Un salto di qualità per l’Europa

Di Massimo D'Alema Giovedì 13 Luglio 2017 14:52 Stampa

Stretta tra l’ostilità di Trump e il rinnovato attivismo russo, l’Europa si trova ad affrontare uno scenario allarmante in cui nazionalismo, protezionismo e politica di potenza tendono confusamente a soppiantare il tentativo di realizzare una governance multilaterale e condivisa della globalizzazione. Purtroppo, non pare esservi sin qui una visione strategica comune su come il Vecchio continente debba reagire alla nuova situazione internazionale. Si prefigura come via di uscita l’ipotesi di un’Europa a più velocità, di una pluralità di cooperazioni rafforzate che potranno svilupparsi sulla base di diversi raggruppamenti di paesi. È però essenziale che tale processo abbia una guida forte, che passa innanzitutto attraverso una rinnovata collaborazione tra Germania e Francia.

Mai, nel corso di tutto il dopoguerra, si era manifestata una crisi così profonda nelle relazioni tra Europa e Stati Uniti. Una crisi che compromette l’unità d’azione e il ruolo dell’Occidente nel comples­so e persino drammatico scenario del mondo di oggi. L’annuncio di Donald Trump del rifiuto americano di rispettare l’accordo di Parigi sul cambiamento climatico mette in discussione una intesa fonda­mentale per il futuro del pianeta e per la quale l’Unione europea si è impegnata più di ogni altro paese o gruppo di paesi del mondo.

Il viaggio del presidente americano in Arabia Saudita, l’enorme for­nitura di armi alle monarchie del Golfo e il rilancio dell’ostilità nei confronti dell’Iran costituiscono scelte totalmente irresponsabili, le cui conseguenze negative sono già immediatamente in atto. Non si tratta soltanto del frutto della volontà di rinfocolare l’ostilità e il con­flitto tra sunniti e sciiti, ma di una frattura che interviene all’interno dello stesso mondo sunnita con la decisione di isolare il Qatar e in ragione dell’aperto sostegno economico e militare offerto dalla Tur­chia a quel paese, e con il conseguente rilancio di un asse fra la Tur­chia e l’Iran. Si tratta di una svolta pericolosa, che rende più difficile ogni prospettiva di pace nella regione e che pone l’“America first” di Trump in rotta di collisione con le scelte, i valori e gli interessi dell’Eu­ropa. Come, ad esempio, nel caso dell’accordo sul nucleare iraniano, che è stato infatti uno dei maggiori successi della diplomazia europea. Allo stesso modo, il tentativo di creare le condizioni per una soluzione pacifica della guerra civile in Siria ha un’importanza vitale per l’Europa, che si trova ad affrontare in prima linea la crisi dei pro­fughi e dei migranti. È evidente che le scelte di Trump tendono a rimettere in discussione tutto ciò che è stato acquisito e a rendere più difficile il già complesso cammino verso la stabilità e la pacificazione della regione. A questo si aggiungono l’aperta simpa­tia e l’incoraggiamento verso la scelta del Regno Unito di separarsi dall’Unione europea: altro segno evidente di ostilità verso l’Europa di una presidenza che rilancia, sia pure in modo velleitario e confuso, il nazionalismo e l’unilateralismo degli Stati Uniti.

Dall’altra parte ci sono poi il nazionalismo assertivo di Putin e la rinnovata politica di potenza della Russia. Non a caso Putin ha sostenuto l’ascesa di Trump, sia per l’ostilità verso la politica de­mocratica attenta ai temi dei diritti umani e delle libertà, sia nella convinzione che sia possibile rilanciare una diarchia russo-america­na, anche se in termini nuovi rispetto all’epoca della guerra fredda, ma non per questo meno pericolosa. In tale logica Putin si muove per favorire l’indebolimento e la disgregazione dell’Unione europea, sostenendo apertamente i movimenti nazionalisti e populisti nel Vecchio continente.

È uno scenario allarmante quello che si presenta di fronte a noi, un quadro internazionale in cui nazionalismo, protezionismo e politica di potenza tendono confusamente a soppiantare il tentativo di realiz­zare una governance multilaterale e condivisa della globalizzazione.

Colpisce che una statista normalmente assai misurata e prudente come Angela Merkel abbia voluto lanciare un messaggio così forte, insieme di allarme e di orgoglio, quando, rivolta ai suoi sostenitori in una riunione elettorale, ha detto che l’Europa è sola, che noi europei dobbiamo fare da soli. In realtà, forse, l’Europa non è totalmente sola perché la grande potenza cinese nutre preoccupazioni non diverse dalle nostre e appare guardare con simpatia all’Europa unita, anche come possibile fattore di equilibrio e di bilanciamento dei rapporti di forza mondiali.

Tuttavia, è evidente che le responsabilità dell’Europa sono enormi e che, purtroppo, non pare esservi sin qui una visione strategica comu­ne su come il Vecchio continente debba reagire alla nuova situazione internazionale, anche se un dibattito politico si è aperto e in esso si manifestano accenti nuovi e proposte coraggiose. Penso, ad esempio, alle po­sizioni e alle proposte del nuovo presidente fran­cese Emmanuel Macron, di cui si può certamen­te discutere l’impostazione di politica economica e sociale, ma che rappresenta senza dubbio un salto di qualità europeista rispetto al tradizionale nazionalismo francese.

Ma quali risposte potranno venire alla Francia di Macron dalla Germania che sembra avviarsi verso una rinnovata grande coalizione tra CDU e SPD? Naturalmente, in parte questo dipenderà dall’equilibrio che si raggiungerà fra i due mag­giori partiti, perché è evidente che la possibilità – sia pure non molto probabile – di un cambio al vertice grazie al dinamismo e all’autore­volezza di Martin Schulz, sposterebbe in senso più europeista la posi­zione tedesca. Tuttavia, almeno sinora, le scelte della leadership della Germania non sembrano all’altezza dei compiti che questo grande paese ha, dovendo necessariamente svolgere per la sua forza econo­mica e politica il ruolo di guida di una rinnovata Unione europea.

Il salto di qualità che l’Europa dovrebbe compiere è innanzitutto sul terreno della integrazione politica. È evidente che sino a quando un gruppo di paesi fondamentali non deciderà di porre effettivamente in comune la politica estera e di difesa, realizzando al tempo stesso uno stretto coordinamento e una forte solidarietà in materia di go­verno dei flussi dei rifugiati e degli immigrati, l’Europa resterà una potenza dimezzata, non in grado di esercitare tutto il suo peso, in particolare negli scenari di crisi dove sono in gioco i nostri interessi vitali. Questa necessità impone una forma di cooperazione rafforzata

che non dovrebbe, tuttavia, contrapporsi alle istituzioni esistenti, ma al contrario dare loro maggiore forza e autorevolezza, a cominciare dal rilancio del ruolo dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Ma è possibile un salto di qualità politico senza una più forte inte­grazione sul piano economico e un chiaro indirizzo innovativo che faccia dell’Europa una locomotiva della crescita mondiale e orienti le sue scelte verso la prospettiva della piena occupazione, di una ri­duzione delle diseguaglianze, di una maggiore inclusione sociale? I leader tedeschi dovrebbero ricordare che gli Stati Uniti affermarono la loro egemonia nel dopoguerra attraverso la generosità del Piano Marshall e non imponendo una politica di austerità e di restrizioni. La ripresa economica europea appare tutto sommato modesta rispet­to alla caduta degli anni della crisi e, soprattutto, è distribuita in modo ineguale tra i diversi paesi dell’Unione, approfondendo squili­bri e contraddizioni che già minano gravemente la coesione europea. È proprio da questa situazione che traggono alimento i movimenti populisti e antieuropei e, soprattutto, è proprio per questo che viene logorandosi il rapporto di fiducia e di consenso nei confronti dell’U­nione da parte di milioni di cittadini europei e in particolare da parte dei più giovani.

Credo che abbiamo sofferto per lunghi anni gli effetti di un’analisi e di un’impostazione culturale sbagliata, di una visione liberista e monetarista che ha sacrificato la crescita a vantaggio della stabilità monetaria, che ha considerato il debito pubblico come il problema principale dell’Europa, spingendo verso politiche di taglio drastico degli investimenti e di riduzione della protezione sociale. È eviden­te, al contrario, che crescita e competitività potranno venire non da una ulteriore compressione dei diritti dei lavoratori e della domanda interna ma da una politica espansiva che punti a una redistribuzione più equa delle risorse e a un forte incremento degli investimenti e dei consumi interni. È un cambio profondo, non solo politico ma anche culturale, quello che si rende necessario. D’altro canto, senza investire sull’innovazione e sulla formazione non si capisce come si possa elevare la produttività del lavoro. Questo comporta scelte mol­to coraggiose, nette, innovative. Non bastano né la flessibilità né il Piano Juncker. Né sono sufficienti soluzioni di ingegneria istituzio­nale, pure necessarie, come il rafforzamento della governance dell’eu­rozona e la creazione di un ministro europeo delle finanze. Queste scelte sono certamente giuste, ma devono accompagnarsi a un nuovo programma in grado di affrontare coraggiosamente i seguenti temi: a) completare l’unione bancaria; b) aumentare significativamente il budget dell’Unione, anche attraverso fonti proprie di finanziamento che potrebbero venire dall’introduzione della tanto attesa tassazione sulle transazioni finanziarie; c) procedere a una armonizzazione del trattamento fiscale almeno dei redditi da capitale, perché non si può essere credibili nella lotta contro i paradisi fiscali nel mondo se non si comincia a eliminare quel­li che ci sono all’interno dell’Unione europea; d) creare un fondo europeo per l’abbattimento dei debiti nazionali, realizzando così una par­ziale “europeizzazione” del debito. Insomma, lo scambio che sarebbe necessario attuare è quello tra una cessione di sovranità da parte dei paesi dell’eurozona e scelte politiche che vadano co­raggiosamente nella direzione di una maggiore solidarietà e di un più forte sostegno alla cresci­ta e alla giustizia sociale. Naturalmente, questo comporta anche una revisione del Patto di sta­bilità che non può considerare gli investimenti alla stregua della spesa pubblica, scelta sciagurata che spinge i paesi indebitati innanzitutto a tagliare gli investimenti, anche perché è molto più facile e, dal punto di vista elettorale, meno costoso che non tagliare la spesa.

Si parla di Europa a più velocità e, senza dubbio, se ci si vuole muove­re nelle direzioni indicate in questo articolo non lo si può fare atten­dendo l’unanimità e il consenso di paesi che oggi hanno purtroppo leadership di ispirazione nazionalista o populista. Ma è anche evi­dente che il tema non è quello della creazione di una super Europa, quanto piuttosto quello di avviare una pluralità di cooperazioni raf­forzate che inevitabilmente potranno svilupparsi sulla base di diversi raggruppamenti di paesi. Ad esempio, mentre in materia di difesa e di politica estera è cruciale la collaborazione tra i maggiori paesi, se si vuole assicurare un diverso e più efficace governo della zona euro questo comporta l’adesione di tutti i paesi che hanno adottato la mo­neta unica. Ciò che è essenziale è che tale processo abbia una guida forte, che passa innanzitutto attraverso una rinnovata collaborazio­ne tra la Germania e la Francia. Occorrerà attendere lo svolgimento delle elezioni tedesche per capire quale risposta avrà da Berlino la coraggiosa iniziativa europeista del nuovo presidente francese. Non sottovaluto naturalmente il ruolo che potranno avere innanzitutto gli altri paesi fondatori, tra cui l’Italia. Certo, le tormentate vicende della politica italiana delle ultime settimane non mostrano una classe dirigente all’altezza delle sfide che l’Europa ha di fronte a sé, ma que­sto non deve scoraggiare una sinistra riformista che sia europeista nel senso in cui questa parola oggi assume un significato non ripetitivo e retorico. Proprio perché crediamo nell’Europa e non vediamo alter­native a una integrazione politica del Vecchio continente sappiamo che per restituire credibilità a questo progetto occorre un riformismo coraggioso e radicale, pena il rischio che prevalgano la sfiducia, la rabbia, lo smarrimento e la chiusura nazionalistica.