Procreazione e libertà femminile: una questione di cittadinanza

Di Claudia Mancina Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

All’indomani delle elezioni, Buttiglione ha sferrato il consueto attacco contro la legge 194 sull’aborto volontario. Le reazioni suscitate, però, sono state abbastanza sorprendenti: acqua sul fuoco da parte delle donne della maggioranza (in prima fila la ministra Prestigiacomo, non smentita né corretta dal governo di cui fa parte), freddezza da parte di Comunione e Liberazione, e infine un punteggio decisamente scarso nel gradimento dei ministri. Sembra dunque probabile che il governo e la sua maggioranza non apriranno anche questo fronte di scontro. Interverranno su ciò che riguarda l’applicazione della legge, con misure tendenti a incrementare la cosiddetta prevenzione: presumibilmente l’apertura dei consultori a movimenti propagandistici o l’erogazione di denaro come sostegno alle donne che rinuncino a questa scelta. Certamente anche interventi di questo tipo devono essere contrastati nelle sedi adeguate (sperabilmente con buon senso); tuttavia si deve prendere atto che non è in vista una revisione legislativa. E dunque che, anziché lanciarsi ancora una volta in difesa della 194, è forse utile cercare di capire che cosa è cambiato nella coscienza collettiva, tanto da impedire che questo centrodestra così legato alle posizioni vaticane si precipiti, una volta conseguita la vittoria, a realizzare quella modifica della legge tante volte proposta e promessa.

All’indomani delle elezioni, Buttiglione ha sferrato il consueto attacco contro la legge 194 sull’aborto volontario. Le reazioni suscitate, però, sono state abbastanza sorprendenti: acqua sul fuoco da parte delle donne della maggioranza (in prima fila la ministra Prestigiacomo, non smentita né corretta dal governo di cui fa parte), freddezza da parte di Comunione e Liberazione, e infine un punteggio decisamente scarso nel gradimento dei ministri. Sembra dunque probabile che il governo e la sua maggioranza non apriranno anche questo fronte di scontro. Interverranno su ciò che riguarda l’applicazione della legge, con misure tendenti a incrementare la cosiddetta prevenzione: presumibilmente l’apertura dei consultori a movimenti propagandistici o l’erogazione di denaro come sostegno alle donne che rinuncino a questa scelta. Certamente anche interventi di questo tipo devono essere contrastati nelle sedi adeguate (sperabilmente con buon senso); tuttavia si deve prendere atto che non è in vista una revisione legislativa. E dunque che, anziché lanciarsi ancora una volta in difesa della 194, è forse utile cercare di capire che cosa è cambiato nella coscienza collettiva, tanto da impedire che questo centrodestra così legato alle posizioni vaticane si precipiti, una volta conseguita la vittoria, a realizzare quella modifica della legge tante volte proposta e promessa.

La mia ipotesi è che un principio di libertà si sia ormai consolidato al di là del conflitto etico, che rimane bruciante. In altre parole, anche chi è contrarissimo all’aborto legale e pronto a combatterlo con impegno fanatico non ritiene oggi di avere la forza di sottrarre alle donne la libertà conquistata negli ultimi decenni. Se è così, si tratta di un passaggio importante, non meno importante della decisione che ha portato il presidente americano Bush, nonostante i suoi legami con la destra religiosa, a consentire almeno in parte la ricerca sugli embrioni. In questo caso il principio forte che si è imposto (almeno in parte) è la libertà di ricerca; nel nostro caso la libertà delle donne.

Indubbiamente oggi il giudizio sull’aborto è più largamente negativo, sia per il diffondersi di una maggiore sensibilità a tutte le forme di vita (compresa quella degli animali e delle piante), sia come conseguenza di un atteggiamento più difensivo nei confronti dei processi naturali (pensiamo alla vasta ostilità alla modificazione genetica di esseri viventi o di alimenti), sia perché il valore intrinseco di una gravidanza è molto cresciuto, nel nostro mondo in cui si fanno ormai così pochi figli. Se le gravidanze, più rare, si fanno più preziose, l’aborto volontario, più raro, si fa più inquietante, mentre tutte le tecnologie mediche approntate per monitorare queste eccezionali gravidanze hanno anche l’effetto di illuminare le prime fasi della vita prenatale, finora un segreto del corpo materno, con un inevitabile impatto sulla questione etica. E tuttavia, la libertà della donna appare sempre più difficilmente attaccabile. Le donne sono oggi più forti e più rispettate? Si è verificato che fanno della legge un uso misurato, tanto che gli aborti sono significativamente diminuiti? In ogni caso, appare chiaro che il contesto nel quale avviene la discussione sull’aborto è cambiato. L’argomento della debolezza sociale delle donne viene meno, ma non trascina con sé la libertà di scelta; l’emergere della questione etica legata alla dignità dell’embrione o del feto, inizialmente rivolta contro la legge, fa risaltare ancora di più la centralità della donna e il suo essere non soltanto il luogo fisico dove si svolge il processo della nascita, ma un agente morale. Se questo è vero, gli argomenti più spesso usati nel dibattito femminista su aborto, tecnologie riproduttive e più in generale sessualità femminile, non appaiono all’altezza. Troppo spesso la libertà femminile nella procreazione viene pensata come una libertà che ha un fondamento naturale, prepolitico, nella corporeità della donna.

Si cerca allora la radice della libertà femminile nel «potere di generare», un potere definito come appartenente a un piano diverso da quello dei diritti. Ci si ferma così a una capacità del corpo della donna, sia pure una capacità che dà origine a relazioni fondamentali come quelle di maternità e di cura. Ma né una capacità corporea, né delle relazioni naturali possono tradursi in una affermazione di libertà: le donne hanno sempre generato e abortito, ma non perciò sono state libere. Per questa strada si arriva a interpretare la libertà femminile come una libertà naturale piuttosto che civile, estranea e critica rispetto alla legge, anzi «sopra la legge». Certamente la libertà femminile deve essere pensata a partire dall’essere donna, e non come mera estensione della libertà individuale, quale è stata definita per gli uomini in età moderna. Tuttavia, porre la libertà femminile sopra, o comunque fuori della legge, ricorda proprio la più radicale e individualistica (e ovviamente maschile) definizione della libertà, quella hobbesiana: una libertà negativa, che risiede nel «silenzio della legge» come quella femminile risiede nei «vuoti legislativi». Il rapporto tra legge e libertà è un punto cruciale del pensiero moderno, che ha conosciuto complessi dibattiti e soluzioni diverse. Che senso può avere per le donne ritornare a una posizione così estrema?

In verità, predicare la libertà di un individuo di sesso femminile richiede qualche importante aggiustamento nell’idea di libertà individuale, che vada oltre la distinzione tra privato e pubblico, sia nella sua forma classica, che vede da un lato la famiglia e dall’altro la vita pubblica, sia nella forma moderna, che vede sì la scoperta del privato e la sua elevazione a luogo specifico della libertà individuale, ma sempre in una definizione che lascia fuori la famiglia e la riproduzione, con i problemi e i diritti che le afferiscono. Se la libertà modernamente intesa – e quindi la libertà negativa – segna il confine tra l’area della vita privata e quella dell’autorità pubblica (secondo la definizione di Isaiah Berlin) ci si chiede: nella vita privata – nella famiglia e nella procreazione – le donne sono anch’esse soggetti della libertà, o questa viene pensata in modo tale da essere riferibile soltanto agli uomini? La definizione in negativo della libertà (libertà dalle catene, dall’essere imprigionato o reso schiavo da parte di altri) è intimamente legata alle condizioni storiche del suo emergere, quando si trattava di lottare contro il dispotismo, non certo di mettere in discussione i rapporti famigliari e la distribuzione dei ruoli privato e pubblico tra i sessi. Anche per questo non può essere in grado di rispondere alle condizioni completamente nuove della libertà femminile, che chiede proprio di ridiscutere tutto questo.

Alle donne non può bastare la libertà negativa; hanno bisogno anche di quella positiva, che consiste – sempre seguendo Berlin – nell’autonomia, cioè nell’essere padroni di se stessi, e in grado di sviluppare la propria individualità. Fino a ieri, in tutta la civiltà occidentale che pure è caratterizzata dal rilievo dato all’idea di libertà, le donne sono state non solo impedite di decidere di se stesse, della loro vita e della loro proprietà: esse non hanno nemmeno avuto alcuna possibilità di autodeterminazione e autorealizzazione come individui e agenti morali. Se è vero che «la libertà negativa è una qualifica dell’azione, la libertà positiva è una qualifica della volontà» (Bobbio), e poiché le donne hanno avuto sino a ieri non solo gravi impedimenti all’azione, ma anche altrettanto gravi impedimenti alla formazione di una volontà libera, è allora chiaro che questo significato della libertà non è per loro meno essenziale di quello puramente negativo. Sulla base della libertà negativa il dilemma dell’aborto, così come di altre scelte procreative, resterebbe senza soluzione. La libertà negativa è infatti una libertà di individui isolati e dotati ciascuno della pienezza del diritto, portati quindi a uno scontro mortale – proprio come gli antiabortisti immaginano il dilemma dell’aborto: uno scontro tra personalità indipendenti dotate di pari diritto. L’idea della libertà come autonomia, se riferita alle donne, porta con sé necessariamente il superamento dei confini del privato famigliare e quindi consente di argomentare più efficacemente la libertà di scelta (della donna) nel campo della procreazione, facendone una questione di cittadinanza. In altre parole, solo se sono riconosciute pienamente come cittadine le donne possono esercitare una piena libertà nella procreazione; e viceversa, solo se è loro riconosciuta piena libertà nella procreazione le donne sono pienamente cittadine. Dunque, se la legge sull’aborto, pur con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni interne (ma quale legge non ne contiene?), regge anche ai profondi mutamenti dell’opinione pubblica, è perché oggi riesce molto difficile rimettere in questione un tratto così fondamentale della cittadinanza delle donne: lo intuisce anche chi non sarà mai d’accordo con questa definizione.

Nella libertà femminile è in gioco la possibilità di realizzare se stesse come persone e cittadine. Perché ciò avvenga alle donne, è necessario un mutamento profondo del mondo in cui viviamo. Il problema è dar vita a un universo integrato, nel quale tutto il mondo di idee, di sentimenti e di immagini collegato alla procreazione e alla maternità, che è stato sino a ieri il mondo delle donne, entri in contatto con l’altro mondo, quello della sfera pubblica e delle sue leggi (all’interno del quale si disegna lo spazio della libertà individuale), e collabori a una ridefinizione dei rapporti reciproci tra queste due aree, rapporti già ampiamente posti in discussione nell’esperienza storica e nel pensiero politico. Ma le donne sono pronte a questo? Sono pronte a perdere il potere materno, quel potere quasi assoluto che traduce nelle relazioni famigliari il naturale potere di generare dei loro corpi? Un potere che eccede il normale registro dei rapporti civili e politici, basati sullo scambio e sulla negoziazione; e che perciò deve essere ceduto, perché le donne possanoacquisire una piena libertà come agenti morali e cittadine.

La capacità femminile di generare, insomma, non deve essere respinta come una servitù biologica né essere intesa come un potere prepolitico, che non si scambia con diritti e quindi è fondamento di una libertà naturale e non civile. Il potere materno è stato extrapolitico e antipolitico finché la famiglia è vissuta separata dalla sfera pubblica: ciò a cui alludono le Madri, le Erinni, le Menadi, figure inquietanti del mito, da addomesticare e collocare in uno spazio speciale. Ma oggi questa realtà è cambiata e non può più esistere un potere materno di quella specie (se non forse nelle «famiglie» mafiose). Il tema che dovrebbe porsi alla riflessione non è dunque quello di andare a cercare una fonte extrastorica e extrapolitica per la libertà femminile, nella convinzione che questa non abbia niente in comune con la libertà dell’individuo moderno. Ma piuttosto questo: come si integra l’identità femminile con l’individuo moderno? Quali forme assume questo individuo quando si declina al femminile, quando non può più lasciar fuori la generazione e la maternità, ma deve portarsela dietro nelle forme della libertà individuale? Questi sono gli interrogativi ai quali si deve cercare una risposta.Una risposta che non può non trovarsi sul terreno dell’autonomia individuale, e dunque di un’etica pluralista. Una nuova prospettiva etica, quale certamente può venire dall’esperienza femminile, non si troverà su una strada alternativa all’etica dell’autonomia individuale, ma nel suo arricchimento, nello scavo del concetto di individuo e di quello di autonomia. Allora quella facoltà di scelta sulla procreazione, che a buon diritto le donne rivendicano per sé, non può essere fondata su un mitologico – e contemporaneamente biologistico – potere di generare, ma deve essere argomentata sulla base della specifica posizione delle donne come autonome individue, e dunque agenti morali, nelle relazioni riproduttive. Ciò vuol dire che essa deve essere commisurata ad altri valori, altri interessi, altri diritti; che si deve sottoporre alla prova del dibattito pubblico e dell’argomentazione discorsiva. Vuol dire che significati, valori e interessi provenienti da quella parte del mondo umano che è stata finora esclusa dalla polis e legata al ruolo materno e di cura della donna non possono passare tali e quali nella sfera pubblica, invocando un fondamento ad essa estraneo per salvaguardare la propria integrità. Ma devono accettare il confronto proprio di una società pluralista, il confronto con altri valori e interessi. Nel caso dell’aborto ciò significa che la sua regolazione giuridica segue le stesse modalità di confronto pluralistico di qualunque altra regolazione giuridica, e che non giova  affrontarla in termini messianici o intolleranti. Non è fondato un privilegio femminile nel dibattito, ma tutti hanno il diritto di intervenire, gli uomini non meno delle donne. Non c’è una prima né un’ultima parola delle donne. La facoltà di scelta della singola donna sulla sua singola e concreta vicenda – che appartiene a lei sola in quanto individua autonoma – non può essere tradotta in una sorta di esclusiva delle donne, collettivamente intese, riguardo al dibattito etico e giuridico. Non si può ignorare, d’altra parte, che gli interrogativi etici sull’aborto, che sono all’origine di qualsiasi regolazione giuridica, non sono posti dalla società alle donne, ma in primo luogo dalle donne a se stesse: è questo un altro senso, non sufficientemente valutato, delle ricerche sull’aborto, a partire da quelle famose di Carol Gilligan.1

Ma è soprattutto nell’ambito controverso delle tecnologie riproduttive che si rende evidente l’inadeguatezza di una concezione corporativa e biologistica dell’autodeterminazione. L’appello al «potere di generare» appare infatti una povera autodifesa, del tutto inadeguata al contesto plurale e problematico proprio della procreazione artificiale. Quest’ultima, del resto, entra in gioco proprio quando il potere di generare della donna (o della coppia: ma sta nella libertà della donna non voler rompere quella coppia, e assumere come propria la sua incapacità procreativa) si rivela inadeguato. Il diritto di scelta delle donne in relazione alla procreazione – sul quale si basa la libertà femminile – può essere argomentato in modo più ambizioso, interpretandolo come una trasformazione della struttura della cittadinanza. Con essa infatti la procreazione, momento simbolico dell’identità femminile, e fino a ieri luogo per eccellenza privato, caratterizzato da relazioni che sfuggivano alla libertà, entra nella sfera della legalità pubblica, dove la donna è soggetto autonomo proprio perché accetta regole e limiti stabiliti dalla legge; e li accetta perché è cittadina, che partecipa come soggetto alla formazione delle norme sociali, e non è più solo il loro oggetto.

 

Bibliografia

1 C. Gilligan, Con voce di donna, trad. it., Feltrinelli, Milano 1987.