Modernizzarsi o morire: il destino del Partito socialista francese

Di Frederic Michel Sabato 01 Giugno 2002 02:00 Stampa

La sinistra francese ha cominciato ad interrogarsi sulle cause che hanno portato al duplice e gravissimo shock dell’eliminazione di Lionel Jospin dalle elezioni presidenziali e della successiva sconfitta alle elezioni legislative. Le spiegazioni sono state diverse. Alcuni sono convinti che la colpa principale debba essere fatta ricadere su Jacques Chirac, in particolare per aver screditato il ruolo istituzionale della presidenza e per aver puntato su una campagna così pesantemente incentrata sui temi della sicurezza da favorire di fatto l’estrema destra. Anche i mass media sono stati sottoposti ad un fuoco di critiche: per avere sminuito l’importanza della campagna elettorale sottovalutando le differenze tra Chirac e Jospin; per essersi concentrati sui temi della sicurezza a scapito di altre fondamentali questioni; per avere disorientato gli elettori con sondaggi poco accurati e capaci di far credere a molti che i voti di protesta non avrebbero comunque impedito al secondo turno lo scontro Chirac-Jospin.

 

La sinistra francese ha cominciato ad interrogarsi sulle cause che hanno portato al duplice e gravissimo shock dell’eliminazione di Lionel Jospin dalle elezioni presidenziali e della successiva sconfitta alle elezioni legislative. Le spiegazioni sono state diverse. Alcuni sono convinti che la colpa principale debba essere fatta ricadere su Jacques Chirac, in particolare per aver screditato il ruolo istituzionale della presidenza e per aver puntato su una campagna così pesantemente incentrata sui temi della sicurezza da favorire di fatto l’estrema destra. Anche i mass media sono stati sottoposti ad un fuoco di critiche: per avere sminuito l’importanza della campagna elettorale sottovalutando le differenze tra Chirac e Jospin; per essersi concentrati sui temi della sicurezza a scapito di altre fondamentali questioni; per avere disorientato gli elettori con sondaggi poco accurati e capaci di far credere a molti che i voti di protesta non avrebbero comunque impedito al secondo turno lo scontro Chirac-Jospin. Altri ancora se la sono presa con il sistema elettorale, con le beghe interne ad una sinistra estremamente divisa, con l’Unione europea o con gli stessi elettori: in sostanza con qualsiasi cosa potesse distrarre l’attenzione dal Partito socialista francese. Forse si tratta solo dei sintomi post-traumatici con cui è ancora alle prese il Partito socialista. L’essersi trovati del tutto fuori dal ballottaggio presidenziale, mentre l’estrema destra godeva dell’attenzione mediatica di tutta la nazione, ha rappresentato una sconfitta davvero umiliante. Ma la ricerca di un capro espiatorio non è un’operazione credibile. Ed è evidente che, in fin dei conti, la questione riguarda Lionel Jospin e il suo partito.

Già nelle prime fasi della campagna elettorale, alcuni focus group avevano messo in evidenza i punti deboli della strategia di Jospin. La modestia e l’umiltà con cui egli si è presentato alla sua prima intervista televisiva da candidato alla presidenza hanno colto di sorpresa molti elettori. La sua insistenza sul legame tra giustizia sociale e modernizzazione ha rassicurato i centristi. I suoi accenti sulle questioni sociali hanno dato l’impressione che egli fosse mosso da sincera sensibilità e comprensione verso le aree di sofferenza della collettività E tuttavia, mentre era chiaro l’intento di rassicurare l’elettorato, ciò che è mancato in Jospin è stato un messaggio netto e ben visibile in grado di connotare la campagna elettorale. Le singole politiche sociali sono state presentate quasi in isolamento le une dalle altre, al di fuori di una strategia coerente e complessiva. Con ben scarsa convinzione, d’altra parte, sono state avanzate proposte nel campo della formazione continua, della riforma del sistema educativo o del mercato del lavoro. In generale Jospin ha sempre evitato di tracciare chiare linee di divisione tra il proprio programma e quello di Chirac. È probabile che i mass media non lo abbiano aiutato molto. Ma la colpa principale deve essere fatta ricadere sull’impostazione generale della sua campagna elettorale: il suo messaggio non è apparso affatto chiaro.

Come ha suggerito Jean Pisani-Ferry, la sconfitta di Jospin può esser fatta risalire ad un errore strategico: egli si è presentato all’elettorato francese come se i risultati della sua opera di governo parlassero da soli. Un atteggiamento assai differente, ad esempio, dal modo in cui il Partito laburista ha condotto le elezioni del giugno 2001. In questo secondo caso era addirittura legittimo sostenere, come hanno fatto alcuni, che l’insistenza laburista sugli ottimi risultati economici del governo Blair fosse eccessiva e potesse risultare persino controproducente. E tuttavia la scelta laburista si è rivelata straordinariamente efficace, riuscendo a far emergere con chiarezza e in tutto il paese un messaggio positivo. Nell’ultima vicenda elettorale, purtroppo, i francesi non si sono riconosciuti nel quadro che era stato loro offerto. E il voto ha finito per rispecchiare le paure e le frustrazioni di una società frammentata. François Hollande, segretario del Partito socialista, ha riconosciuto pubblicamente che la campagna elettorale non è riuscita a mettere sufficientemente in luce né la qualità del lavoro svolto dal governo negli ultimi cinque anni né l’importanza delle elezioni presidenziali. Si può ipotizzare che un eventuale ballottaggio tra Chirac e Jospin avrebbe permesso a quest’ultimo di affermare la sua superiorità nelle fasi finali della campagna. Ma ai socialisti è stato negato un tale lusso. Forse anche a causa di una loro eccessiva confidenza nella possibilità di arrivarci.

In ogni caso sarebbe un errore dare troppa importanza alle strategie elettorali, al modo in cui è stata confezionata la campagna elettorale e persino alla mancanza di carisma del candidato. Per i socialisti si tratterebbe di un modo semplice, ma fuorviante, di consolarsi della sconfitta. Così come sarebbe sbagliato concentrarsi esclusivamente sull’impatto elettorale del Fronte nazionale, nonostante l’attenzione che nel mondo intero si è avuta intorno alla presenza di Le Pen al ballottaggio. In realtà il voto per Le Pen non è cambiato molto rispetto alle precedenti consultazioni: è stata piuttosto la frammentazione generale dell’elettorato, insieme al fortissimo astensionismo, a produrre quel risultato. I francesi, e in particolare i francesi di sinistra, dovrebbero certamente essere molto preoccupati per i cinque milioni di voti andati all’estrema destra. Ma il pessimo risultato elettorale della sinistra è stato essenzialmente una conseguenza degli errori del Partito socialista. E in particolare della sua incapacità di comprendere l’evoluzione della società francese. Ecco perché il modo in cui verrà spiegata la sconfitta sarà fondamentale per il futuro del partito e della socialdemocrazia in Francia. E a mio modo di vedere, le interpretazioni possibili sono solo tre.

La prima, proposta da Jean Pisani-Ferry, è che nonostante la fiducia di Jospin nei buoni risultati del suo governo la Francia non è affatto migliorata dal 1997. Il paese, al contrario, si troverebbe in una condizione di vero e proprio declino. Questa tesi non sembra troppo credibile. Non è mai accaduto, ad esempio, che nello spazio di cinque anni fossero creati così tanti posti di lavoro. La disoccupazione si è molto ridotta e la crescita economica, per quanto modesta e niente affatto miracolosa, ha fatto sì che fossero ampiamente recuperati gli effetti negativi del rallentamento dei primi anni Novanta. La seconda ipotesi prende atto del miglioramento delle condizioni della Francia ma nega che esso abbia riguardato i francesi e in particolare i lavoratori. Si tratta di una critica ormai nota, in particolare in Gran Bretagna, secondo la quale i governi di centrosinistra avrebbero trascurato il proprio elettorato tradizionale per interessarsi solo delle classi abbienti. Ciò avrebbe spinto i lavoratori ad allontanarsi dalle élite politiche di sinistra e a dare il proprio voto all’estrema destra. Anche questa tesi non sembra credibile. In realtà negli ultimi cinque anni i salari sono cresciuti molto di più dei profitti, come mai era accaduto nel corso del ventennio precedente. Le politiche sociali e fiscali hanno ridotto il carico fiscale per più della metà della popolazione, per una somma totale di cinque miliardi di euro. E anche se questi dati non costituiscono una prova incontrovertibile del miglioramento delle condizioni dei lavoratori, almeno dimostrano che non vi è stato alcun peggioramento.

La tesi che ci appare più convincente delle altre, per quanto paradossale, è invece una terza. Dal 1997 ad oggi ciò che è radicalmente mutato sono le preoccupazioni dell’opinione pubblica francese. Nel giugno del 1997 i sondaggi avevano messo in luce che per l’80% degli elettori francesi la principale preoccupazione era costituita dalla disoccupazione. Nell’aprile del 2002 quel dato si era ridotto di tre quarti. Questo può aiutarci a capire perché, in una certa misura, il Partito socialista francese sia rimasto vittima del proprio successo. Perché via via che l’occupazione migliorava, gli elettori si scoprivano sempre più concentrati su altre questioni. Alcuni si ritenevano ormai al riparo dal rischio di rimanere senza lavoro, mentre altri si sentivano completamente lasciati da parte. È stato in queste condizioni che il patto sociale in favore dell’occupazione, essenzialmente rappresentato dalle legge sulle 35 ore settimanali, ha cominciato ad indebolirsi.

È questo il nuovo scenario all’interno del quale il Partito socialista francese non ha saputo rinnovare se stesso, incapace di reagire se non con i suoi tradizionali strumenti. Sarebbe legittimo sostenere che i socialisti francesi non abbiano offerto una rappresentazione chiara e lucida di come la socialdemocrazia dovesse essere rinnovata per rispondere al nuovo profilo della società francese: una incertezza ben rappresentata dal fatto che il governo di Jospin è stato presente sia a Porto Alegre che a Davos. Ma al di là di questo, il governo socialista non ha saputo lavorare efficacemente con i propri interlocutori. Nel tentativo di risolvere l’apparente contraddizione tra flessibilità d’impresa e sicurezza del lavoro, il governo ha di fatto imposto un compromesso politico – con la cosiddetta «legge di modernizzazione sociale» – destinato ad essere accolto con profonda insoddisfazione sia da parte imprenditoriale che da parte sindacale. Su altre questioni sono state avviati innumerevoli progetti preliminari – cinque progetti sul tema delle pensioni, ad esempio – senza mai trovare soluzioni soddisfacenti o anche solo accettabili. Il Partito socialista è sembrato essere lacerato tra la spinta a proporre soluzioni innovative e la tentazione ad andare avanti su una strada più tradizionale.

In una certa misura, come ha scritto Nicolas Weill su «Le Monde», il Partito socialista aveva già iniziato ad adottare di fatto una sorta di «terza via». Aveva incluso i Verdi nella sua maggioranza, bilanciando le rivendicazioni ambientaliste con temi più tradizionalmente «industrialisti». Aveva assunto tra le sue priorità la lotta alla criminalità, uno dei temichiave della politica laburista, nonostante i timori diffusi a sinistra che l’adozione di misure vigorose su questo fronte avrebbe significato un cedimento alla destra. E oggi possiamo dire che il successo di Le Pen dovrebbe convincere tutti della necessità che la sinistra, piuttosto che temere di cedere alla destra, si dimostri capace di svolgere politiche efficaci proprio sui temi della sicurezza contro la criminalità.

I socialisti sono stati capaci di dare impulso alle riforme economiche con maggiore efficacia e migliori risultati della destra. Ma – cosa ben più importante – non hanno saputo spiegare con chiarezza i benefici di tali riforme. E come hanno scritto Pascal Lamy e Jean Pisani-Ferry, la sinistra francese non avrebbe dovuto sentirsi a disagio mentre sconfiggeva l’inflazione, liberalizzava il commercio e i movimenti di capitale, poneva fine alla confusione tra Stato sociale e Stato assistenziale, privatizzava il settore bancario. Il problema è stato che buona parte della sinistra si è sentita esattamente in imbarazzo mentre venivano raggiunti quei risultati. E ciò ha comportato, invece di un convinto impegno nella discussione europea sulle migliori politiche in tema di liberalizzazioni e regolazione, una trascurata diffidenza verso il ruolo dell’Unione europea. Di cui si è avuta prova durante la campagna elettorale, nella quale si è scelto di non impegnarsi con chiarezza proprio sui temi – come l’Europa o l’immigrazione – su cui si concentrava l’attenzione degli elettori.

Il problema principale del Partito socialista, come ha scritto Alain Touraine, è stata l’incapacità di assumersi la responsabilità delle decisioni più difficili o di affrontare le questioni più controverse. È ovvio che su questo piano il compito era particolarmente complesso, perché larghi settori della società francese sembrano guardare al passato piuttosto che al futuro. E tuttavia anche quando è sembrato che fosse possibile cooperare efficacemente con i settori modernizzatori della società si è preferito non cogliere quelle opportunità. Ecco perché oggi dobbiamo pensare che sia semplicemente inaccettabile lasciare che il tema dell’insicurezza si affermi nella discussione pubblica e mostrarsi incapaci di affrontarlo. Anche se si tratta di un tema estremamente difficile da gestire.

Perché mostrarsi sorpresi dal passaggio di tanti dei nostri elettori ad altri partiti, se non siamo stati capaci di offrire loro una prospettiva convincente dalle nostre posizioni di sinistra moderata? In realtà c’è da riflettere anche sul successo dell’estrema sinistra, che al primo turno delle presidenziali ha superato il 10% e che da alcuni è stato interpretato come la prova dell’eccessivo spostamento al centro della sinistra moderata con il conseguente abbandono del nostro elettorato tradizionale. In realtà i programmi di Besancenot o della Laguiller offrivano poco spazio per riforme costruttive, mentre la graduale scomparsa del Partito comunista dovrebbe spingerci a cogliere i segni del declino inevitabile dei dibattiti ideologici e autoreferenziali. Leggere nel risultato dei trozkisti la prova di un nostro eccessivo moderatismo condannerebbe tutta la sinistra francese ad un decennio, se non più, di opposizione. Perché in realtà, come ha scritto anche Jacques Delors, i socialisti hanno rimandato troppo a lungo una vera discussione sull’urgenza delle riforme. E la conseguenza è stata la rivitalizzazione dell’estrema sinistra e la disillusione dei centristi.

Se in questo modo ho cercato di rispondere ad una prima domanda – perché è stato sconfitto il partito che sino a pochi fa sembrata lanciato verso una lunga stagione di governo progressista? – rimane sul tappeto un secondo e più difficile interrogativo: cosa deve fare la sinistra moderata per recuperare incisività e per convincere gli elettori della propria capacità di governo? Da questo punto di vista è inevitabile guardare ai mutamenti strutturali che stanno interessando l’Europa. E convincersi che se la sinistra sceglierà di mantenere un approccio difensivo rispetto al mutamento, nel tentativo di difendere lo status quo, essa troverà sempre più difficile soddisfare le domande dei «vecchi compagni». Ma soprattutto, mentre la natura dell’elettorato cambierà sempre di più, essa sarà progressivamente più lontana dalle nuove generazioni, dalle nuove forze materiali, dalle nuove aspirazioni culturali delle società europee. Per contrastare una destra sempre più populista e nazionalista la sinistra ha bisogno di un messaggio ben visibile, intrecciato ad un chiaro impegno per le riforme. Per questo il Partito socialista deve impegnarsi nuovamente verso la società francese, innanzitutto riformando se stesso. Nel 1997 Tony Blair si rivolse ai socialisti con una sorta di ammonimento: avrebbero dovuto cambiare o avrebbero rischiato di morire. È tempo di accogliere quelle parole. Anche al di là di una campagna elettorale, come quella da ultimo condotta per le elezioni legislative, nella quale la sinistra francese è sembrata rinchiudersi in una posizione polarizzata nel disperato tentativo di recuperare un immaginario elettorato tradizionale e di distinguersi dalle altre forze politiche.