Il malessere francese

Di Pascal Lamy e Jean Pisani-Ferry Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

Dopo avere creduto per troppo a lungo che l’Europa sarebbe stata costruita sulla loro immagine, i francesi stanno adesso compiendo ogni sforzo per riconoscerla così com’è. Con sorpresa, e spesso con preoccupazione, i francesi si stanno rendendo conto che – con la dispersione dell’autorità politica, la promozione della concorrenza, e i dubbi che circondano il monopolio dei servizi pubblici – il processo di integrazione europea ha progressivamente minato molti dei pilastri di quel modello di governo che credevano di avere esportato. Allo stesso tempo la riunificazione dell’Europa, benché senza dubbio necessaria e legittima, con molta probabilità ridurrà «meccanicamente» la loro forza all’interno dell’Unione, dal momento che le sorti del futuro comune dell’Europa si giocheranno in quella che ancora in molti chiamano «Europa orientale», ben lontano dunque dai confini francesi.

 

Dopo avere creduto per troppo a lungo che l’Europa sarebbe stata costruita sulla loro immagine, i francesi stanno adesso compiendo ogni sforzo per riconoscerla così com’è. Con sorpresa, e spesso con preoccupazione, i francesi si stanno rendendo conto che – con la dispersione dell’autorità politica, la promozione della concorrenza, e i dubbi che circondano il monopolio dei servizi pubblici – il processo di integrazione europea ha progressivamente minato molti dei pilastri di quel modello di governo che credevano di avere esportato. Allo stesso tempo la riunificazione dell’Europa, benché senza dubbio necessaria e legittima, con molta probabilità ridurrà «meccanicamente» la loro forza all’interno dell’Unione, dal momento che le sorti del futuro comune dell’Europa si giocheranno in quella che ancora in molti chiamano «Europa orientale», ben lontano dunque dai confini francesi.

Tale atteggiamento emerge oggi dalla posizione prevalentemente difensiva adottata dai francesi. L’Unione economica e monetaria è stato l’ultimo grande progetto che essi hanno promosso e contribuito a far riuscire con successo. Tuttavia sembra che adesso la Francia sia in grado solo di combattere per salvaguardare la propria posizione: la paradossale e, in ultima analisi, vana ossessione per la parità franco-tedesca, i continui sforzi per mantenere il potere dello Stato rispetto sia ai federalisti sia alle regioni, le arcane battaglie per salvare l’agricoltura e l’eccezionalità culturale francesi, la difesa ostinata dei servizi pubblici. La lista potrebbe continuare. Le cause sono spesso sensate, ma anche difensive al punto da essere deprimenti quando si riferiscono a questioni che possono sicuramente essere risolte in maniera migliore dall’Europa. Ci si può chiedere se la Francia non debba avere altra ambizione che quella di resistere alle iniziative dei suoi partner, e se questa sia veramente la via giusta per poter sperare di mantenere il suo ruolo. Charles Grant non fa altro che ampliare queste tendenze quando prevede che nel 2010 la Francia avrà perso la sua influenza proprio per essersi impegnata in troppe battaglie perse in partenza.1

Come spesso succede, anche questo malessere è sintomo di un disagio più diffuso. Da promotori tradizionali di grandi idee e modelli organizzativi, oggi i francesi avvertono l’imbarazzo di non avere più grandi progetti da esportare. Se un tempo veniva preso a modello, oggi lo Stato francese, proprio per la sua incapacità di riformarsi, viene spesso considerato come un esempio di come «non fare le cose» da parte di coloro che sono preoccupati per la modernizzazione dell’amministrazione pubblica.2 Il dibattito sulle questioni monetarie oscilla fra la tradizione tedesca, che la BCE ritiene di aver preso in eredità, e il modello rappresentato dalla Banca d’Inghilterra fin dalla sua riforma nel 1997. Tuttavia, nessuno guarda più a Parigi per trovare l’ispirazione. Per quanto riguarda le relazioni sociali capita più spesso che il laboratorio sia indicato nel Nord Europa. Così come è alla Spagna che guardano gli europei quando intendono riflettere sulle nuove forme di democrazia richieste da un mondo caratterizzato dal moltiplicarsi dei livelli di governo.

Tale malessere non colpisce solo la sinistra. E tuttavia la sinistra ne è colpita con un’intensità tale da rendere troppo flebile il suo messaggio relativo alla regolamentazione, alla solidarietà e alla coesione territoriale. Si può sostenere che la sinistra sia ben rappresentata grazie alla tradizione giacobina? E in contrasto con la destra, non può essa ritenersi soddisfatta per il fatto che il liberismo sta volgendo in misura crescente a favore dell’integrazione europea? A voler credere ai liberali, l’integrazione economica internazionale è uno degli strumenti per smantellare le regolamentazioni nazionali. E che il nostro colbertismo moribondo faccia in modo di bloccarsi in azioni di retroguardia contro i progressi del mercato e della concorrenza non rappresenta affatto un motivo di dispiacere. Ma per le donne e gli uomini di sinistra la sfida è piuttosto quella di costruire delle regolamentazioni pubbliche in Europa e attraverso l’Europa, concepite per adattarsi alla globalizzazione dell’economia e per modernizzare un sistema sociale a cui la loro famiglia politica ha già largamente contribuito. Il loro impegno in Europa è strettamente collegato alla convinzione che valga la pena perseguire questo obiettivo, pur nella consapevolezza che ciò significa accettare la demolizione delle tutele tradizionali. La sinistra francese non ha dimenticato le sue tradizioni internazionalistiche, ma attraversare le frontiere non è sufficiente, e si aspetta che l’integrazione europea continui ad essere un progetto a cui può aderire e che promuoverà i suoi valori.

D’altra parte però, dipingere l’Unione europea come lo strumento di un piano liberista significherebbe sicuramente sbagliare nemico, e non perché l’Unione continui ad essere in larga parte governata dai socialdemocratici, ma perché agli occhi del resto del mondo rappresenta un modello di equilibrio tra mercato e società, tra concorrenza e cooperazione, tra autonomia e solidarietà. Nel contesto della globalizzazione e di forme di regolamentazione pubblica nazionali sempre più deboli, l’Unione europea rappresenta intrinsecamente un tentativo di creare un attore pubblico concepito per il capitalismo moderno, e offre agli Stati che la animano un mezzo per poter influenzare le regole del gioco, invece di dover semplicemente adattarvisi. È innegabile che l’Unione sia spesso motivo di delusione, e tuttavia ciò non dovrebbe far dimenticare che, se si escludono gli Stati Uniti, l’Unione resta l’unico attore in grado di bloccare la fusione di due imprese americane, o di elaborare politiche commerciali con i paesi in via di sviluppo. Né tantomeno ciò dovrebbe far passare in secondo piano il fatto che l’Europa, malgrado le sue carenze, resta comunque il luogo più sicuro al mondo per le categorie svantaggiate. D’altra parte gli Stati europei presi individualmente non riuscirebbero a mantenere lo stesso livello di prosperità economica, di protezione ambientale e di salvaguardia dei consumatori e neppure di legislazione sociale. L’Unione europea è chiaramente più liberista della Francia, ma potrebbe comunque piuttosto facilmente adottare e annunciare il motto di Lionel Jospin: «Sì ad un’economia di mercato, no ad una società di mercato».

I dubbi della sinistra francese sono tuttavia giustificati per almeno tre motivi. Prima di tutto perché, come per chiunque altro, la battaglia politica sulla natura dell’integrazione europea continua. L’Europa diventerà quello che vorranno le forze politiche e sociali del continente, e in questo le voci francesi conteranno solo per il peso e la forza della loro convinzione. È passato il tempo in cui un negoziato con la sola Germania era sufficiente per dare la nostra impronta alle decisioni della Commissione. In secondo luogo, tali dubbi trovano giustificazione nella constatazione che l’Europa troppo spesso è servita a promuovere riforme che avrebbero dovuto essere giudicate nel merito. Alla Francia sicuramente non è dispiaciuto tenere sotto controllo l’inflazione, liberalizzare il commercio e i movimenti di capitali, mettere fine alla confusione tra Stato azionista pubblico e Stato regolatore, lasciare maggiore spazio alla concorrenza o privatizzare il suo sistema bancario. Ma, piuttosto che essere state discusse e successivamente adottate, tali riforme sono state presentate come obblighi imposti dalla logica dell’integrazione europea. Questo processo permanente si è rivelato costantemente, e non solo per la sinistra, alla base di concessioni politiche immediate. Il sospetto di una trama ordita dalle élite liberali è stato sicuramente il motivo principale della crescente sfiducia dei cittadini verso la democrazia, alimentando la resistenza al cambiamento e trasformando la Commissione europea in un’istituzione che minaccia inesorabilmente il nostro modello politico e sociale.

La legittimità di tali perplessità può essere anche spiegata partendo dall’incompletezza del progetto europeo della sinistra francese. Dopo il secondo mandato di Mitterand, durante il quale l’attenzione sulle sorti del continente ha superato il desiderio di trasformare il paese, è sembrato naturale che la volontà politica espressa da Lionel Jospin si sarebbe concretizzata in un obiettivo a carattere del tutto nazionale come quello dell’occupazione. Il fatto che le questioni europee appartengano alla sfera delle competenze condivise tra il presidente e il primo ministro non ha certamente agevolato il governo nella definizione di una strategia europea aggressiva. Ma è tuttavia necessario riconoscere che, nonostante alcuni progressi di rilievo – ad Amsterdam e a Lussemburgo in relazione all’impiego e alla creazione dell’Eurogroup, a Lisbona in relazione agli obiettivi della coesione sociale e della crescita sostenibile, a Tampere i progressi registrati nelle area della libertà, della sicurezza e della giustizia, e a Nizza l’adozione della Carta dei diritti fondamentali – negli ultimi anni l’Europa non è stata al centro dei pensieri della sinistra francese. Nonostante le tradizioni e le prese di posizione che la caratterizzano – e questo vale in particolare per il partito socialista – ciò non è servito a farle elaborare un processo di analisi, né la definizione di obiettivi in un contesto su cui l’Euro, l’imminente allargamento e le crescenti preoccupazioni sul tema della sicurezza hanno avuto un profondo impatto. Pertanto è più opportuno considerare il discorso di Lionel Jospin sull’Europa come un punto di partenza, piuttosto che come un punto di arrivo.3

Di fronte al malessere e ai dubbi, le leadership politiche potrebbero essere tentate di reagire attraverso la combinazione di apparenze e temporeggiamento: qualche ammiccamento a sfide simboliche, sventolare la Costituzione, qua e là una nomina scelta o presentata al momento più opportuno, qualche capriccio passeggero senza conseguenze, ma in sostanza niente di concreto che possa far correre il rischio di divisioni o inquietudini. Siamo convinti che un approccio di questo tipo sarebbe destinato a fallire, e che non servirebbe certamente a risolvere alcuna delle ambiguità strategiche che limitano le nostre scelte. Al contrario, metterebbe probabilmente in risalto i rischi dell’influenza declinante delle idee francesi all’interno dell’Unione. Né tantomeno riuscirebbe a rassicurare l’opinione pubblica in un momento in cui l’introduzione dell’Euro conferma simbolicamente la densità del nostro impegno verso l’Europa. Questo evento non ha tuttavia enfatizzato i progressi dell’integrazione europea come invece ha fatto l’incompletezza e l’incoerenza di un progetto da tutti considerato come l’evento che segnerà il nostro futuro. Ciò che veramente preoccupa non è tanto il fatto che l’Europa prenderà il posto degli Stati nazionali in determinati settori, quanto piuttosto che questi ultimi tramonteranno senza che l’Europa ne abbia del tutto raccolto l’eredità. Di conseguenza il timore è che ci si possa trovare in una sorta di limbo senza vie d’uscita in cui nessuno possa più essere ritenuto responsabile dei  successi né degli arretramenti. Perché l’euroscetticismo si alimenta prima di tutto e principalmente della sensazione che l’integrazione europea sia in balia di un delicato equilibrio tra negoziatori ben intenzionati e armati di piani eterogenei da un lato e tecnocrati dall’altro.

 

 

Bibliografia

1 C. Grant, EU 2000: An Optimistic Vision of the Future, Centre for European Policy Reform, London 2000.

2 A questo proposito si veda il rapporto di Jean Peyrelevade e Lucile Schimd, Changer l’Etat, in «Les Notes de la Fondation Jean-Jaurès», XXIV, FJJ-Plon, Settembre 2001.

3 L. Jospin, Ma vision de l’Europe et de la mondialisation, in «Les Notes de la Fondation Jean-Jaurès», XXIV, FJJ-Plon, settembre 2001.