Un'utopia ragionevole. Sette idee sulla cultura politica riformista

Di Salvatore Veca Venerdì 01 Febbraio 2002 02:00 Stampa

Cominciamo con una domanda elementare: che cosa vuol dire precisamente condividere una cultura politica riformista oggi? Mi propongo in questo articolo di saggiare alcune risposte. Le risposte alla domanda elementare mirano a chiarire che cosa ci identifica collettivamente, in che cosa ci riconosciamo come riformisti e socialisti democratici e in che cosa ci distinguiamo da altri, sia nella sinistra sia – naturalmente – nei confronti della destra. Le risposte cercano di fissare, per così dire, i tratti distintivi di una identità politica. Le mie risposte sono articolate in una sequenza di sette idee che offro alla discussione. La prima idea è questa: condividere una prospettiva politica riformista ci chiede di essere fedeli congiuntamente al senso della realtà e al senso della possibilità. Questo definisce la nostra prospettiva, il nostro modo di guardare e giudicare le cose politiche e sociali e ci dice che cosa dobbiamo fare e perché: ci dà ragioni per agire politicamente in certi modi.

 

Cominciamo con una domanda elementare: che cosa vuol dire precisamente condividere una cultura politica riformista oggi? Mi propongo in questo articolo di saggiare alcune risposte. Le risposte alla domanda elementare mirano a chiarire che cosa ci identifica collettivamente, in che cosa ci riconosciamo come riformisti e socialisti democratici e in che cosa ci distinguiamo da altri, sia nella sinistra sia – naturalmente – nei confronti della destra. Le risposte cercano di fissare, per così dire, i tratti distintivi di una identità politica. Le mie risposte sono articolate in una sequenza di sette idee che offro alla discussione.

La prima idea è questa: condividere una prospettiva politica riformista ci chiede di essere fedeli congiuntamente al senso della realtà e al senso della possibilità. Questo definisce la nostra prospettiva, il nostro modo di guardare e giudicare le cose politiche e sociali e ci dice che cosa dobbiamo fare e perché: ci dà ragioni per agire politicamente in certi modi.

Robert Musil scrive così, a proposito del nostro senso della realtà e del nostro senso della possibilità: «Chi voglia varcare una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è così com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe anche essere diversa».

Io credo che la condivisione di una cultura riformista ci induca proprio a questa convinzione meditata: noi siamo tenuti a una duplice fedeltà al senso della possibilità e al senso della realtà. Una cultura riformista è votata all’esplorazione dello spazio delle politiche praticabili, entro i vincoli che il mondo ci concede. Essa è alternativa, in questo senso, al realismo scettico e all’utopia nel senso negativo del termine. Io parlo di un’utopia realistica o ragionevole. Un’utopia ragionevole è impegnata a saggiare lo spazio delle possibilità politiche, sulla base dell’accettazione di due clausole importanti: la prima definisce il rispetto dovuto alle persone come sono, mentre la seconda definisce l’interesse per le istituzioni come possono essere.

Ricordiamo d’altra parte la remota origine dei movimenti collettivi cui è variamente intrecciata la storia complicata della sinistra nei contesti nazionali nella nostra parte del mondo. E ricordiamo anche che nella cultura comunista del secolo breve l’utopia di una società perfetta non prendeva sul serio congiuntamente le due clausole. E ricordiamo che ciò ha causato mali politici e sociali, anche se sappiamo bene che l’utopia di una società perfetta è stata presentata nelle vesti di una teoria scientifica della società che a sua volta in nient’altro consisteva che in una filosofia della storia a senso unico. Una cultura politica riformista non rinuncia al sogno di una società più decente e meno ingiusta, ma revoca qualsiasi fiducia a una filosofia della storia a senso unico, lasciandola ai devoti della necessità.

La seconda idea è più o meno la seguente: una cultura riformista non si basa su una teoria della società o sul disegno di una società. Essa affonda le sue radici nel senso di giustizia. Più precisamente, essa muove dal fatto dell’ingiustizia dai molti volti. In un fortunato libretto di qualche anno fa, Destra e sinistra,1 Norberto Bobbio si è impegnato in una lunga serie di definizioni, dicotomie e sottili distinzioni per catturare la differenza e la tensione fra prospettive politiche alternative. A un certo punto trovate una pagina intensa, perspicua e non definitoria in cui Bobbio chiama in causa una «testimonianza personale» per spiegare le radici di una credenza e di una lealtà politica. Bobbio ricorda la sua esperienza infantile delle ineguaglianze. «Queste differenze erano particolarmente evidenti durante le lunghe vacanze in campagna dove noi venuti dalla città giocavamo con i figli dei contadini. Tra noi, a dire il vero, affettivamente c’era un perfetto affiatamento, e le differenze di classe erano assolutamente irrilevanti, ma non poteva sfuggirci il contrasto fra le nostre case e le loro, i nostri cibi e i loro, i nostri vestiti e i loro (d’estate andavano scalzi). Ogni anno, tornando in vacanza, apprendevamo che uno dei compagni di gioco era morto durante l’inverno di tubercolosi. Non ricordo, invece, una sola morte per malattia fra i miei compagni di scuola in città».

Vi sono mali particolari, mali sociali che devono essere politicamente ridotti e azzerati. Politicamente vuol dire: ricorrendo all’azione collettiva e alla scelta pubblica. Non ci basiamo sulle ragioni di una qualche dottrina né sulle misteriose ed inesorabili leggi di movimento della società. Come ho suggerito a proposito della prima idea, noi revochiamo fiducia nei confronti di una qualsivoglia filosofia della storia che lasciamo volentieri ai devoti della necessità. Sulla miseria dello storicismo non c’è bisogno neppure della severa e autorevole lezione di Karl Popper; basta Carlo Rosselli. Muoviamo dalle motivazioni dei sentimenti morali a proposito del giusto e dell’ingiusto. Una cultura politica riformista deve prendere sul serio il senso di giustizia delle persone e connettere alle motivazioni le ragioni delle cose da fare.

Per illustrare la terza idea, possiamo dire così: abbiamo un metodo, non una dottrina. E il metodo riformista si basa sull’idea della priorità della società sulla politica. Si tratta di un’idea normativa, non solo descrittiva. Nel suo senso descrittivo ed esplicativo la tesi sulla priorità è quella che ci ricorda che, nelle circostanze ordinarie, non è la politica che cambia la società. Sono cose come la scienza, la tecnologia, la produzione, la comunicazione, la cultura che cambiano le nostre vite e i nostri modi di convivere durevolmente nel tempo. Questa è una lezione del classico Marx (Karl, e non Groucho) che non abbiamo ragione di dimenticare. Diremo allora che la politica è chiamata a rispondere al mutamento sociale e ai suoi effetti, come ci ha suggerito la seconda idea. E qui scatta l’impegno normativo. L’idea è grosso modo questa: metti alla prova la tua scelta politica per la soluzione dei problemi chiedendoti se una situazione sociale modificata dalla scelta fa sì che le persone stiano meglio, in termini di diritti, opportunità e benessere oppure no. Naturalmente, dobbiamo specificare in che senso e sotto quali aspetti rilevanti giudichiamo una situazione sociale migliore di un’altra. Ciò chiama in causa il nostro criterio di scelta sociale. Ora, una prospettiva riformista incorpora un criterio di scelta sociale che ci dice sotto quali aspetti una situazione è migliore, è preferibile a un’altra. E questo ce lo dirà la quinta idea.

Ecco la quarta idea: chi condivide una cultura riformista crede nella distinguibilità destra-sinistra (che i teorici del pensiero unico o della globalizzazione o i nostalgici conservatori della sinistra non credono tale). Alla base, la distinzione dipende dal rapporto fra la libertà individuale e il suo valore eguale o diseguale e da quanto è politicamente doveroso fare in virtù di una particolare interpretazione del rapporto fra libertà e valore della libertà. John Rawls ha messo a fuoco in Una teoria della giustizia2 la controversia nell’interpretazione politica del rapporto fra la libertà e il suo valore, mostrando la tensione e il conflitto fra una prospettiva conservatrice, incentrata sulla libertà naturale, e una progressista, incentrata sull’eguaglianza democratica.

In una società di individui, come piace dire a Giuliano Amato, una cultura riformista oggi condivide con la cultura conservatrice un punto: la priorità della libertà o delle libertà individuali delle persone su ogni altro valore. E qui si definisce la distinzione. La destra dice: fermati qui e non proporre alla politica altro fine che non sia quello di assicurare e tutelare la libertà di scelta individuale. La sinistra riformista ha a cuore che, assicurata l’eguale libertà per le persone, il valore di quella libertà sia eguale o meno ineguale. E questo dipende da altre cose che non sono la libertà ma che rendono le persone, allo stesso modo, capaci di usare le loro libertà. Questa è una vecchia idea del classico Marx della Questione ebraica e di John Stuart Mill, autore classico del saggio Sulla libertà.3 Non dovremmo lasciare alla destra il discorso politico che fa perno sul valore della libertà delle persone. Dovremmo piuttosto, ci suggerisce la quarta idea, impegnarci a onorare il valore della libertà delle persone mantenendo la promessa sulla eguale capacità delle persone di usare le loro libertà per perseguire nel tempo i loro progetti di vita, individuali e collettivi. Veniamo così, in modo naturale, alla quinta idea che definisce il criterio della scelta sociale, proprio di una cultura politica riformista.

La quinta idea è quella più importante: ha un po’ il ruolo del punto archimedeo di una prospettiva della riforma sociale anche ai tempi difficili del giro di boa del ventunesimo secolo. Essa individua nel criterio della qualità della vita, individuale e sociale, il parametro fondamentale per selezionare i fini dell’azione politica e i variabili mezzi via via più adeguati per perseguire quei fini. Possiamo dire che la qualità della vita delle persone deve essere valutata alla luce di due dimensioni fondamentali: quella dei pazienti morali e quella degli agenti morali. Per illustrare il senso di questa distinzione, diciamo che nel primo caso ciò che è dovuto alle persone dipende dall’urgenza dei deficit nei loro funzionamenti di base, come ha mostrato Amartya K. Sen. Qui il nostro criterio di scelta sociale ci prescrive di minimizzare la sofferenza socialmente evitabile. Nel secondo caso, al di sopra della soglia dei funzionamenti, si mette a fuoco la questione della capacità di agire delle persone che possiamo intendere come la capacità delle persone di scegliere tra funzionamenti  alternativi. Qui il nostro criterio di scelta sociale ci prescrive di massimizzare le capacità delle persone di realizzare i loro progetti di vita. Osserviamo che in entrambi i casi troviamo le ragioni per cui ciascuno deve qualcosa a ciascun altro e queste sono le ragioni di una solidarietà di cittadinanza. E a questo, del resto, deve mirare la difficile politica della equa eguaglianza delle opportunità: a far sì che le persone non siano suddite o schiave della sorte naturale e sociale, ma possano responsabilmente essere padrone delle proprie circostanze di vita.

Credo sia superfluo sottolineare che eguaglianza delle opportunità non è eguaglianza degli esiti: gli esiti, se è realizzata o ci si è almeno approssimati all’eguaglianza delle opportunità, dipendono dalla (e chiamano in causa la) responsabilità individuale. La responsabilità non deve entrare in gioco quando siamo in presenza di deficit nei funzionamenti di base; ma, allo stesso titolo, deve entrare in gioco quando siamo in presenza della capacità di agire. In due parole, una cultura riformista ci chiede di adottare politiche di inclusione e di abilitazione delle persone, non di livellamento. Il criterio valutativo della qualità sociale, per richiamare il titolo di un bel libro di qualche tempo fa di Giorgio Ruffolo, è basato sull’idea di valore dello sviluppo umano come libertà.4

Se la terza idea ci dà il metodo e la quinta idea il criterio valutativo, la sesta idea chiarisce quale concezione di comunità e di cittadinanza sia quella propria di una cultura riformista. È facile vedere che di nuovo qui è all’opera la distinzione fra destra e sinistra che ho evocato illustrando la quarta idea. E dovremmo ricordare che la distinzione è una delle virtù preziose per le democrazie. La distinzione saliente passa ora fra una concezione di società includente e aperta e una concezione alternativa di società escludente e chiusa. Mercato aperto e società chiusa, sembra lo slogan della destra. Una cultura riformista è incentrata sulle regole perché una società sia aperta ai nuovi entranti e deve mirare, anche in tempi difficili, a che la varietà delle culture e delle identità sia coerente con la comune lealtà civile.

Tutto ciò ha a che vedere con la difficile virtù della tolleranza, una virtù messa a dura prova ai tempi dei fondamentalismi e dei tribalismi. Sono naturalmente convinto che una cultura riformista deve includere la tolleranza fra i suoi valori di base. L’elogio della tolleranza, è bene tuttavia ricordare, va insieme alla costante definizione dei suoi limiti. In parole povere, prendere sul serio la tolleranza vuol dire avere le idee chiare sui suoi limiti. Vi sono azioni, trattamenti e condotte, cose che esseri umani fanno ad altri esseri umani e a se stessi che abbiamo il diritto di considerare non accettabili e, per questo, intollerabili. La tolleranza è una virtù del mutuo rispetto e chiama in causa un’idea di reciprocità. La reciprocità spezzata segna allora i variabili limiti di quanto noi abbiamo il dovere di ritenere non tollerabile, punto e basta.

La settima idea ci chiede, di nuovo, di riflettere su quali siano i confini politicamente appropriati della comunità: Europa, mondo, fatto della globalizzazione. In questi tempi difficili, questioni di guerra – quando essa sia inevitabile – e di pace che deve essere possibile, giusta e duratura. Credo che noi dovremmo sostenere con convinzione che la cultura riformista nel ventunesimo secolo, dalle nostre parti, o è europea o non è. Ma essere o fare Europa vuol dire essere disposti a pensare la politica come politica interna del mondo, per dirla con Habermas. Il vecchio Kant della Pace perpetua sosteneva, circa due secoli prima di Internet, che noi siamo in un’epoca in cui la violazione di un diritto in un punto della terra è avvertita come tale in tutti i punti della terra. Ora, la settima idea ci induce a riconoscere che, quando allarghiamo lo sguardo, siamo di fronte al fatto dell’ingiustizia della terra. Il fatto dell’ingiustizia della terra ha molti volti: esso chiama in causa questioni di giustizia distributiva e questioni di giustizia commutativa oltre che, in modo accelerato negli ultimi anni, questioni di giustizia retributiva. Come sostiene D’Alema, non è accettabile che la rete dei diritti resti inchiodata alla dimensione nazionale nel mondo globalizzato.

Si considerino i nuovi movimenti che si costituiscono sulle motivazioni del senso di giustizia senza frontiere. Una cultura riformista deve prendere sul serio la sfida di strani movimenti collettivi che chiedono diritti per altri e non per sé, qua e là per il globo conteso. Essi chiedono anche di avere «voce» in democrazie dagli spazi sempre più ristretti. Anche nelle situazioni di scelta tragica e necessità pratica. Tony Blair l’ha detto efficacemente a Brighton, nei giorni che hanno seguito gli attentati dell’11 settembre: noi abbiamo la responsabilità di far emergere dall’ombra della tragedia un bene duraturo. E, concluderei, di ridare alla politica la dignità che le spetta a fronte di poteri sociali ubiqui e senza frontiere. Nulla di più, per evitare con la consapevolezza immeritata degli eredi, i casi del costruttivismo politico del ventesimo secolo, con il loro corteo di catastrofi e oppressione. Ma, per favore, nulla di meno.

 

Bibliografia

1 N. Bobbio, Destra e sinistra, Donzelli, Roma 1994.

2 J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1997.

3 K. Marx, La questione ebraica, Editori Riuniti, Roma 1997; J.S. Mill, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano, 1997.

4 G. Ruffolo, La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 1990.