L'Italia vista dalla Francia: anomalia o laboratorio?

Di Massimo Nava Sabato 01 Giugno 2002 02:00 Stampa

Tutto si può discutere, fuorché negare la lungimiranza di un leader comunista che, quattordici anni prima della caduta del Muro di Berlino, dichiarò che l’ombrello dell’Alleanza atlantica era preferibile al Patto di Varsavia. Enrico Berlinguer lo affermò in una storica intervista al «Corriere della Sera», alla vigilia delle elezioni politiche del 1975, accentuando lo «strappo» da Mosca e la revisione ideologica del PCI che, qualche anno dopo, avrebbe cambiato nome, inserendosi a pieno titolo nelle grandi correnti della socialdemocrazia europea. La lungimiranza si può riconoscere anche a un leader neofascista che dichiara di riconoscersi nei valori della Resistenza.

 

Tutto si può discutere, fuorché negare la lungimiranza di un leader comunista che, quattordici anni prima della caduta del Muro di Berlino, dichiarò che l’ombrello dell’Alleanza atlantica era preferibile al Patto di Varsavia. Enrico Berlinguer lo affermò in una storica intervista al «Corriere della Sera», alla vigilia delle elezioni politiche del 1975, accentuando lo «strappo» da Mosca e la revisione ideologica del PCI che, qualche anno dopo, avrebbe cambiato nome, inserendosi a pieno titolo nelle grandi correnti della socialdemocrazia europea. La lungimiranza si può riconoscere anche a un leader neofascista che dichiara di riconoscersi nei valori della Resistenza. Gianfranco Fini lo ha fatto, alla vigilia del 25 aprile scorso, portando avanti il processo di revisione storica ed ideologica della destra nazionale iniziato con il congresso di Fiuggi.

Dopo il successo di Jean Marie Le Pen in Francia e del movimento populista in Olanda, molti giornali europei hanno radiografato l’avanzata del populismo e dei partiti d’ispirazione xenofoba in tutta Europa, accompagnando articoli e analisi con grafici e percentuali sulla consistenza del fenomeno nei diversi paesi. In queste radiografie, l’Italia figurava in un confortante ultimo posto, «rappresentata» dal 3% della Lega Nord. Un’inezia, rispetto all’Austria di Heider, alla Francia di Le Pen, all’Olanda di Fortuyn, ai nuovi e vecchi fantasmi che si ripresentano in Germania, soprattutto nei Länder dell’Est. Qualche cosa di diverso rispetto all’Italia descritta per mesi da «Le Monde» e «Liberation». Non è questa la sede per ripercorrere cause e molteplici origini sociali del movimento di Umberto Bossi e per ricordare differenze che pure esistono rispetto alle concezioni dello Stato centrale e dell’Europa teorizzate, ad esempio, in Francia da Le Pen. Pur volendo incasellare la Lega in questo scenario, per i frequenti atteggiamenti anti-immigrati di esponenti leghisti, qui interessa notare che il consenso che essa raccoglie in Italia è certamente minore, e comunque favorito anche da ragioni sociali, bisogni e ambizioni diverse, rispetto ad «analoghi» movimenti continentali. Inoltre, il fenomeno leghista, come manifestazione di localismo anticentralista, è esploso qui prima che altrove, ha seguito un’evoluzione specifica ed è stato in qualche modo contenuto (o meglio «ingabbiato») nell’attuale maggioranza di governo, nel patto che ha consentito a Silvio Berlusconi di vincere le elezioni.

Ho ricordato questi esempi (ma se ne potrebbero fare altri) come fatti oggettivi, prescindendo da giudizi di valore e da analisi che richiederebbero un’esposizione più complessa, per riflettere su alcuni scenari della politica italiana (e vorrei aggiungere della storia degli ultimi decenni) e provare a domandarsi se il «caso italiano», spesso ritenuto sia in Italia sia all’estero anomalo e sfuggente alle categorie tradizionali della politica, in perenne bisogno di correttivi, non sia invece (o anche) un laboratorio di anticipazioni, un punto di riferimento (di studio, di osservazione, se non di soluzioni e sbocchi possibili, o indesiderati) di processi sociali e politici con i quali l’Europa si trova oggi a fare i conti.

Il «caso italiano» sembra un laboratorio perfetto per le analisi del grande sociologo Pierre Bourdieu: lo scenario della «società introvabile», se ad essa si applicano categorie obsolete, o invece rintracciabile se si seguono percorsi individuali e processi di aggregazione politica trasversali alle classi sociali, che in Italia sembrano essersi scomposte e diversificate molto prima che altrove. Non pochi osservatori stranieri vedono un’Italia american oriented, dinamica, individualista, complessa, confusa nella sua ansia tumultuosa di novità e sempre meno ancorata alle proprie tradizioni, come se si fossero perse per strada le grandi influenze aggreganti della Chiesa cattolica e del più grande partito comunista dell’occidente. Oggi il «caso italiano» può continuare ad essere considerato anomalo nel senso che può preoccupare quanti hanno a cuore lo sviluppo democratico del paese, o innovativo secondo l’ottica dell’attuale maggioranza, ma può comunque essere letto oggettivamente come un fenomeno anticipatore se osservato con gli strumenti dell’analisi sociologica e con un atteggiamento il più possibile asettico, rispetto alla tendenza diffusa dell’autocommiserazione o dell’autoesaltazione.

L’Italia «laboratorio» della società e della politica, un’immagine già cara allo storico francese Fernand Braudel, è stata osservata con grande attenzione in questi mesi in Francia, soprattutto dopo i clamorosi risultati delle elezioni presidenziali. All’improvviso, sono venuti meno giudizi piuttosto semplificati, e in qualche caso sprezzanti, alimentati da una ristretta pattuglia di intellettuali francesi e di casa nostra, attorno al fenomeno Berlusconi e alle sue implicazioni: negazione della politica, potere di condizionamento dei media, conflitto d’interessi, possibile deriva autoritaria, crisi del sistema dei partiti, crisi di consenso e di coesione dell’opposizione. Il successo prevedibile di Jean Marie Le Pen e la clamorosa sconfitta di Lionel Jospin hanno dato a questi giudizi ben altro spessore. Per la voglia di capire meglio e più a fondo, e nella segreta preoccupazione di scoprire analogie e tendenze che l’Italia ha anticipato. La Francia ha scoperto di essere esposta a fenomeni politici e sociali con caratteristiche simili a quelli italiani e, più in generale, ascrivibili alla crisi della politica in diversi paesi europei. Ha scoperto che la noia della politica va intesa, secondo la definizione di Nietzsche, come «repulsione». Che Le Pen non è un’isola improvvisamente emersa dal mare, ma che il mare si è abbassato, per effetto delle grandi correnti dell’astensionismo protestatario e dell’individualismo da teledipendenza (l’edizione francese del «Grande fratello» ha superato, settimana dopo settimana, i 7 milioni di telespettatori).

La Francia ha anche attraversato, in ritardo rispetto all’Italia, le questioni della corruzione, del controverso rapporto fra politica e magistratura, dell’invecchiamento e dell’immobilismo della classe politica. Ha scoperto la difficoltà dei grandi partiti politici tradizionali di mantenere aperti i canali di comunicazione e di consenso con una società sempre più complessa, nella quale i cittadini fanno «zapping» elettorale, come davanti alla televisione. Ha scoperto la crisi delle proprie istituzioni, aprendo il dibattito sul funzionamento del presidenzialismo, sui limiti del sistema a doppio turno, sugli effetti perversi della coabitazione fra presidenza ed esecutivo. Qualcuno ha stimolato la riflessione sul tanto disprezzato «proporzionale» italiano che per certi versi può apparire una riedizione ritardata del compromesso storico. Qualcuno ha avanzato, fra le possibili soluzioni, il sistema parlamentare all’italiana, con un presidente della Repubblica restituito ad un ruolo super partes, di rappresentanza e di custodia dei valori nazionali, con meno poteri d’indirizzo politico. E tutti, dopo il voto delle presidenziali, hanno indicato una sorta di soluzione italiana per tamponare l’emorragia di consensi: cioè la soluzione delle nuove aggregazioni più ampie, meno ancorate all’identità dei singoli partiti. È nata l’UMP, unità delle destre per la maggioranza presidenziale. È nata la «sinistra unita», nonostante le ancora significative defezioni, con candidature uniche in molti collegi. La sinistra francese, per mesi, non è riuscita a far tesoro della precedente lezione italiana e ha pagato le conseguenze della propria divisione. Ha dovuto fare i conti con la frantumazione interna, le fughe estremiste, i residui di gruppi che si richiamano al trozkismo, con l’angoscia da estinzione di una delle sue componenti – il PCF – comunque deciso a chiamarsi ancora comunista. Dopo aver esaltato il pragmatismo e la forte impostazione liberista (in cinque anni il governo di Lionel Jospin ha introdotto più privatizzazioni che il precedente governo della destra), si è trovata a rincorrere gli strati popolari in fuga per cercare la rivincita. E oggi resta a metà del guado, con forti malumori interni e correnti che preferirebbero alla rivincita un lungo «sabbatico» all’opposizione.

Emblematici sono atteggiamenti che si colgono su fronti opposti. Esponenti della sinistra socialista (gli ex ministri dell’economia, Laurent Fabius e Dominique Strauss Kahn, insieme a Jacques Delors) rilevano il ritardo nell’imboccare senza riserve la strada del riformismo e nell’affermarsi di una coerente visione socialdemocratica. Qualche esponente della grande industria, vicino alla destra, auspica oggi quelle riforme del fisco e della pubblica amministrazione realizzate in Italia negli anni dell’Ulivo.

La destra, per quanto corroborata dal trionfo di Jaques Chirac, è rimasta in bilico fra tradizione statalista del gollismo e tentazione modernista, con qualche inconfessata ammirazione per le tecniche del consenso berlusconiane, che proprio Chirac ha messo in pratica per vincere, organizzando una campagna elettorale che, più che ai programmi, strizzava l’occhio complice e populista a bisogni e sentimenti della gente: sicurezza, immigrazione, abbassamento delle tasse. Chirac ha vinto assecondando una moda che si va diffondendo in Europa e che il centrodestra italiano ha sposato per primo e con innegabile astuzia. La moda delle promesse, più o meno compatibili con il quadro europeo, che limita i poteri nazionali, ma offre comodissimi alibi a chi abbia voglia di sedurre l’opinione pubblica riscoprendo la politica del giardino di casa e il fascino delle libertà genericamente intese. Non è casuale che le prime due questioni affrontate dal nuovo governo francese siano state la lotta alla criminalità e l’abbassamento delle tasse, anche se questo potrebbe comportare uno sforamento del budget rispetto ai parametri di Bruxelles. Se le cose andassero male, la colpa ricade sui diktat europei, se vanno bene il merito è di chi governa.

A proposito di Europa e di sistemi elettorali, credo sia interessante notare una tendenza comune a molti Paesi europei, anch’essa parzialmente anticipata in Italia. La tendenza cioè a considerare l’Europa non più secondo ideali dei padri fondatori (uomini di centro e di destra, quando la sinistra in genere diffidava di un’unione continentale) ma come un’idea e un progetto della sinistra, a volte con le tonalità dispregiative attorno ad un modello burocratico sovranazionale che vuole pensare e organizzare tutto, cui contrapporre le libertà individuali e locali. Un atteggiamento che ha il suo riscontro a livello nazionale, quando la destra rilancia le libertà individuali (in Italia il centro si chiama appunto «Casa delle libertà») contrapponendosi ad una sinistra che pretende di organizzare e di decidere una società in movimento e complessa.

Sinistra che paga (in Italia prima, in Francia poi) il non aver compreso che gli attuali sistemi elettorali privilegiano chi non è in grado di coalizzarsi e quindi chi è in grado di tenere insieme una coalizione e di conquistare il consenso con parole d’ordine e programmi fortemente semplificati, oserei dire da tempi televisivi, pubblicitari. Anche in questo, Chirac ha compreso prima dei suoi rivali l’esperienza italiana. E forse meriterebbero qualche riflessione i segnali di ripresa della sinistra italiana dopo la diffusione di messaggi diretti e semplificati: il girotondo, l’articolo 18, la lotta al terrorismo.

Il fenomeno Fronte nazionale francese, al di là di qualsiasi considerazione sul bagaglio ideologico del suo leader, per il potere di condizionamento che esso ha sulla formazione di maggioranze politiche e nell’esito delle sfide in moltissimi collegi elettorali, può essere visto anche come un grave e paralizzante ritardo nella dialettica democratica del paese. Un blocco sociale «congelato», più o meno come lo era il MSI in Italia, alimentato da interessi e pulsioni sociali le più diverse (la tradizione nazionalista, i fantasmi di Vichy, il razzismo, ma anche il voto di disoccupati, lavoratori comunisti e persino immigrati di colore), che di fatto ha spesso alterato, per la sua stessa presenza, le tendenze reali dell’elettorato e gli equilibri della società francese. L’assoluto e nobile rifiuto, da parte della destra democratica, di qualsiasi alleanza elettorale, ha spesso in passato favorito vittorie di una sinistra numericamente non maggioritaria. E, quasi per nemesi storica, la presenza di Le Pen ha regalato una vittoria plebiscitaria a Chirac. Obbligando la sinistra a compiere una dolorosa scelta morale a favore del candidato all’Eliseo che, fino al giorno prima, era il nemico da battere. Non sarebbe più logica e forse più salutare per la Francia un’evoluzione del Fronte? Non sarebbe più utile restituire alla politica e alla democrazia cinque milioni di francesi, certamente in minima parte fascisti e razzisti, prima che aumentino la confusione politica o favoriscano derive autoritarie?

Un altro storico francese, Max Gallo, invita a guardare, sia pure schematicamente, altre fasi della recente storia italiana, per cogliere la ricorrenza di fenomeni anticipatori di eventi e processi poi riscontrabili in diversi paesi europei. Il fascismo prima del nazismo, l’affermarsi del più grande partito comunista dell’Occidente e la sua evoluzione anticipatrice rispetto ad altri partiti comunisti, il compromesso storico e l’emergenza terrorismo, la crisi dei partiti, la lotta alla corruzione e al sistema di finanziamento della politica, la ricerca di nuove forme di alleanze di aggregazione di formazioni politiche diverse, la vittoria dell’Ulivo, la nascita della Lega Nord e di Forza Italia. E ancora, il forte atteggiamento europeista, in anticipo rispetto ad altri paesi europei. Tutti i passaggi decisivi per la costruzione della casa comune sono stati approvati e metabolizzati senza traumi e senza nostalgie nazionalistiche, così come, più recentemente, si sono manifestate in anticipo incertezze e interrogativi sul modello d’Europa che si vuole costruire. Una carrellata certamente superficiale, che andrebbe rivista, caso per caso, depurata dallo specifico italiano e forse da qualche arbitrarietà di accostamenti, ma che credo utile per guardare con più attenzione a noi stessi e per essere studiati con più attenzione dagli altri. Di molte cose non c’è da andare orgogliosi, ma il fatto che siano accadute «prima» comporta uno straordinario vantaggio per chi voglia capirle: il fascino discreto dell’esperienza.