Sanità ad ogni costo

Di Ignazio R. Marino Sabato 01 Giugno 2002 02:00 Stampa

L’opportunità per avviare una riflessione sull’attuale stato di salute della sanità italiana (mi sia perdonato il gioco di parole) è stata stimolata dalla recente decisione dell’American Medical Association – la principale società medica statunitense – di avviare una ricerca su campioni di cittadini americani con lo scopo di testare in quale misura l’introduzione di incentivi economici potrebbe influire sulla decisione di diventare donatore di organi. La comunità scientifica si chiede dunque se sia eticamente ammissibile il pagamento degli organi destinati al trapianto. Il quesito è rapidamente rimbalzato dai comitati etici alle prime pagine di quotidiani come «The Wall Street Journal» innescando un dibattito che può suscitare un’analisi anche italiana.

 

L’opportunità per avviare una riflessione sull’attuale stato di salute della sanità italiana (mi sia perdonato il gioco di parole) è stata stimolata dalla recente decisione dell’American Medical Association – la principale società medica statunitense – di avviare una ricerca su campioni di cittadini americani con lo scopo di testare in quale misura l’introduzione di incentivi economici potrebbe influire sulla decisione di diventare donatore di organi. La comunità scientifica si chiede dunque se sia eticamente ammissibile il pagamento degli organi destinati al trapianto. Il quesito è rapidamente rimbalzato dai comitati etici alle prime pagine di quotidiani come «The Wall Street Journal» innescando un dibattito che può suscitare un’analisi anche italiana. Infatti, il passo compiuto dall’American Medical Association, seppur con grande e dichiarata cautela, conferma il generale rafforzarsi del rapporto fra sanità ed economia, salute e denaro, bene fisico e (im)mobile. Sarebbe ingenuo ed infondato sostenere che le due sfere non hanno alcun diritto di influire l’una sull’altra o che, per esempio, l’una non possa prendere in prestito dall’altra formati e strumenti. Altra cosa è, però, superare limiti non valicabili nascondendosi dietro l’alibi del male minore o del fine che giustifica mezzi eticamente inaccettabili.

Ritornando alla questione iniziale, sull’ammissibilità dal punto di vista etico del pagamento degli organi destinati al trapianto, il quesito nasce da un’esigenza concreta: quella di sperimentare nuove strade per incrementare la donazione degli organi e salvare la vita di molti ammalati che ogni giorno muoiono nell’attesa di un trapianto. Di fronte a dati sconfortanti (quindici pazienti in attesa di un organo muoiono ogni giorno negli Stati Uniti ed almeno tre in Italia) i comitati etici dell’American Medical Association e, più di recente, quello dell’American Society of Transplant Surgeons hanno voluto affrontare l’enorme discrepanza tra la «domanda» (pazienti in lista di attesa) e l’«offerta» (numero di donatori) ipotizzando anche di ricorrere al pagamento degli organi. Tutto questo offre l’opportunità di valutare la medicina dei trapianti come paradigma del rapporto sempre più complesso (non solo in Italia/Europa ma nel mondo) fra sanità, etica, politica ed economia. Del resto la medicina, pur nella sua complessità, si presta a rappresentare lo specchio di un’epoca dal momento che in nessun altro ambito il singolo cittadino è il vero protagonista.

Inserito nel panorama moderno di una sanità inevitabilmente legata all’economia e al profitto, il trapianto si presta bene a definire l’individuo in termini di commodity, di materia (prima e/o derivata). Parafrasando Benjamin ed il suo celebre saggio sulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, il concetto di integrità (fisica e morale) non perde solo il suo senso originario ma viene minato dall’affrancamento di una vera e propria compravendita autorizzata. Da qui la visione di una sanità che tende all’esaurimento di una dimensione sociale che integri individuo, Stato e solidarietà. In maniera spesso agghiacciante in questo frangente la medicina ripropone, e addirittura acutizza, la differenza fra Nord e Sud, fra paesi ricchi e poveri, e reintroduce con toni quanto mai foschi un concetto di schiavitù fisicamente e letteralmente mutilante. È la prova che spesso è il censo e non la patologia a dettare le regole della sanità.

La disponibilità di chirurghi senza scrupoli in alcuni paesi del mondo (come Turchia, India, Perù ecc.) ha consentito il nascere di un traffico illecito di organi, probabilmente limitato ai reni, che infanga sia la professione medica sia i paesi che lo tollerano. Questo traffico di reni sfrutta individui indigenti e disperati ridotti a cedere a costi irrisori (mille dollari a Bombay, duemila a Manila, tremila in Moldavia, dieci mila in America Latina) un proprio organo che viene rivenduto insieme all’intervento chirurgico, eseguito clandestinamente, a cifre che oscillano fra cento e duecentomila dollari. Questo fenomeno dovrebbe essere considerato come un vero e proprio crimine verso l’umanità e come tale punibile e perseguibile in ogni paese del mondo. Chiunque decida, anche se sofferente, di sfruttare la povertà altrui acquistando un organo a proprio beneficio, si rende colpevole di un gravissimo reato. Se liberato dalla dialisi attraverso un viaggio ed un trapianto illegale in India o in Perù, il paziente dovrebbe essere arrestato e perseguito nel suo paese di residenza, dove l’individuazione del reato risulta molto facile dal momento che, ritornando con un organo trapiantato, dovrà seguire la terapia antirigetto ed avrà bisogno dei farmaci e del controllo costante di un medico. In questo modo il traffico illecito degli organi cesserebbe rapidamente. Viaggi di questo tipo, documentati recentemente da una popolare trasmissione televisiva americana (CBS «48 Hours», 11 febbraio 2002), non possono essere confinati nell’area delle leggende metropolitane ma devono essere fermati.

Differenti soluzioni al problema della carenza d’organi possono essere valutate o approfondite con attenzione in modo da esaminarne l’eticità. Alcuni studiosi americani avevano già avanzato proposte simili a quelle recenti dei comitati etici dell’American Medical Association e dell’American Society of Transplant Surgeons: Schwindt e Vining nel 1986 proposero l’istituzione di un contratto con lo Stato ed il diritto al prelievo degli organi dopo la morte del cittadino. Altri, come Hansman nel 1989, proposero negli USA, dove il sistema sanitario è basato sulle assicurazioni, un contratto rinnovabile con una compagnia assicuratrice la quale pagherebbe una somma al cittadino che accetti in vita di donare gli organi una volta deceduto. Il paziente che riceverà un organo dopo la morte del donatore pagherà quell’organo direttamente alla compagnia assicuratrice.

Sono strade apparentemente più lecite del traffico d’organi in Turchia o Perù ma in realtà altrettanto pericolose: esse alterano radicalmente il concetto di donazione che dovrebbe essere legato soltanto all’idea di altruismo e di solidarietà sociale. La legislazione federale americana (National organ transplant act) afferma con chiarezza che «nulla di valore può essere scambiato per ottenere un organo (…)», escludendo qualunque forma di compenso diretta o indiretta, comprese quindi le ipotesi appena citate. Tuttavia, va osservato che questa norma federale, se analizzata dal punto di vista strettamente etico, viene già infranta nei casi di vendita di cellule o tessuti. Il caso più chiaro è forse quello degli ovociti umani, venduti regolarmente a scopo riproduttivo negli Stati Uniti, dove raggiungono un valore di mercato di circa settantamila dollari. Un altro esempio è rappresentato dalla Pennsylvania dove è stata approvata una legge che prevede un contributo per le spese del funerale di una persona deceduta nel caso in cui la famiglia acconsenta alla donazione degli organi. Da qui il passo è breve verso meccanismi che inducano alla riduzione delle tasse della famiglia, al pagamento della retta scolastica di un bambino, oppure a staccare direttamente un assegno in modo che i parenti del donatore utilizzino il denaro nel modo che ritengono più opportuno. E se si accetta il concetto di «denaro contro organi», che differenza fa che provengano da una persona deceduta oppure da un essere umano vivo e in piena salute? Potrebbe anzi essere ancora più giusto ricompensare una persona in vita che, vendendo una parte di sé, rende possibile la guarigione di un suo simile. Oppure indicare come «miglioramento della qualità di vita» delle aberrazioni come i recenti trapianti di ovaio (Arabia Saudita) ed utero (Cina) a scopo riproduttivo, con organi prelevati da donatori viventi, che non sono stati eseguiti clandestinamente ma hanno addirittura ricevuto spazio su prestigiose riviste scientifiche ed il plauso di alcuni ricercatori. Insomma, l’apoteosi dell’egoismo che infrange ogni regola etica. Il ragionamento porta lontano e alimenta un dibattito che va ben oltre la problematica del trapianto dove, da una parte si sostiene che non sia moralmente accettabile lasciare che i pazienti muoiano in lista di attesa, per cui se gli incentivi economici possono contribuire a far aumentare le donazioni ben vengano; dall’altra, invece, si pensa che esistano dei limiti invalicabili e che il corpo umano non possa essere considerato come una merce, con un prezzo fissato per la vendita. Pratiche di questo tipo coinvolgono implicitamente chi non gode di un’ampia disponibilità economica. Saranno dunque i meno abbienti quelli destinati a donare gli organi? Se poi si applica questo ragionamento alle donazioni da viventi, perché mai una persona in buone condizioni economiche dovrebbe privarsi di una parte di sé per curare qualcun altro? Chi è meno abbiente, invece, potrebbe anche farlo per acquistare una casa o per permettere al proprio figlio di frequentare l’università. Potremmo allora considerare etico e moralmente accettabile un sistema in cui le donazioni aumentano ma dove, a conti fatti, sono i poveri a «donare» mentre i più ricchi si possono accontentare di ricevere? La verità è che qualunque strada che preveda una forma di compenso economico deve essere evitata perché porta ad un’allocazione iniqua degli organi, basata sulla possibilità di pagare e non sulla reale urgenza medica o priorità in lista di attesa. Idee di questo tipo mettono in discussione la dignità di ognuno di noi e rischiano di affrancare una pericolosa sovrapposizione tra sanità e mercato. Evitiamo tuttavia inutili ingenuità, è indubbio che il legame tra sanità e regole di mercato esiste e non si può negare che le leggi dell’economia debbano integrare la gestione sanitaria ma questo deve avvenire senza sorvolare sul fine della sanità pubblica e sull’interesse dei cittadini-pazienti.

Partendo da queste considerazioni peculiari alla medicina dei trapianti possiamo estendere il nostro discorso a valutazioni più ampie su un sistema di sanità pubblica che nel nostro paese deve garantire un diritto, offrire cioè la sicurezza che sul terreno della salute non vi siano discriminazioni sociali. Alcune recenti decisioni governative hanno la potenzialità di alterare radicalmente il servizio sanitario italiano e di trasformarlo da patto di solidarietà con i cittadini a realtà ben diversa dove il censo può diventare l’elemento discriminante nei livelli di assistenza. Non si tratta di fare un’analisi di parte, ma anzi si vogliono esaminare aspetti del Servizio sanitario nazionale partendo da considerazioni di economia ospedaliera condivise in sistemi come quello degli Stati Uniti e valutazioni di servizi offerti che partano dai presupposti di solidarietà propri della cultura cattolica. A questo scopo si farà riferimento a tre esempi molto chiari: la normativa dell’attività dei medici dipendenti del Servizo sanitario nazionale, i Livelli essenziali di assistenza (LEA), ed infine il decreto cosiddetto «tagliaspesa» dell’agosto 2001.

Piena libertà dell’attività dei medici dipendenti dal Servizio sanitario nazionale, possibilità di esercitare la libera professione praticamente senza limiti e di accedere a livelli direttivi pur senza il vincolo dell’esclusività (prevista dalla precedente riforma). Di fronte a queste novità nell’ambito dell’organizzazione del lavoro dei medici, da alcuni interpretato come riedizione di un déjà vu fallimentare, può essere utile rifarsi ancora una volta all’esempio della realtà nordamericana. Il sistema sanitario statunitense, per il 95% affidato a soggetti privati, si basa su regole tutto sommato semplici e funzionali al sistema stesso, rispecchiando uno schema tipico del modello aziendale: chiunque firmi un contratto con un ospedale o un centro medico universitario, sottoscrive tra le altre cose un impegno di non-concorrenza con il datore di lavoro. Sarebbe inconcepibile per un’amministrazione sanitaria americana permettere che un chirurgo, un anestesista o un radiologo, una volta terminato il lavoro in ospedale, presti la propria opera in un’altra struttura, direttamente concorrente. Oltre ad essere inconcepibile è anche contrario ad un sistema liberale dove la concorrenza è necessaria ma non priva di regole. È chiaro che in un’organizzazione che richiede l’esclusività delle prestazioni, anche i livelli retributivi destinati ai professionisti devono essere adeguati. Del resto, questo tipo di ragionamento è valido per qualsiasi compagnia privata anche in Italia, dove nessun consiglio d’amministrazione accetterebbe che un manager lavorasse per l’azienda e allo stesso tempo per il diretto concorrente. Al di là delle regole, non va sottovalutato il fatto che per rimanere al passo con i rapidi progressi della scienza ogni medico, oggi più che nel passato, deve fare i conti con l’esigenza di dedicare una parte della propria giornata lavorativa allo studio e alla ricerca, in un’ottica di aggiornamento costante, non trascurabile e difficilmente compatibile con una doppia attività clinica dentro e fuori l’ospedale.

Sorvolando sui ragionamenti legati ai principi etici della professione medica che dovrebbero individuare nella salute del paziente, oltre che nella sua dignità, il comune denominatore di ogni scelta, la responsabilizzazione dei medici e il loro costante adeguamento alle nuove terapie e tecnologie sono le condizioni necessarie per la costruzione di una sanità non solo competitiva ma soprattutto efficace. Il principio di totale libertà della professione medica in realtà sottende un altro aspetto, poco liberale, che danneggerà inevitabilmente, come già accaduto in passato, la sanità pubblica. Il medico, per quanto onesto, nell’esercizio della sua attività libero-professionale nell’ambito di strutture aziendali private tende a rispondere a logiche molto precise. Volontariamente, o su indicazione della struttura privata, opererà una distinzione tra pazienti che richiedono cure dispendiose e lunghe degenze, da assistere in ospedale, e casi meno gravi e molto remunerativi, destinati alle cliniche private. Il vantaggio per queste ultime non sarà solo in termini economici, ma anche di qualità delle prestazioni erogate. Destinato a trattare casi complessi, malati lungodegenti, anziani, il settore pubblico risulterà poco efficiente, scarsamente competitivo e responsabile dell’aumento del deficit sanitario pubblico. E in questo modo saranno giustificati, se non addirittura auspicabili, gli spazi sempre maggiori destinati all’imprenditoria privata. Sarebbe dunque questa la logica che sta alla base del risanamento della sanità italiana? Non sarebbe un dovere di chi è preposto alla gestione della cosa pubblica occuparsi prima di tutto di migliorare e ottimizzare il funzionamento delle strutture pubbliche?

Entrati in vigore il 23 febbraio del 2002, i Livelli essenziali di assistenza, i cosiddetti LEA, stabiliscono i servizi e le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini. L’obiettivo di eliminare una serie di prestazioni oggi considerate non più indispensabili, ma in passato garantite, è intuitivamente quello di diminuire i costi della spesa sanitaria. A questo proposito una prima riflessione va fatta sul concetto di «essenzialità», che non può corrispondere al «minimo indispensabile» per curare chi è malato con lo scopo di far quadrare il bilancio. Non è possibile, infatti, ignorare che la riduzione di alcune prestazioni, in particolare quelle rivolte a migliorare la qualità della vita, all’assistenza ai malati cronici, a mantenere in buona salute gli anziani segue un percorso antitetico all’orientamento generale della medicina moderna. Una medicina che è fortemente orientata al benessere, cioè non esclusivamente alla cura delle patologie, ma alla prevenzione ed all’eliminazione delle cause di malattia, senza limitarsi alla gestione delle urgenze. Non sembra dunque una scelta lungimirante quella di tagliare questo tipo di spese o, di fatto, renderle disponibili solo ad un gruppo ristretto di cittadini economicamente e culturalmente favoriti. Il concetto non è del tutto nuovo, era già stato introdotto nella trascorsa legislatura ma con una differenza fondamentale: i livelli essenziali di assistenza erano anche definiti «omogenei» nell’intento di rendere meno grave il divario tra le prestazioni sanitarie erogate dalle differenti regioni, se non in tutti i settori, almeno per i servizi indispensabili. Per chi non ha un’esperienza diretta della sanità in alcune regioni dell’Italia meridionale forse non è facile comprendere quanto fosse giustificata la preoccupazione di rendere più omogenea la situazione. Forse proprio per questo oggi è di fatto passato in secondo piano il concetto di uguaglianza e omogeneità dei servizi mentre è prevalso quello dell’autodeterminazione delle regioni. Infatti, è previsto che ogni regione possa liberamente scegliere di allargare la lista delle prestazioni considerate essenziali, purché se ne assuma gli oneri economici. Si va dunque, inevitabilmente, verso una differenziazione e non verso un’omogeneizzazione dei livelli di assistenza, dal momento che è facile immaginare che le regioni più ricche e meglio amministrate riusciranno ad includere nei servizi al paziente molte terapie in più di quelle che saranno invece messe a disposizione nelle aree meno favorite ed economicamente svantaggiate.

Si favorisce in questo modo un sistema che già oggi è a macchia di leopardo, in cui i centri di eccellenza, non ancora sufficientemente numerosi e concentrati soprattutto nelle regioni settentrionali del paese, si affiancano nosocomi obsoleti, in molti casi non in grado di assicurare nemmeno i livelli essenziali di cura. Ma, cosa ancora più grave, si ammette e si riconosce a livello istituzionale il concetto di diversità dell’individuo di fronte alla malattia e in questo modo lo Stato abdica alla sua funzione prioritaria di garante dell’uniformità di trattamento per tutti i cittadini. Un’amara constatazione che, di fatto, non modificherà la situazione attuale ma piuttosto contribuirà ad aggravare il fenomeno già troppo radicato della migrazione sanitaria che affligge i pazienti del Sud, rassegnati, perché ormai abituati, a lunghe peregrinazioni verso Nord per poter beneficiare di cure in strutture d’eccellenza sia private che pubbliche.

A questo ragionamento si aggiunge un ulteriore elemento che sancisce l’ammissibilità della disuguaglianza. Sempre nell’ottica di ridurre il deficit e tagliare le spese del settore sanitario, nell’agosto 2001, con il cosiddetto decreto «taglia-spesa», è stato demandato alle regioni il compito di contenere i costi relativi alla spesa farmaceutica, consentendo, di fatto, alle singole amministrazioni regionali di stabilire a quale metodo ricorrere, dai ticket sulle ricette a quelli sui farmaci fino ad arrivare alla negoziazione diretta del prezzo dei medicinali con le industrie farmaceutiche produttrici. Il risultato di questo tipo di politica, in termini di equità e di uguaglianza di trattamento, è prevedibile oltre che scontato. Si può definire «progresso» questo? Oppure gestione razionale della sanità? È davvero questa la sanità che auspicano i cittadini-pazienti?

Da una recente indagine a proposito delle aspettative degli italiani nei riguardi del sistema sanitario, realizzata dal CENSIS e dal Forum per la Ricerca Biomedica (risultati del Monitor Biomedico presentati il 9 aprile 2002), risulta che il 56,3% degli italiani è favorevole, con diverse motivazioni, al federalismo in ambito sanitario. Tuttavia, il 95,9% ritiene che le regioni dovrebbero fornire tutte le stesse prestazioni e il 79,4% che i costi delle cure non dovrebbero essere diversi nelle differenti aree geografiche a seconda delle esigenze locali, mentre parere negativo (71,3%) viene espresso rispetto all’eventualità di dovere pagare un contributo locale per ottenere più prestazioni. Sono dati che meriterebbero di essere analizzati in maniera più approfondita ma risulta chiara l’esigenza, espressa in maniera praticamente unanime, di una sanità decentrata purché uguale per tutti. I cittadini italiani sono profondamente legati ad un servizio sanitario accessibile a tutti, non ne desiderano lo smantellamento, auspicano riforme che allo stesso tempo temono e non sono propensi ad un sistema di tipo privatistico dove per ottenere una prestazione è necessario aver sottoscritto un’assicurazione privata. La deriva verso una sanità d’eccellenza destinata a pochi privilegiati contrapposta ad una «essenziale» per tutti gli altri potrà forse contribuire a non chiudere il bilancio in rosso ma certamente non determinerà il progresso del paese, non rappresenterà un vantaggio per i cittadini, non risolverà il problema del deficit sul lungo periodo.

Concetti come solidarietà, equità, miglioramento generale dello stato di salute, tutti principi che hanno contraddistinto l’evoluzione sociale del nostro paese e ne hanno determinato il progresso e il benessere attuale, vengono oggi associati all’idea di spreco, di inefficienza, di arretratezza. Come se il futuro e la modernizzazione dovessero implicare l’inevitabile cancellazione della storia e non potessero rappresentare invece l’eredità positiva di quanto è stato raggiunto fino ad oggi benché ancora migliorabile. Non trascuriamo il fatto che l’indebolimento del Sistema sanitario nazionale contribuisce a far perdere l’identità stessa di un paese, ad incrementare le differenze tra aree geografiche e tra ceti sociali, a creare divisioni e profonde ingiustizie che non potranno evitare il risentimento e l’insofferenza da parte dei cittadini i quali, lesi nella loro dignità, si sentiranno privati di un diritto giustamente percepito come irrinunciabile.

Si tratta allora di fare chiarezza sugli obiettivi: se l’interesse di chi governa deve essere rivolto prima di tutto alla salute dei cittadini e all’efficienza del servizio pubblico, i punti programmatici sono semplici, non basati su scorciatoie per risanare bilanci o, più cinicamente ancora, sulla diminuzione della competitività del sistema pubblico a favore del profitto nel privato. Individuare i tanti sprechi nel pubblico è senz’altro una strada da seguire, così come impegnare risorse in massicce attività di prevenzione delle malattie. Una legislazione efficace sul fumo, per esempio, farebbe risparmiare nelle finanziarie dei prossimi decenni migliaia di miliardi destinati alle terapie oncologiche. Una scelta lungimirante dovrebbe essere quella di destinare energie consistenti, in termini di finanziamenti e di progettazione, alla ricerca e all’innovazione tecnologica, con la selezione dei progetti affidata a comitati scientifici internazionali e garantita da un sistema di riservatezza in grado di prevenire i finanziamenti mirati e premiare esclusivamente intelligenza e creatività. Un paese dove si sottovaluta l’importanza della ricerca non può essere competitivo e la conseguente, oltre che inevitabile, «fuga dei cervelli» è disastrosa non solo per la perdita di risorse intellettuali ma anche in termini economici. In questo settore la collaborazione con il privato, per esempio con le industrie farmaceutiche, può rappresentare un’utile risorsa ma la responsabilità delle scelte deve essere esercitata con integrità scientifica a livello delle istituzioni centrali.

Infine, il federalismo sanitario dovrebbe essere inteso non come semplice delega alle regioni di alcune importantissime funzioni ma come metodo per rendere più agili specifiche azioni sul territorio, pur con la garanzia di un coordinamento centrale. Rivolgere una particolare attenzione al territorio ed alla sua identità socioeconomica può comportare una differenziazione delle politiche della salute. Senza una conoscenza diretta, reale ed approfondita dei bisogni delle popolazioni in ogni regione non si misura la domanda né l’offerta della sanità, e senza questa conoscenza diventa impossibile incidere sulle scelte nazionali di politica sanitaria. Tuttavia, lo Stato non può abdicare alla sua funzione di coordinamento ed effettiva verifica con poteri anche sostitutivi che gli consentano un intervento diretto. Ogni rinuncia in questo senso contribuirà a incrementare la differenza tra prestazioni sanitarie nel Nord del paese, spesso superiori per qualità alla media Europea, ed il Sud dove il ritardo strutturale e tecnologico richiede interventi e pianificazione di intensità differente.

 

 

 

L'autore ringrazia Alessandra Cattoi e Claudia Cirillo per la raccolta dei dati e la collaborazione alla stesura e revisione del testo.