L'Olanda e la fragilità della società aperta

Di Paul Scheffer Sabato 01 Giugno 2002 02:00 Stampa

Fino a poco tempo fa l’ascesa di Pim Fortuyn era un fenomeno spiegato con la noia. I suoi seguaci erano cittadini viziati che non avevano meglio da fare che lasciarsi affascinare da un’avventura politica. In sostanza la causa del disagio andava cercata nell’eccessivo benessere. Questo tono sprezzante ora è scomparso. Basta una visita a uno dei tanti luoghi commemorativi del leader populista per capire quale profonda insicurezza sia venuta alla luce. Pim Fortuyn ha spezzato legami che adesso tocca a tutti riannodare. Fortuyn era più un agitatore che un uomo capace di aggregare. La sensazione di malessere su cui ha fatto leva attendeva di venire alla luce da anni. Dopo l’attentato questa sensazione si è acuita e si sente invocare vendetta.

 

Fino a poco tempo fa l’ascesa di Pim Fortuyn era un fenomeno spiegato con la noia. I suoi seguaci erano cittadini viziati che non avevano meglio da fare che lasciarsi affascinare da un’avventura politica. In sostanza la causa del disagio andava cercata nell’eccessivo benessere. Questo tono sprezzante ora è scomparso. Basta una visita a uno dei tanti luoghi commemorativi del leader populista per capire quale profonda insicurezza sia venuta alla luce. Pim Fortuyn ha spezzato legami che adesso tocca a tutti riannodare. Fortuyn era più un agitatore che un uomo capace di aggregare. La sensazione di malessere su cui ha fatto leva attendeva di venire alla luce da anni. Dopo l’attentato questa sensazione si è acuita e si sente invocare vendetta. Ora che singoli politici continuano ad essere minacciati si rischia una spirale di violenze, e comunque non si può escludere un ulteriore decadimento delle pacifiche forme di convivenza. Ci accorgiamo improvvisamente quanto sia fragile una società aperta, come la democrazia olandese sia meno robusta di quanto appaia. Si è diffusa la sensazione che ad una parte degli elettori sia stato sbarrato il passo con la violenza. Non è rimasto loro che il voto per un partito senza leader politico, mentre avrebbero voluto appoggiarsi ad un leader politico senza partito. È questo che ha fatto delle ultime elezioni olandesi un avvenimento incredibile.

Il risultato può sembrare sconvolgente, ma bisogna accettarlo. Tuttavia a quanto pare, a sinistra soprattutto, non si è ancora pronti a farlo. Eppure anche prima della morte di Pim Fortuyn era chiara la tendenza allo sgretolamento della socialdemocrazia olandese e del partito liberale, così come il montare degli umori populistici. Dice già molto il fatto che una lista improvvisata, nata solo quattro mesi prima, abbia rischiato di diventare il più grande partito olandese. È stato un bene che alla fine i cristiano-democratici siano stati capaci di assorbire una parte della protesta, ma ciò non può farci dimenticare come la debolezza dei partiti tradizionali sia stata messa a nudo senza pietà. L’espansione del populismo è anche un’esortazione ai partiti affinché riformino se stessi. Dal fatto che vi riescano o meno dipenderà in gran parte se il malessere continuerà a radicalizzarsi.

Molte persone hanno cambiato opinione su Fortuyn. Si vorrebbe poter riflettere sulle sue critiche al grigiore governativo ed al relativismo culturale senza ritrovarsi subito a sostenere anche il suo appello a chiudere le frontiere. Quello che da una parte si guadagnerebbe in apertura, viene subito distrutto da altri aspetti del suo messaggio. È questo il paradosso di ogni populismo: accoglierlo o soffocarlo sono atteggiamenti ugualmente deleteri per la democrazia. Non è certo necessario essere d’accordo con Fortuyn per vedere come la politica sia stata stimolata dalle sue critiche. Tuttavia l’attuale tendenza elettorale alla protesta in Olanda è gravida di rischi. Vediamo crescere la paura e l’insicurezza tra i cittadini, e neanche i governanti riescono a sottrarsi a questi sentimenti.

L’analisi deve cominciare col prendere sul serio questa insicurezza. Se dobbiamo credere alla valanga di commenti stranieri noi olandesi ci troviamo in piena crisi di identità. Comunque sia, l’immagine che avevamo di noi, di una nazione soddisfatta e pacifica, è andata in frantumi. Non è un caso che questa insicurezza sia più chiaramente visibile quando si tratta della convivenza di tante culture differenti in un paese così piccolo. Qual è oggi la nostra identità in un’epoca di cambiamenti tanto numerosi e rapidi? Dobbiamo cercare cosa ci tiene uniti come società, e questa ricerca non conosce risposte facili. Ma eludere questa domanda non ha fatto altro che lasciare spazio ad una risposta ancora più rozza di quanto avremmo voluto. Com’è possibile che una società così ricca manchi di senso dell’orientamento? L’ascesa di Pim Fortuyn aveva posto ai politici tradizionali il problema di reinventarsi e di definire quale fosse la propria missione. Nella politica odierna pochissimi sono in grado di esporre con chiarezza che tipo di società vorrebbero lasciare alle generazioni future. Governare è diventato amministrare. La politica si è allontanata dall’esperienza di molti cittadini, che si sentono insicuri. E si tratta di cittadini di tutti gli strati della popolazione, anche della classe media, e soprattutto delle grandi città.

Il senso di insicurezza è più profondo di quanto si fosse pensato. Non è un caso che l’immigrazione sia diventata il simbolo del disagio. L’immagine di un’ondata migratoria che nessuno può arginare rappresenta qualcosa di più generale. Ha dato corpo alla sensazione di vivere in un mondo incontrollabile. Il sindaco di Rotterdam fino a due anni fa si diceva sicuro che nella sua città la convivenza tra i diversi gruppi etnici non presentasse problemi. Rotterdam era la capitale culturale dell’Europa, il porto del mondo, un modello per tutti. Oggi quasi il quaranta per cento dei suoi concittadini ha votato per un uomo politico il cui messaggio era «l’Olanda è piena». È questo, o dovrebbe essere questo, il tema all’ordine del giorno. La venuta di tanti, da paesi diversi, ci pone dinanzi uno specchio attraverso il quale riflettere su noi stessi.

La domanda se un immigrato possa o no considerare l’Olanda come il proprio paese non trova risposta solo nella denuncia dell’arretratezza culturale: si tratta di una risposta troppo semplicistica. Il punto nevralgico è piuttosto la sensazione di sentirsi cittadini a pieno titolo, di essere responsabili in toto. L’ex primo ministro Wim Kok è stato spesso oscillante su questi temi. Nell’aprile dell’anno scorso affermava che all’Olanda non erano necessari altri lavoratori extraeuropei. In giugno, sotto la pressione di alcuni ministri, proclamava che l’Olanda aveva urgente bisogno di immigrati per far fronte all’invecchiamento della popolazione. In settembre annunciava che era necessario un grande dibattito nazionale su questi temi. In tal modo, sulle questioni dell’immigrazione e dell’integrazione, Wim Kok ha creato il vuoto nel quale si sono espressi gli elettori. Ci vuole più impegno nel trovare quel compromesso vitale tra gli obblighi umanitari e l’attenzione per la pressione migratoria. Siamo nel mezzo di un’impasse morale, e questo aumenta il nostro senso di impotenza. C’è poi l’aspetto relativo all’idea di tolleranza. Il fatto che essa dia segni di cedimento ha molto a che fare con un’inadeguata applicazione della legge. La tolleranza in ogni campo non ha certamente favorito la libertà: non necessariamente chi non si sente sicuro è tollerante, né aperto verso chi lo circonda. Il fatto che in un periodo di benessere si debbano constatare notevoli ritardi in settori come quello della sicurezza e della giustizia suggerisce che per anni si siano sottovalutati i reati di violenza contro le persone, che incidono tanto profondamente sulla vita delle vittime e sul loro ambiente. Questo ha contribuito ad una crescente sensazione di negazione di giustizia, di cui ora tutti dovremmo sentirci responsabili. Nel loro programma elettorale i socialdemocratici non hanno nemmeno prospettato qualche suggerimento che prendesse almeno in esame la situazione dei recidivi in questo genere di delitti. Quanto ai liberali, la lotta al crimine era stata affidata ad un ministro che si era ripetutamente presentato in Parlamento per spiegare di essere all’oscuro di tutto. E così si sono create le circostanze per cui Fortuyn, in un paio di mesi, è potuto crescere fino a fare del suo movimento il più grande fenomeno politico olandese.

Il malessere nei confronti della democrazia è palpabile. Ma contrariamente a quanto era successo negli anni Sessanta, le critiche non provengono più dalla sinistra radicale. La critica, anzi, si rivolge ora proprio all’elite nata dalla rivoluzione culturale di quegli anni. La perdita di consenso però non deve necessariamente far cadere nel dispotismo e nel conservatorismo. Deve essere possibile trovare una nuovo equilibrio tra libertà e ordine. Dobbiamo fare nostra l’esortazione ad «essere più democratici». Del resto, la popolazione è sempre più istruita e informata. Ascoltando le voci dei molti cittadini in attesa per firmare il registro di condoglianze per Fortuyn, a Rotterdam, ci si è potuti rendere conto che nessun cittadino si aspettava soluzioni che risolvessero tutto da un giorno all’altro, ma piuttosto dirigenti politici che riconoscessero i problemi e sapessero che direzione prendere. Occorre capire se l’Olanda è un paese di immigrazione o no, e cosa significa questo, e occorre in tal senso aprire un dibattito di fondo sul nostro Stato di diritto. Una democrazia vitale deve farsi carico di questa critica e tradurla in azioni pratiche. Il capogruppo dei liberali alla camera, Bolkestein, con i suoi rilievi sulla società multi-culturale e sulla cultura della tolleranza, ha mostrato come fosse possibile assorbire il dibattito all’interno dei partiti esistenti. Ma, perlopiù, sono state eluse le questioni fondamentali relative alla legittimazione del governo e al sistema di convivenza in un paese con al suo interno tanta diversità culturale. Oltre ai suoi innegabili meriti, proprio questa è stata la grave mancanza di Kok e dei suoi. Chiunque avesse voluto, infatti, poteva accorgersi che dietro la facciata delle nostre istituzioni si stava verificando un vero e proprio scollamento. Il dibattito parlamentare sulla società multiculturale, dopo due giorni di discussioni, si era ridotto a discorsi sui problemi riguardanti l’organizzazione dei corsi di cultura civica. Come troppo spesso accade, ci si occupava della forma e non del contenuto. È questa cultura dell’elusione dei problemi ad aver fatto naufragio in primavera. Ci si è resi conto troppo tardi che in una società la fiducia deve essere tenuta viva, e che è in gioco non solo la fiducia reciproca fra i cittadini ma quella dei cittadini verso lo Stato. E questo richiede un forte impegno da parte di tutti. La capacità di convivere, per gente con retroterra culturali così disparati, non è automatica. Per poter avere pareri diversi in modo proficuo, bisogna prima avere molti più valori in comune di quanto accada oggi.

Particolarmente delicata è, in generale, la questione della fiducia verso lo Stato. I pacifici rapporti sociali formatisi lentamente di generazione in generazione possono sfaldarsi rapidamente. Nessuna democrazia ha infatti la garanzia di durare per sempre e tutte le democrazie devono continuamente correggersi. Ciò significa avere la capacità di integrare chi non si sente rappresentato. La fiducia perduta oggi può e deve essere riconquistata. Le critiche a Wim Kok risultano più chiare quando si illustrano i suoi meriti. Quando era a capo del sindacato egli aveva saputo operare efficacemente per il risanamento economico. Aver abbandonato la strada della polarizzazione politica per intraprendere quella delle ampie coalizioni è andato a tutto vantaggio dell’occupazione e della riduzione del deficit finanziario. Nonostante questi innegabili meriti, Kok lascia dietro di sé un’eredità piuttosto controversa. Il rinnovamento che si era voluto effettuare, escludendo i cristiano-democratici dalla coalizione «viola», si è risolto proprio nell’effetto contrario. Il secondo governo Kok è diventato sinonimo di anni sprecati, durante i quali, in un favorevole clima economico, è sembrato smarrirsi il senso dell’urgenza di alcuni problemi. I dodici anni di governo Kok sono stati un periodo di crescente benessere privato e di altrettanto crescente impoverimento del settore pubblico. Alcuni, specialmente tra i politici, sostengono che la delusione è stata grande perché le aspettative erano eccessive. I governanti negli ultimi anni non hanno fatto altro che relativizzare il proprio ruolo, proclamando a gran voce che modificare la società non era più impresa di questi tempi. La politica in favore delle privatizzazioni e del mercato ha contribuito a ciò, come se si fosse comunicato un atteggiamento del tipo: chi siamo noi per gestire settori come le ferrovie, le comunicazioni o la società idrica? È stato come comunicare un rifiuto di responsabilità che alla fine è apparso chiaro agli occhi degli elettori.

La questione è insomma come conservare una società aperta in un mondo sempre più senza frontiere. Sembrerebbe una contraddizione in termini: non è infatti sempre più aperta una società con sempre meno frontiere e maggiore libertà di movimento? Il problema è più complesso: una società aperta implica comportamenti democratici. Chi, senza ulteriori precisazioni, sostiene la necessità di aprirsi verso il mondo intero dimentica l’esistenza inquietante di povertà estrema, fanatismo religioso e guerre etniche. La diversità che con tanto entusiasmo si definisce un «arricchimento culturale» contiene in sé anche gli orrori, dai quali invece vorremmo poterci difendere. La diversità, insomma, non è un valore in sé. La democrazia sì. L’undici settembre ha mostrato la fragilità della democrazia liberale. L’Olanda non è sola al mondo. Fin dal tempo delle colonie i nostri legami andavano molto al di là dei nostri confini. La questione è sempre stata: come possiamo conciliare l’identità di questa società con il nostro sempre maggior coinvolgimento con il mondo esterno? Quel che si può pretendere dalla politica è che essa prospetti l’immagine di una società olandese cosciente della propria identità. Si sono rotti dei legami ed è compito di tutti riallacciarli. I tradizionali partiti olandesi debbono riformarsi, se vogliono riconquistare la fiducia degli elettori. Prima di tutto i dirigenti politici devono assumersi le loro responsabilità per non essere stati in grado di accorgersi di questa insoddisfazione, di affrontare la sfida di Fortuyn. Quanti dei nostri rappresentanti saranno ora in grado di tener testa al conformismo di chi li circonda? Da questo dipenderà la risposta che sapremo dare agli avvenimenti della primavera del 2002. Come spiegheremo la fascinazione collettiva, con i suoi aspetti anche morbosi, che Fortuyn ha saputo suscitare, e come definiremo le conseguenze del suo assassinio? Avremo imparato l’arte di fare di necessità virtù?