gli schieramenti i candidati prescelti sono in larga parte passati sulla testa degli elettori dei singoli collegi elettorali. Questo ha frenato la crescita delle coalizioni come autonomi soggetti politici, ma non sono mancate ripercussioni negative sulla stessa vita democratica dei singoli partiti del centrosinistra, alcuni dei quali hanno visto regredire quelle pur gracili procedure che in qualche modo coinvolgevano gli iscritti. L’alternativa si presenta netta: o le primarie o il ritorno al sistema delle preferenze. Queste ultime (peraltro ormai abbandonate in tutte le principali democrazie perché distruggono la coesione interna dei partiti) non solo sarebbero incompatibili con un sistema autenticamente maggioritario ma – non dimentichiamolo – sono state la causa non ultima delle degenerazioni di Tangentopoli.

Vi è di più: le primarie, consentendo ai singoli elettori di esprimersi al di là delle appartenenze partitiche, possono rappresentare lo strumento per contribuire a trasformare le coalizioni elettorali in soggetti politici adeguati ad una competizione bipolare. Ciò vale per entrambe le coalizioni, ma ancor più per il centrosinistra, che ha sempre dimostrato di avere il consenso di un numero maggiore di elettori rispetto agli elettori dei singoli partiti presenti nella quota proporzionale, sin dal 1996 quando furono mezzo milione (decisivi per vincere perché nel proporzionale l'Ulivo era al di sotto del centrodestra) e addirittura un milione e mezzo di voti in più nelle ultime elezioni, pur non sufficienti a vincere. Le primarie possono, inoltre, consentire di esprimere un candidato premier legittimato dalla consultazione degli elettori dell’Ulivo, che sia frutto di una scelta trasparente e che dia allo stesso una base di consensi tale da renderlo praticamente insostituibile alla guida della coalizione, cosa che non accadrebbe credibilmente se fosse scelto solo dai vertici dei partiti. Se infatti fossero questi ultimi a decidere, i vertici di partito sarebbero di fatto abilitati anche a revocarlo. Così, almeno, penserebbero gli elettori: alcuni di essi potrebbero allora preferire (come hanno forse già fatto nelle elezioni politiche scorse) un ordine anomalo (perché fondato sullo strapotere economico e mediatico) ad un probabile disordine, già visto nella legislatura 1996-2001. Non basta dichiarare di non voler ripetere l’errore: bisogna che il metodo scelto segni la discontinuità oggettiva rispetto ad allora.

Vi è poi, all’interno dell’Ulivo, un'altra obiezione contro l’attualità di questo problema: la capacità di costruire un’alternativa di governo al centrodestra partirebbe prima da un lavoro sui contenuti e solo dopo esigerebbe regole, tra cui in primis quella di maggioranza, non negata, ma diluita nel tempo (forse in attesa di sentirsi maggioranza?). Da vari esponenti dell’Ulivo fino a Giuliano Ferrara è un coro contro «l’Ulivo procedurale» che partirebbe dal tetto e non dalle fondamenta. Eppure, fermo restando che il lavoro sui contenuti non è mai concluso, nessuna persona di buon senso può negare che le linee di frattura interne all’Ulivo sui cosiddetti contenuti siano già chiare ed evidenti. Le diverse gerarchie programmatiche e le linee alternative di soluzione sono già presenti nel dibattito: come è possibile, ad esempio, presentare molto opportunamente (nel metodo) per la sottoscrizione a parlamentari di tutta la coalizione un documento in cui si nega il consenso a un intervento militare contro l’Iraq, provocando giustamente una conta sul tema e poi, da parte di alcuni dei medesimi firmatari, rifiutare il principio di maggioranza che consentirebbe proprio di misurarne il consenso? Se i contenuti ci sono già (anche troppi), abbiamo allora bisogno delle procedure, a cominciare dal voto a maggioranza, per scegliere tra di essi e per correggere in seguito tali scelte.

Le primarie, tra queste regole, non sono certo da ideologizzare quale strumento «principe della democrazia», ma non possono essere esorcizzate a priori. Le difficoltà non sono poche e gli argomenti portati contro, in questa o quella occasione, in questa o quella consultazione municipale, non infondati. Come tutte le terapie anche le primarie mentre possono curare determinate disfunzioni possono trascinarne con sé altre di diverso tipo, ma rimane il legittimo sospetto che talvolta sono evitate, anche laddove opportune, solo per interesse delle dirigenze di partito che sin qui hanno monopolizzato la selezione dei candidati. Non convince il rinvio all’approvazione di una pur opportuna disciplina legislativa che valga per entrambi gli schieramenti; se si vuole ciascuna coalizione, e in particolare l’Ulivo, ha le risorse per risolvere in via di autoregolamentazione ciò che norme di legge prevederebbero. Ed è anche possibile trovare in situazioni particolari forme alternative di coinvolgimento degli elettori. Ma perché farlo si è chiesto Sartori (in due articoli su «Il Corriere della sera» dell’8 e del 13 ottobre), seguito da Massimo Salvadori («La Repubblica» del 12 ottobre)? Margherita e DS – questo il ragionamento sartoriano – usino i prossimi tre anni a consolidarsi internamente e si «aiutino per i collegi uninominali del Mattarellum con desistenze reciproche». Per la scelta del premier ci si affidi, qualora si dovesse vincere, al presidente del consiglio espresso «dal partito più votato » (perché Fassino – si chiede Sartori – deve sottostare a Rutelli o viceversa?). Così nel secondo articolo, mentre nel primo lo stesso Sartori si era chiesto: «perché mai il nostro centrosinistra si deve a tutti costi ingabbiare in un aggregato unitario (…) così non si è visto in nessun altro sistema bipolare». Sartori non ha torto: così non si è visto in altri sistemi bipolari ma per la semplice ragione – che stranamente sfugge a un politologo di tanto rango – che in essi gli schieramenti sono imperniati su un partito elettoralmente e politicamente dominante. Limitiamoci a due paesi che hanno votato da poco e che hanno visto vittorie di coalizioni di segno politico diverso fra loro: la Germania e la Francia (ma si potrebbe aggiungere la Spagna e diversi altri paesi).

In Germania Schröder (designato, con una sorta di anomala elezione primaria, a suo tempo col voto degli elettori della Bassa Sassonia che doveva rivelare se egli fosse capace di andar oltre l’elettorato di appartenenza) è stato il leader vincente della coalizione rosso-verde perché ha trovato nei Verdi un partito disposto a riconoscere la leadership socialdemocratica (pour cause: stante il rapporto di forza 5 a 1) e a curare una parte ristretta dell’elettorato in sintonia con il partito maggiore senza la tentazione di inseguire i voti socialdemocratici, a differenza peraltro di quanto accaduto nella coalizione avversaria ove i liberali hanno preteso di spintonare l’alleato maggiore. In Francia il centrodestra ha vinto perché si è presentato ormai praticamente unificato attorno a Chirac in un nuovo partito, l’Union pour la Majorité Présidentielle, fondato proprio per l'occasione per dimostrare una salda coesione, che ha ormai consegnato alla storia la tradizionale differenza fra gollisti e giscardiani. Mentre la sinistra non era riuscita ad andare al di là di una fragile alleanza elettorale, il centrodestra francese si è presentato come un soggetto politico unitario. Si avvia quindi agli archivi l’utilizzazione del doppio turno come strumento per ricomporre, fra un turno e l’altro, le divergenze fra partiti della stessa area: sia la destra che la stessa sinistra (con la sola eccezione dei partiti dell’estrema) hanno appunto presentato candidati comuni fin dal primo turno (ne abbiamo un esempio anche noi nel pur riuscito doppio turno per le elezioni nei comuni e nelle province). Un progetto governativo, che ha l’avallo di Chirac, propone (non si sa oggi con quale esito parlamentare) di sancire questa situazione ammettendo al secondo turno solo il ballottaggio fra i due candidati più votati al fine di evitare nel momento decisivo la presenza di candidature estremiste di disturbo capaci di superare l’odierna soglia di accesso del 12,5% degli elettori (soprattutto candidati del Fronte Nazionale). Parlare ancora di quadrille bipolaire – come sulla scorta di Sartori fanno quanti ipotizzano un Ulivo «largo», a due o più gambe – significa guardare a una Francia che non c’è più da tempo, ma soprattutto dalle ultime elezioni. Poiché è noto a Sartori che nessuno dei partiti dell’Ulivo sfiora almeno il 40% come nel bipolarismo europeo, dovrebbe spiegarci come scegliere il candidato premier (e gli altri candidati) affidandosi ai rapporti di forza fra i partiti senza con ciò innestare una concorrenza distruttiva (senza «scannarsi» per usare una sua frase) fra i partiti della medesima coalizione. Quale si avrebbe ancor di più, per inciso, se si seguissero altre suggestioni sartoriane di abbandonare i collegi uninominali maggioritari per passare a sistemi sul tipo di quello tedesco, espandendo così la quota proporzionale ben oltre il 25% odierno. Ma, più espandiamo la proporzionale più le forze dell’Ulivo entrerebbero in fibrillazione tra di loro anziché cercare di attrarre voti nuovi, esterni alla coalizione, dato che, come rileva sul medesimo quotidiano Renato Mannheimer, i tre quarti degli elettori DS potrebbe votare per la Margherita e viceversa. L’Ulivo si regge su un’ambiguità positiva mettendo insieme partiti di diversa dimensione, movimenti, singoli elettori, eletti nelle istituzioni. L’organizzazione delle primarie, o comunque la selezione delle candidature, qualsiasi procedura venga scelta, deve tener presenti tutte le tre dimensioni, senza privilegiarne una in particolare.

Le primarie presuppongono pertanto che ci sia un’Autorità di coalizione (comunque la si voglia chiamare) costituita a tutti i livelli che rifletta queste dimensioni della politica e assicuri una regia. Sebbene si siano sprecate le espressioni fin qui usate per il livello nazionale – cabina di regia, coordinamento, governo ombra, comitato dei saggi ecc. – non si è fin qui avuto fortuna. Il tema è più generale riguardando l’elaborazione e il coordinamento delle politiche della coalizione, al centro e in periferia, ma diviene essenziale se si vogliono immaginare i possibili scenari delle primarie. Senza una regia unitaria si può anche pensare all’elaborazione di una politica per la coalizione (lo si fece con i mezzi artigianali di Prodi nel 1996), ma non alla organizzazione di una adeguata selezione dei candidati.

Ipotizziamo di dare vita ad una guida dell’Ulivo che sommi la legittimazione interpartitica a quella diretta dei cittadini a tutti i vari livelli, a quella di cerniera garantita dagli eletti: le autorità necessarie dovrebbero essere previste almeno in ogni collegio-Camera, in ogni regione (o grande provincia o subregione storica) a livello nazionale. La legittimazione diretta può esprimersi in modo effettivamente diretto nei singoli collegi, per poi prevedere elezioni di secondo grado ai livelli successivi. Poniamo che si decida che in ogni collegio-Camera l’Autorità sia di 30 persone: 10 sarebbero espressi dai partiti, 10 sarebbero eletti dai cittadini e 10 sarebbero rappresentanti già eletti nelle istituzioni. Supponiamo allora che l’Autorità regionale sia formata anch’essa con gli stessi numeri (10+10+10) e poniamo che ci siano nel territorio regionale 7 collegi- Camera, i 70 eletti diretti del livello più basso esprimerebbero i 10 «diretti» del livello regionale. Criteri analoghi andrebbero previsti per l’elezione dell’Autorità nazionale: formata anch’essa da 30 componenti, 10 sarebbero espressi dai partiti, 10 eletti dalle componenti dirette del livello regionale e 10 dai rappresentanti già eletti nelle istituzioni. Dovrebbe esserci ovviamente incompatibilità tra un livello e l’altro.

Le alternative concretamente ipotizzabili per la selezione dei candidati sono tre. La prima alternativa è la scelta diretta da parte dell’Autorità; essa può apparire opportuna in alcuni casi limitati: ad esempio quando si tratti di confermare candidature di uscenti con numero ridotto di mandati, che non abbiano provocato particolari conflitti con gli elettori o quando ci sia un’unica candidatura «naturale» che rende superfluo uno strumento di partecipazione diretta, al punto che in molti di questi casi, già risolti di fatto, si potrebbe temere una bassa partecipazione di fronte a un esito sostanzialmente scontato. Dovrebbe però essere sempre possibile per una quota di elettori abbastanza elevata, calcolata in percentuale rispetto ai voti conseguiti dalla coalizione in quel determinato collegio, proporre una forma più allargata di decisione, dimostrando che la candidatura non è poi così «naturale» come sostenuto dall’Autorità. Allargare la platea, in questo come in tutti gli altri casi, ha senso solo se l’allargamento è credibilmente efficace – per questo si immagina qui un quorum elevato di richiedenti – e non se l’apertura è limitata: altrimenti si resta prigionieri di «minoranze intense» o di pochi gruppi organizzati.

La seconda alternativa è la convocazione di una apposita Convenzione (una sorta di caucus, altra forma americana di scelta dei candidati) in cui l’Autorità predetermina la platea dei legittimati a comporre la Convenzione stessa bilanciando la presenza di cittadini singoli (in cui sovrarappresentare, per ragioni di equilibrio, i non iscritti ai partiti), di quadri di partito e di rappresentanti eletti nelle istituzioni (che per funzione sono già a cavallo, come già detto, tra partiti e società). Questa modalità potrebbe apparire più opportuna dove la scelta della sola Autorità sarebbe avvertita come limitativa o dove i suoi membri siano già divisi tra soluzioni diverse o per altre ragioni (di tempo, perché si è già sotto elezioni in caso di scioglimenti anticipati oppure si è in una zona dove la platea tenderebbe a coincidere con quella dei partecipanti ad una consultazione diretta degli elettori).

La terza alternativa sono le elezioni primarie vere e proprie, aperte a tutti i cittadini elettori. Poiché esse presuppongono che sia possibile identificare i soggetti chiamati a votare, unica soluzione possibile – peraltro suggerita dalle esperienze di altri paesi – è la registrazione da parte di chi intende votare quali «elettori dell’Ulivo», sia questa accompagnata o meno da una contemporanea iscrizione ai partiti o movimenti aderenti all’Ulivo stesso, da effettuarsi secondo modalità trasparenti controllate dai garanti appositamente espressi dall’Autorità di coalizione, ad esempio previa sottoscrizione di una dichiarazione pubblica di impegno personale al sostegno del candidato che uscirà dalle primarie e pagamento personale (sottolineiamo personale) di una quota di iscrizione. Questa terza soluzione è senz’altro preferibile per la scelta del candidato premier della coalizione, la cui legittimazione deve essere la più ampia possibile. I candidati potrebbero essere limitati ad una «rosa» predisposta dall’Autorità nazionale, ma si dovrebbe dare comunque la possibilità alle Autorità regionali (o a più Autorità di collegio dotate di una sufficiente rappresentatività) di fare emergere altre candidature.

Le elezioni primarie attivano nuove energie, ma non risparmiano lacerazioni. Per questo è decisivo il «tempo per dimenticare» e ricompattarsi dietro al vincente. La loro praticabilità è quindi legata al fatto che siano realizzate qualche mese prima delle elezioni effettive. Sono quindi più agevoli in caso di scadenze naturali o comunque prevedibili. Come dimostrano le esperienze di altri paesi e le poche esperienze italiane fin qui accumulate è decisiva la «normativa di contorno». A tal proposito occorre prevedere almeno, seguendo le fasi del procedimento: a) la nomina di garanti ad hoc, che a loro volta nominerebbero i componenti dei seggi elettorali; b) l’ampia pubblicità, con tempi e spazi adeguati, da dare sia alla preventiva registrazione sia al voto vero e proprio; c) la scelta di sedi pubbliche di registrazione (e soprattutto di voto) per assicurare trasparenza e «neutralità» rispetto alle appartenenze parziali, nonché per far sentire più a proprio agio gli elettori «di confine». Le primarie non rappresentano solo un valore in sé, in quanto strumento antioligarchico, ma vanno viste anche come elemento propulsivo che allargando la partecipazione proietti l’eletto oltre i confini della coalizione, dandogli maggiori possibilità di successo contro la coalizione alternativa; d) un quorum minimo di cittadini registrati per procedere effettivamente alle elezioni primarie , intorno al 5-10% degli elettori, a seconda del potenziale di partenza della coalizione (laddove l’Ulivo parte dal 50% può essere più alto, se parte dal 30% deve essere necessariamente più basso); e) un tetto alle spese della campagna, da rendicontare ai garanti (per esempio non più di un decimo del tetto previsto dalla normativa per le elezioni vere e proprie) e l’esclusione di candidati che risultino aver pagato quote di iscrizione; f ) la presentazione di candidature da parte di un certo numero di cittadini; la presentazione andrebbe accompagnata da un deposito cauzionario da restituire solo ai candidati che abbiano raccolto almeno il 10% dei voti onde evitare candidature a mero scopo «pubblicitario»; g) requisiti minimi di «filtro» per l’accettazione delle candidature come la non appartenenza allo schieramento avversario, l’assenza di condanne o di gravi procedimenti penali; h) la previsione di un certo numero di dibattiti pubblici fra tutti i candidati sotto la presidenza di moderatori scelti dai garanti; i) la delimitazione temporale della campagna elettorale (percorsi più lunghi penalizzano i non professionisti della politica e minano la partecipazione perché riducono subito le candidature competitive), con una delimitazione più ampia per le consultazioni sul premier – ruolo che implica per il candidato un impegno a tempo pieno e dove forse potrebbe essere utile un percorso più lungo simile a quello americano – con una eventuale Convenzione finale che raggruppi i delegati eletti in vari turni regionali; l) un quorum di validità della consultazione fissato ad almeno un terzo dei registrati; m) la pubblicità dello scrutinio e la trasparenza del controllo dei garanti.

Per quanto concerne il sistema elettorale dovrebbe essere sempre richiesta la maggioranza assoluta con eventuale ballottaggio tra i primi due classificati del primo turno. A tale sistema, che può risultare macchinoso, si potrebbe derogare in presenza di due elementi: un risultato comunque consistente del primo arrivato (almeno intorno al 40-45%) e un forte scarto, pressoché irrecuperabile, con un secondo candidato che stia sotto il 25%. Si potrebbe, in alternativa, prevedere un sistema di tipo «australiano» dando all’elettore la possibilità di esprimere due scelte in sequenza (ballottaggio in un solo turno in quanto si passerebbe allo scrutinio del secondo voto solo se il primo candidato, utilizzando i primi voti, non raggiunge la maggioranza assoluta). Per le primarie sul premier, una volta eletti i delegati regione per regione su liste collegate a un candidato a tale carica, si svolgerebbe un’assemblea finale: se su un candidato si fosse già registrata una maggioranza assoluta di delegati (possibile, perché, dopo il voto nelle prime regioni, i meno votati si sarebbero ritirati a favore dei più competitivi) l’assemblea sarebbe di mera e solenne ratifica; se invece vi fosse ancora una soluzione aperta l’assemblea voterebbe e deciderebbe sovranamente, eliminando i candidati minori e giungendo a delineare una maggioranza assoluta.

Da non trascurare un argomento degli avversari delle primarie, i quali pongono un problema di equilibrio politico fra le varie componenti della coalizione. Tale esigenza si pone per i collegi uninominali maggioritari, dato che per essi si vota contestualmente e in un unico procedimento. La soluzione più convincente ci sembra quella di poggiare la decisione sul livello regionale dell’autorità, che meglio si presta a monitorare il mantenimento degli opportuni equilibri politici. L’autorità, di comune accordo col candidato premier già selezionato in precedenza, potrebbe individuare tre fasce di collegi: quelli in cui per vari motivi (da esplicitare con la massima trasparenza) le primarie non appaiono opportune (salvo che, come già segnalato, un consistente quorum di elettori non chieda una procedura più larga); quelli in cui effettuare la consultazione primaria e quelli da riservare a una inevitabile compensazione finale. Svolte le primarie, la scelta dei candidati dei collegi della terza fascia potrebbe avvenire riequilibrando politicamente tra le componenti delle coalizioni eventuali scompensi quantitativi verificatisi, mai comunque riproponendo in un altro collegio un candidato battuto in una consultazione diretta. Tale problema non si pone negli stessi termini invece per un sindaco, un presidente di provincia o di regione o tanto meno per un candidato premier. In questi casi bisogna muoversi con coraggio e determinazione sapendo che se possono determinarsi squilibri fra i partiti in ogni caso la coalizione ha da guadagnare da candidature condivise dai propri elettori.

Una volta realizzate le primarie finiremmo necessariamente per accorgerci, come accade del resto ogni volta che si tratta di scegliere una posizione politica di merito, che le scelte alternative tra i candidati finirebbero per seguire altre linee di frattura diverse da quelle tra le varie appartenenze di provenienza, ricche di storia passata ma non decisive per l’oggi. In realtà facciamo fatica a trovare le regole che ci consentano di essere uniti non perché le divisioni siano troppo forti, ma perché esse sono sfalsate rispetto alla realtà effettiva. Forse questo è il vero principale motivo dell’opposizione di alcuni, che fondano il proprio ruolo sulle vecchie divisioni e su piccole ma tenaci rendite di posizione, ai metodi che svelano la realtà. E se le divisioni saranno laceranti, tanto da rendere difficile la compresenza nella coalizione, potrà in quel caso soccorrere (lo si è già sperimentato nel 1996) – qui sì – la «desistenza contrattata» nei collegi con le forze politiche non federabili. Siamo consapevoli quindi di un paradosso: le primarie servono per superare le divisioni e la frantumazione dei partiti dell’Ulivo ma esse presuppongono che i partiti siano uniti su una decisione fondamentale: quella di cedere una quota così rilevante di sovranità come la scelta delle candidature. Ma occorre tentare: sappiamo bene che l’ingegneria politica non può sostituire la «politica», ma le regole possono condizionare forme e modi della politica, come ha dimostrato il bipolarismo sia pure imperfetto, indotto dalla riforma elettorale in senso maggioritario.

Più in generale: non possiamo solo contrastare le scelte del governo Berlusconi, né individuare come unico problema i guasti dell’indirizzo politico di maggioranza e le stesse gravi forzature sul piano costituzionale (giustizia e informazione): bisogna lavorare per proporre un credibile governo alternativo e per evitare una possibile regressione nella palude centrista. Il timore di un Berlusconi onnipotente non è il peggiore degli scenari possibili: vi è ancor più quello di una esplosione dell’attuale maggioranza prima della fine della legislatura a cui essa pensi di far fronte con una restaurazione proporzionalistica che attragga parte dell’Ulivo in intese al centro e che emargini l’altra sua parte all’opposizione perenne (magari persino contenta di aver ritrovato un’identità pura al riparo dalle difficoltà del governo). Per questo le primarie per il futuro premier del centrosinistra, che non si possono improvvisare né dal punto di vista organizzativo né dal punto di vista del confronto programmatico, dovrebbero sin d'ora essere incardinate nell'agenda politica della coalizione: ciò evidenzierà che l’Ulivo non è scindibile e che è pronto al voto con una effettiva capacità di competere per la vittoria, sia in scadenze ordinarie sia straordinarie.