Le trappole della memoria. Totalitarismo e comunismo nel ventesimo secolo

Di Silvio Pons Venerdì 01 Febbraio 2002 02:00 Stampa

Il termine di totalitarismo si è identificato per decenni con lo spirito della guerra fredda. Le dispute attorno ad esso hanno presentato un forte contenuto politico e ideologico, prima che concettuale, implicando spesso una demarcazione tra anticomunismo e antifascismo, e anche un duello tra opposti manicheismi. A più di dieci anni dalla fine della guerra fredda, questo lascito è ancora operante. Ma dobbiamo anche chiederci se la persistenza della nozione di totalitarismo non abbia una sua ragion d’essere che non andrebbe appiattita sull’ideologia della guerra fredda, e se non vi siano motivi più profondi della sua vitalità, che chiedono di rivisitarne le origini e la storia.1 Il contesto della nascente guerra fredda generò sia la concettualizzazione, sia la definitiva carica negativa della nozione di totalitarismo.

 

Barbara Spinelli Il sonno della memoria. L’Europa dei totalitarismi, Mondadori, Milano 2001
Tzvetan Todorov Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, Garzanti, Milano 2001

 

Il termine di totalitarismo si è identificato per decenni con lo spirito della guerra fredda. Le dispute attorno ad esso hanno presentato un forte contenuto politico e ideologico, prima che concettuale, implicando spesso una demarcazione tra anticomunismo e antifascismo, e anche un duello tra opposti manicheismi. A più di dieci anni dalla fine della guerra fredda, questo lascito è ancora operante. Ma dobbiamo anche chiederci se la persistenza della nozione di totalitarismo non abbia una sua ragion d’essere che non andrebbe appiattita sull’ideologia della guerra fredda, e se non vi siano motivi più profondi della sua vitalità, che chiedono di rivisitarne le origini e la storia.1 Il contesto della nascente guerra fredda generò sia la concettualizzazione, sia la definitiva carica negativa della nozione di totalitarismo. Questa carica negativa nacque da un’esigenza politica fondamentale: prevedere e prevenire la condotta statuale e strategica del comunismo sovietico. Tale esigenza avrebbe presto generato quasi inevitabilmente tanto la legittima difesa della ricostruzione civile e democratica occidentale, quanto le semplificazioni della realtà e le paranoie che segnarono il clima della guerra fredda.

Ma la connotazione negativa del concetto nacque anche da un’esigenza di comprensione e insieme di condanna morale all’indomani della catastrofe. Al centro di tutto c’era il nazismo. Ma la prima riflessione sulla sua genesi e sulla sua natura, la necessità di non distogliere lo sguardo dalla morte di massa, imponeva interrogativi sull’epoca delle guerre totali, delle ideologie estreme, dei genocidi, nel loro rapporto con la modernità. Proprio nel momento in cui gli esiti della seconda guerra mondiale sembravano accentuare l’autorappresentazione del comunismo come altro dal nazismo, e anzi come unica vera risposta al fenomeno fascista verificata nella prova del fuoco del fronte orientale, quella riflessione portava a vedere ciò che vi era stato di comune: l’intreccio tra l’aspirazione al dominio totale e l’uso istituzionale della violenza e del terrore. Troppo spesso questa intuizione è stata appiattita in un’ideologia volta a cancellare ogni differenza, a presentare i due fenomeni sotto il segno di una mera identità, a inventare uno usable past della guerra fredda (e anche del post-guerra fredda). Ma non per questo quel nesso perde di significato. Esso si ripropone invariabilmente ai nostri occhi ogni volta che torniamo a riflettere sul secolo trascorso per leggere la violenza, il terrore e lo sterminio nella società di massa, per riconoscere tutti i nessi tra i regimi autoritari di massa e la parte catastrofica del secolo, per cogliere la dimensione autentica dell’eredità storica e morale che grava sui contemporanei e sulla loro memoria.2

Se questo ragionamento viene condiviso, esso chiama in causa tutte le culture politiche segnate dall’epoca della guerra fredda, e in modo specifico quella della sinistra. Il crollo del muro di Berlino e il collasso dei regimi comunisti in Europa ne hanno messa in luce un’aporia. Il 1989 venne vissuto come una duplice liberazione dalla stragrande maggioranza della sinistra occidentale: liberazione dall’autoritarismo odioso che per quasi mezzo secolo aveva diviso l’Europa, ma anche dal senso di malessere dettato da un rapporto non del tutto risolto con il segno di quei regimi. Naturalmente, quest’ultimo aspetto vale in modo particolare per i comunisti italiani, che pure vissero anch’essi, nella loro maggioranza, il medesimo sentimento di liberazione. La duplicità di questo sentimento merita un’attenzione che non ha sinora ricevuto. Il giusto compiacimento per la caduta dei regimi dell’Est si componeva anche del sollievo per la rimozione di un problema tutto interno alla cultura e alla storia della sinistra europea, reso sempre più scomodo dal confronto con la realtà opprimente di quei regimi: un nodo che negli anni Ottanta era ampiamente venuto al pettine. Il 1989 sembrò risolvere il problema in un modo sorprendente e inatteso. Ma non lo risolveva sul piano concettuale: anzi, ne riproponeva i termini essenziali. Perché una parte essenziale del problema era costituita dall’idea della riformabilità del «socialismo reale». In realtà questa idea divise, più che unire, la sinistra europea: le sue componenti più liberali ne diffidarono o la respinsero negli anni Ottanta. E tuttavia, essa prevalse come la visione politica e intellettuale più coerente con la cultura della sinistra europea, ancor più sulla scia delle illusioni generate dalla perestrojka di Gorbaciov. Il crollo del comunismo europeo smentì senza possibilità di appello i fondamenti di questa idea. Il nodo era, e restava, quello del totalitarismo: il dibattito sulla possibilità o meno di riformare il «socialismo reale» fu anche una contesa attorno all’impiego di questa nozione. L’idea della riformabilità finì per presentare un significato contrapposto alla nozione di totalitarismo, a causa del contesto della «seconda guerra fredda»: la retorica dell’«impero del male» presentava scopertamente una strumentalità politica ancora più forte di quella degli anni Cinquanta. Ma questo portò a smarrire un nucleo di verità, il senso della cieca deriva conosciuta dalle istituzioni politiche e ideologiche del comunismo sovietico, legata organicamente ai suoi caratteri originari. Il 1989 mise una pietra sopra al dibattito. Ma un chiarimento intellettuale e culturale non ci fu, né la hybris dei vincitori della guerra fredda poteva favorirlo.

Ora Barbara Spinelli mette il dito nella piaga, riflettendo sul significato del 1989 come rimosso della coscienza europea. Il suo libro propone una denuncia della rimozione, a partire da una constatazione difficile da contestare: la retorica della memoria presente nella cultura europea post-1989 non dà luogo a un’autentica rivisitazione del passato, finisce spesso per essere puro nominalismo, non sembra incidere sulla formazione della coscienza civile e politica. È evidente che una simile constatazione rimanda alla reale influenza della cultura storica nelle élites e nelle opinioni pubbliche delle nostre società, ai modi di trasmissione del passato, e al rapporto che gli europei sono in grado di stabilire tra il passato e il futuro. Spinelli non pretende di fornire risposte esaustive. Sostiene però che una delle fonti della mancanza di incisività della memoria europea va indicata nella sua «selettività», rivelata da un sostanziale vuoto di pensiero sul significato storico del 1989. E questo rimanda alla difficoltà di fare i conti con il passato criminale dei regimi comunisti, di mettere su un piano di parità le vittime del fascismo e quelle del comunismo, di dare all’anticomunismo la medesima dignità dell’antifascismo. La cultura dell’antifascismo fatica a riconoscere insieme gli orrori di Auschwitz e quelli della Kolyma. Di qui un duro atto d’accusa contro la sinistra, incapace di avere il «coraggio della memoria».

Non sono poche le pagine di Spinelli che lasciano il segno. I suoi richiami alle voci profetiche e isolate dei dissidenti dell’Est, troppo spesso inascoltate, sono un monito per la coscienza di tutti. Sepolte nell’indifferenza della transizione post-comunista, quelle voci hanno ancora molto da dire alla memoria europea. La figura emblematica è forse quella di Vaclav Havel, che dopo il 1989 ha tenuto fermo l’appello all’esigenza della memoria verso tutte le tragedie del secolo, il rifiuto dell’oblio come metodo per la ricostruzione della cultura civica delle nazioni nella nuova Europa. Altrove non fu così, e i «patti dell’oblio» trionfarono, spesso creando nuove mitologie o addirittura riabilitazioni del fascismo in nome della condanna del comunismo. È il caso della Russia, dove l’incapacità di accettare un destino analogo a quello della Germania post-1945 ha sino a oggi impedito di porre pienamente rimedio alle mutilazioni della memoria collettiva ereditate dal regime sovietico. Ma la questione investe anche i paesi dell’Europa occidentale. Qui è paradigmatica la particolarità del caso tedesco, la nascita di una difficile riflessione sul «secondo totalitarismo» della storia nazionale, subito dopo il dibattito sul «passato che non vuole passare» del nazionalsocialismo. Al confronto, l’Italia appare invasa da una cultura dell’oblio, che in forme diverse investe tutte le principali forze politiche, di sinistra come di destra. La lunga transizione post-comunista pone in rilievo una difficoltà identitaria nata dall’elusione dei nodi della storia del comunismo e del socialismo italiani, a cominciare dall’eredità di Berlinguer e di Craxi: un problema che non è importante soltanto per la memoria della sinistra, ma per la collettività nazionale.

È però necessario seguire Spinelli fino in fondo, fino cioè alla tesi che il 1989 dovrebbe avere il medesimo posto del 1945 nella memoria europea? E che in mancanza di questo, si continueranno ad applicare due diverse modalità della memoria a due date dal significato storicamente e simbolicamente identico? Probabilmente la risposta è no, a meno di non voler abbracciare le troppe certezze che l’autrice ha da offrirci. Se il 1989 non ha avuto il volto catastrofico del 1945, questo dovrebbe indurre a riflessione, e non essere liquidato come un mero accidente. L’implosione pacifica del comunismo europeo suggerisce a Spinelli soltanto un elogio della guerra fredda. La questione non è così semplice. La modalità incruenta della fine del comunismo, lontana dal cataclisma che seppellì il nazismo, ci dice qualcosa sul comunismo stesso, e sul contesto nel quale esso è tramontato. La guerra fredda ha avuto i suoi vinti e i suoi vincitori, ed è stato un bene per tutti che questi ultimi fossero i difensori della democrazia. Ma nell’ultimo quarto del secolo, la guerra fredda non aveva più la centralità posseduta in passato. E lo stesso si può dire per il comunismo, che in modo decisivo aveva contribuito alla sua nascita. Il 1989 si verifica nel mondo della crisi del bipolarismo, cioè nel mondo dell’interdipendenza, della globalizzazione economica, tecnologica e culturale: nel contesto cioè di una corrosione avviata da tempo delle strutture internazionali e degli spazi politici emersi dopo la seconda guerra mondiale. È a partire da questo, dalla sua relativa marginalità in Europa e altrove, che può essere compresa la fine del comunismo e la sua modalità: assai meno a partire dalla guerra fredda, che invece verosimilmente, dalla morte di Stalin in avanti, contribuì alla durata dell’URSS e del suo dominio in Europa, prima che alla sua caduta. La militarizzazione, la repressione poliziesca, la separatezza, la politica di potenza, la censura sulla storia, tutti i principali elementi costitutivi dei regimi comunisti, avevano senso in un mondo dominato dalla guerra fredda, ma lo perdevano, e lo persero, in un mondo che non lo era più. Senza che quei regimi avessero la capacità di autoriformarsi, malgrado la crisi, la trasformazione e il carattere sempre più residuale delle istituzioni totalitarie (fine dell’uso del terrore, svuotamento dell’ideologia, stabilizzazione degli apparati burocratici). La competizione globale perseguita dai successori di Stalin, le persistenti minacce sovietiche alla sicurezza dell’Europa occidentale, le repressioni contro le riforme e contro il dissenso nell’Europa orientale e in URSS ci appaiono retrospettivamente segnali di velleitarismo o di debolezza, non di forza. È questo il contesto che permette di comprendere Gorbaciov. E non è facile immaginare il 1989 senza Gorbaciov.

In questa luce il richiamo a stabilire il posto del 1989 nella memoria europea non viene negato, ma si modifica: non chiede di estendere arbitrariamente a tutto il secondo Novecento la nozione della guerra civile internazionale nata dalla prima guerra mondiale, né di annullare le differenze nelle genealogie e negli esiti dei diversi totalitarismi. È proprio questo, invece, l’assunto dell’equiparazione tra il 1945 e il 1989. Così Spinelli finisce per proporre una nuova memoria selettiva. Polemizzando con il Secolo breve di Hobsbawm, ne assume il presupposto fondamentale, solo cambiandogli di segno: la centralità del comunismo nel suo scontro epocale con il capitalismo. Eppure proprio la cesura del 1989 ha indotto molti storici a mettere in dubbio l’asse dell’antagonismo ideologico come unica chiave interpretativa del Novecento, specie in un’ottica che abbracci l’intera storia europea. Ma anche quando la prospettiva adottata privilegia l’Europa centro-orientale, un simile asse cede il passo a problematiche di più lungo periodo, fondate sugli aspetti etnici e nazionali.3 Gli esempi della selettività provocata da un approccio monodimensionale incentrato sul conflitto ideologico non sono difficili da indicare. Non si tratta soltanto della discutibile riduzione dei comunismi a un profilo esclusivamente criminale. Spinelli ignora, ad esempio, il contributo delle socialdemocrazie al Welfare europeo del dopoguerra, limitandosi al luogo comune della domanda su chi abbia «umanizzato» il capitalismo tra comunismo e conservatorismo liberale. Presenta la Ostpolitik esclusivamente come una fonte di indulgenza verso i regimi dell’Est, trascurandone il ruolo nell’aprire la strada verso un cambiamento nell’Europa orientale, fuori delle rigidità della guerra fredda (e dimenticando che il cinismo della geopolitica fu predicato da Henry Kissinger, non da Willy Brandt).4 Relega in secondo piano il significato dell’integrazione europea e della nascita dell’Unione, che certo fu spiazzata dal crollo del muro di Berlino e mancò colpevolmente di garantire una presenza efficace dinanzi alla tragedia dell’ex Jugoslavia: eppure costituì egualmente un riferimento irrinunciabile per i democratici e i liberali dell’Est, benché in termini inferiori alle loro aspettative e alle stesse priorità che gli osservatori più sensibili indicavano.5

Ogni memoria è in realtà selettiva, e non si contrappone all’oblio. Ma una simile «politica della memoria» sembra partire da un giusto impulso morale per rimuovere la parte non catastrofica del Novecento o per escludere una lunga durata storica: quasi che la condanna e la memoria degli orrori del secolo impongano inevitabilmente la sua visione integrale quale «secolo degli orrori». Qui si tocca il nocciolo della questione. A me pare che esso sia rivelato dalla parafrasi delle parole di Joschka Fischer che Spinelli assume a fondamento della propria riflessione: l’imperativo non può più essere «mai più la guerra», bensì «mai più Auschwitz», «mai più Kolyma». Nell’invito a scegliere tra i due imperativi, invece che ad assumerli entrambi, è implicita la disgiunzione del nesso storico tra l’età delle guerre mondiali e la genesi dei totalitarismi.6 La conseguenza è una visione metastorica, nella quale il totalitarismo viene visto come un’imprecisata «malattia» dell’Europa, un fenomeno privo di genealogia.

Questa visione è parte di un più ampio discorso pubblico, negli ultimi anni diffuso soprattutto in Francia e in Italia. L’espressione più raffinata delle sue fondamenta intellettuali è forse quella rappresentata da Tzvetan Todorov. Questi si fa alfiere di una riflessione sui mali del secolo, volta a sostenere la nostra memoria con le voci che ebbero la forza della lucidità intellettuale e della resistenza umana, come quelle di Vasilij Grossman e di Primo Levi. E volta a metterci in guardia contro ogni «tentazione del bene» insita nella mentalità totalitaria: un monito che presenta implicazioni politiche opposte a quelle di Spinelli, per i dubbi che solleva sulle «guerre umanitarie». Todorov è consapevole della trappola rappresentata dal «dovere di memoria»: un potenziale abuso si annida in ogni selezione soggettiva del passato. Egli esorta a considerare tutte le irriducibili visioni soggettive dei carnefici e delle vittime. E indica i limiti del concetto stesso di totalitarismo, più utile «come concetto inglobato che come concetto inglobante»: cogliere il nesso che consente di accomunare caratteri di fondo dei regimi comunisti e fascisti, in opposizione alle democrazie, è un’operazione necessaria, ma non sufficiente, perché la comprensione delle differenze è altrettanto cruciale. Su tutte, la specificità omicida del nazismo, la sua distruttività incomparabilmente più radicale dell’ideologia comunista.7

Ciononostante, Todorov assegna una centralità al comunismo, per la sua maggiore durata nel tempo ed estensione geografica. Ma proprio questa tesi sembra reintrodurre un’accezione del totalitarismo, applicata al comunismo, scarsamente dotata di determinazioni storiche: un contenitore nel quale il comunismo appare come un blocco senza un’autentica temporalità, che rende insignificante l’evoluzione post-staliniana (non soltanto nei caratteri interni ai regimi, ma soprattutto nelle relazioni tra i regimi e il mondo esterno); un fenomeno di cui si accetta ancora almeno in parte l’autorappresentazione, malgrado il disvelamento delle sue mistificazioni, dello scarto terrificante tra gli ideali e la pratica; e le cui origini storiche si smarriscono, ridotte alla reiterazione di precedenti concettuali risalenti al XIX secolo che quasi niente hanno da dirci sul concreto terreno storico del XX. Così la raffigurazione del «male del secolo » segna un passo indietro rispetto a Hannah Arendt. E prefigura una dilatazione della nozione di totalitarismo, fino a inglobare i drammatici fenomeni degli anni più recenti e della nostra attualità, con il rischio di una perdita di senso della nozione stessa.

Ma il rischio maggiore è un altro, quello di una frattura tra memoria e storia. Il reclamo di un giudizio morale troppo a lungo eluso sui crimini dei regimi comunisti deve ancora conciliarsi con la collocazione del comunismo nella storia. Il dilemma che ci si propone non ha facili soluzioni: come tenere viva la memoria di tutti gli orrori del secolo, creando una narrazione storica che sia capace di incorporare il passato senza archiviarlo, ma anche senza semplificarlo, e che svolga la funzione di aprire una strada verso il futuro, non di farci prigionieri del passato. Nel nostro caso, l’interrogativo è il seguente: è possibile elaborare una memoria degli orrori del comunismo, non soltanto evitando di accreditare una diminuzione degli orrori del nazismo, ma evitando anche di assegnare per forza al comunismo una centralità che non ha avuto lungo tutto il XX secolo? Nella risposta positiva a questo interrogativo risiede la chiave per una memoria più inclusiva, per una ricomposizione di memoria e storia, e per una cultura politica che si lasci davvero alle spalle tutte le eredità della guerra fredda.

 

 

Bibliografia

1 Sui diversi significati assunti dal concetto di totalitarismo nelle varie fasi del secondo dopoguerra, cfr. A. Gleason, Totalitarianism. The Inner History of the Cold War, Oxford University Press, New York-Oxford 1995.

2 Cfr. Stalinism and Nazism. Dictatorships in Comparison, edited by I. Kershaw and M. Lewin, Cambridge University Press, 1997. Stalinisme et nazisme. Histoire et mémoire comparées, sous la direction de H. Rousso, Paris, Editions Complexe, 1999 (trad. it. Bollati Boringhieri 2001).

3 Cfr. D. Diner, Raccontare il Novecento. Una storia politica, Milano, Garzanti, 2001. N. M. Naimark, Ethnic Cleansing in Twentieth Century Europe, Harvard University Press, Cambridge & London 2001.

4 Le ambiguità della socialdemocrazia tedesca verso i movimenti del dissenso all’Est, ma anche il ruolo della Ostpolitik nell’aprire la strada verso la riunificazione tedesca, sono rilevati da T. Garton Ash, In nome dell’Europa, Mondadori, Milano 1994.

5 Cfr. T. Garton Ash, History of the Present. Essays, Sketches and Despatches from Europe in the 1990s, Penguin Books, London 2000 (trad. it. Mondadori 2001).

6 Questo nesso è stato sottolineato sia da François Furet, sia da Giuliano Procacci nel loro dibattito sul XX secolo: cfr. F. Furet, G. Procacci, Controverso Novecento, Donzelli, Roma 1995.

7 Su questa specificità del nazismo insiste L. Paggi, La violenza, le comunità, la memoria, in La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, a cura di L. Paggi, La Nuova Italia, Firenze 1997.