Basta con le divisioni del passato, ci unisce il legame con il socialismo europeo

Di Massimo D'Alema Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

Caro Giuliano, nella nascita di una rivista c’è sempre qualcosa di temerario. Difficile dire se verrà letta con la stessa passione con la quale è stata pensata. Soprattutto ci si chiede se riuscirà a riempire il vuoto che la motiva. Quando, anni fa, ne parlammo per la prima volta immaginavamo un luogo aperto di dialogo tra le grandi tradizioni del riformismo italiano. Non potevamo prevedere l’accelerazione brusca della storia e l’irrompere di problemi – il nuovo terrorismo è uno di questi – che mutano non solo l’agenda politica ma il senso comune delle persone e persino lo spirito del tempo.

Caro Giuliano, nella nascita di una rivista c’è sempre qualcosa di temerario. Difficile dire se verrà letta con la stessa passione con la quale è stata pensata. Soprattutto ci si chiede se riuscirà a riempire il vuoto che la motiva. Quando, anni fa, ne parlammo per la prima volta immaginavamo un luogo aperto di dialogo tra le grandi tradizioni del riformismo italiano. Non potevamo prevedere l’accelerazione brusca della storia e l’irrompere di problemi – il nuovo terrorismo è uno di questi – che mutano non solo l’agenda politica ma il senso comune delle persone e persino lo spirito del tempo. Sono convinto che tutto ciò renda più urgente una ricerca sulle ragioni, i punti di forza e anche i limiti, di un riformismo moderno, attrezzato a reggere l’impatto di eventi che già stanno modificando la vita di ciascuno e la nostra percezione della realtà. Certo è arbitrario considerare l’11 settembre lo spartiacque tra due epoche eppure c’è qualcosa di simbolico nel comporsi, sotto i nostri occhi, di una coalizione politica su scala mondiale senza precedenti nel «secolo breve». La verità è che molti degli interrogativi che solo adesso conquistano la scena sono stati partoriti, e non oggi, da un mondo privato del suo vecchio ordine; quell’abito precario e disarmonico fin che si vuole ma che pure ha esercitato per oltre cinquant’anni un’effettiva egemonia culturale, politica e militare. Di fronte a queste novità si rinnovano le due domande che ci incalzano da più di un decennio e che investono la natura stessa del riformismo e con essa le sorti della sinistra in Italia e nel resto d’Europa. La prima è anche la più brutale; riformismo e socialismo hanno ancora un futuro oppure chi identifica la globalizzazione con la fine della politica descrive in qualche modo il corso della storia? La questione è dirimente. O noi crediamo possibile recuperare quella che Gramsci definiva la forza creativa della politica oppure subiremo inevitabilmente il suo declassamento. Non la sua scomparsa – questo è chiaro – ma la perdita del legame tra l’agire collettivo e una maggiore libertà dei singoli. Se questo nesso viene meno infatti è inevitabile che la politica si riduca semplicemente a eseguire i compiti dettati dall’economia e dal mercato. Dunque per la sinistra la sfida è vitale; ridare centralità all’azione pubblica è la condizione perché il termine socialismo abbia un senso e una prospettiva. L’altro interrogativo investe in modo stringente l’avvenire del riformismo in Italia e la ragione ultima di una ricomposizione unitaria della sinistra. Obiettivo storico e posto da tempo, ma nonostante gli sforzi compiuti ancora sospeso e lontano da quell’approdo che la maggior parte di noi ritiene oramai più che maturo.

Quale funzione dunque – lasciami dire, prosaicamente, quale utilità – ha oggi il riformismo in una dimensione globale della politica, dell’economia, del sapere, e naturalmente della sicurezza considerata, sappiamo a quale costo, valore e principio indivisibile? Possediamo risorse, strumenti, vocaboli che ci rendono parte e partecipi della trasformazione in corso, delle sue contraddizioni e potenzialità? O invece, in qualche modo, è obbligata la via di un ripiegamento domestico delle nostre ambizioni a partire da quella fondamentale, l’idea di un governo democratico della globalizzazione? Personalmente considero la questione prioritaria al resto. Nel senso che gli stessi contenuti, e strategie e programmi, seguono, non precorrono, la collocazione che una cultura politica sceglie di avere o, viceversa, quella nella quale essa viene relegata. Potremmo dire che noi siamo, prima di tutto, lo spazio entro cui acquista significato e rilevanza la nostra esistenza. E questo è tanto più vero in una realtà che sovverte le nostre certezze sulla natura rigida dei confini, sulla sovranità degli Stati, ponendoci dinanzi a una «frammistione» degli interessi generali e particolari sconosciuta al pensiero politico del Novecento. Mi pare un punto di qualche interesse, fosse solo perché non interroga soltanto la biografia di alcuni. La sfida non riguarda il passato. Semplicemente perché l’essere stati «qualcosa» non è in sé sufficiente a dare risposta al problema. La questione ci interroga sul nostro futuro, su quello che intendiamo essere e sulla funzione che vogliamo assolvere. Naturalmente senza rimuovere le differenze e quindi riconoscendo che il socialismo in Europa si è mostrato senza dubbio nel passaggio drammatico di fine secolo la cultura più solida e con le maggiori chances di proiettare la propria influenza sulle sfide di un’epoca nuova. Resta il fatto che dentro le vecchie coordinate, quando l’interesse nazionale coincideva sino a sovrapporsi con l’autorità degli Stati e il potere dei governi, la soluzione a tutto questo appariva lineare. Non per nulla il riformismo, nelle sue diverse declinazioni, ha rappresentato una risposta formidabile a problemi di governabilità e gestione dei grandi mutamenti nel mercato del lavoro, nella socialità, nell’accesso all’istruzione o nell’estensione graduale della tutela collettiva. Nuovi interrogativi si pongono adesso perché il superamento di una dimensione nazionale dei problemi può precipitare le culture riformiste in una drammatica terra di nessuno; qualcosa di troppo connotato storicamente per continuare a svolgere la funzione assolta sin qui e di drammaticamente incompiuto per tentare di allargare il proprio raggio d’azione oltre i vecchi confini. Vista da qui, la concreta questione di un primato della politica si carica di significato alla luce di tutte le contraddizioni più evidenti del pensiero unico. A partire dall’affermarsi su scala mondiale di un solo mercato e di produzioni globali mentre la rete dei diritti è rimasta inchiodata alla sua vecchia dimensione nazionale. Tutto questo non solo produce disuguaglianze individuali, ma finisce con l’alterare le regole della competizione, rimovendo quelle stesse forme di regolazione del mercato tipiche di una matrice liberale.

Ho sempre creduto che a questioni di tale portata non si potesse sfuggire usando l’artificio retorico del superamento delle tradizioni – la suggestione così di moda in anni recenti dell’andare oltre, verso un altrove più evocato che descritto – né rimuovendo l’approfondimento concreto del ruolo originale del riformismo in una fase tanto delicata. E del resto, come ricorderai, fu esattamente questa la motivazione che ci spinse a dar vita alla Fondazione Italianieuropei e a indicare già dal nome il luogo nuovo – lo spazio definito – entro cui ripensare il destino del paese e della sinistra italiana. L’Europa, dunque, la concreta evoluzione dell’Europa, è stata per noi meta e bussola al tempo stesso. L’approdo storicamente necessario sul piano dell’identità e la chiave per orientarci nel rinnovamento della nostra cultura politica e di governo. Non è una ricerca conclusa. Anzi forse siamo solo all’inizio ma è la strada giusta, e comunque l’unica possibile. Diciamo che a questo punto la gravità e la grandezza degli avvenimenti successivi all’11 settembre caricano questa prospettiva di significati nuovi. Per alcuni versi la rendono più difficile ma possono anche aiutarci a sciogliere nodi rimasti a lungo irrisolti. In primo luogo la possibilità per l’Europa di esercitare o meno un peso effettivo dentro il nuovo contesto geopolitico e, insieme, l’opportunità per i singoli paesi di ritagliare per sé un ruolo riconoscibile e coerente con le proprie vocazioni. Di fronte al nuovo terrorismo piovuto dal cielo e in grado, così almeno si teme, di colpire ancora con effetti anche più micidiali, il tema centrale non è ovviamente l’Italia in sé e neppure – diciamoci la verità – le gaffes del nostro presidente del Consiglio. Il vero problema è se l’Italia e con essa la Gran Bretagna, la Francia, la Germania e gli altri protagonisti della nuova architettura europea, sapranno dar vita a un’Europa unita nel segno della politica e non solo della moneta. Perché solo così noi otterremo l’effetto duplice di contare di più nei nuovi assetti e di alleggerire gli Stati Uniti dal peso di responsabilità insopportabili se caricate sulle spalle di un paese solo, per quanto grande e potente. È in questa chiave che ha senso oggi il riferimento alla civiltà dell’Europa, come nostra capacità di conquistare ruolo, autorità e potere dentro il nuovo assetto del mondo. Ciò pone il tema del peso dell’Europa non solo sul terreno dei valori, di una visione della libertà e del progresso, ma anche su quello più pragmatico dei concreti rapporti di forza nel nuovo contesto.La verità è che nella globalizzazione, che pure è un processo inarrestabile e carico di effetti anche positivi, è contenuto il pericolo reale di una riduzione degli spazi di democrazia. Il rischio, come ha scritto di recente Massimo Salvadori, di una perdita del controllo da parte della politica e delle vecchie forme di sovranità di quelle risorse strategiche, prima tra tutte l’esercizio della forza militare, che sole configurano la potenza effettiva di un singolo paese e persino di un blocco di Stati. È questo il punto. Ce la farà il riformismo a ripensare se stesso e la propria funzione dentro e dopo la crisi della sua dimensione statale e nazionale? Noi siamo convinti di sì anche perché sentiamo che questo, non altri, è il nostro avvenire comune. Ma, naturalmente, sostenerlo in via di principio non basta. Bisogna entrare nel merito, definire i caratteri di questa innovazione, tanto più alla luce degli eventi recenti. È un confronto maturo e credo anche appassionante, se non altro perché proiettato verso un orizzonte meno angusto. Siamo obbligati a fuoriuscire per sempre da una discussione nobile ma letteraria sul destino dell’Europa per rispondere al tema vero; se sapremo accelerare i tempi per la costituzione materiale di un’Europa sovrana e potente in grado di disporre, al pari degli Stati Uniti e più di altri, del controllo e del governo delle proprie risorse strategiche. È dunque una sfida politica, ma anche culturale fondata com’è sul superamento di quell’identità tra Stato e nazione che ha sorretto in modo determinante la vicenda moderna. E la conseguente opportunità oggi, a fronte di problemi non più risolvibili dentro quell’antico binomio, di pensare in coerenza col corso storico dell’Europa a Stati che cedono progressivamente quote della propria sovranità a dimensioni statuali più vaste e dunque sempre meno identificabili con le categorie della nazione e più in generale con le grandi culture politiche del secolo trascorso. Sullo sfondo rimane il legame tra la politica e il potere, e la possibilità per la prima di recuperare il gap verso la potenza della dimensione economica e finanziaria.

In gioco dunque – inutile aggirare il problema – è il futuro della democrazia, l’efficacia delle sue procedure, la credibilità dei soggetti politici e delle loro classi dirigenti. Il punto è che solo una politica sovrastatale può reggere alla prova, allargare la sfera dei diritti, delle libertà e delle opportunità individuali rinnovando in questo modo, e non con vuoti artifici linguistici, i valori su cui si è fondato il nostro modello di civiltà. Ecco perché recuperare il primato della politica è la sola condizione per la sinistra di pesare nel futuro dell’Europa; di un’Europa che, a sua volta, ha bisogno della politica se vuole essere un attore globale respingendo le sirene del nazionalismo, della chiusura e di un inevitabile declino culturale e strategico. La stessa drammatica vicenda della guerra contro il terrorismo ci pone davanti a questo bivio. Quella che viviamo è la prima vera crisi della nuova epoca ed è la conferma, mano a mano che gli eventi si susseguono, di quali pericoli e contraddizioni contenga la nuova dimensione globale nella quale siamo immersi. La verità è che senza l’allargamento della democrazia, senza affrontare il capitolo dei diritti umani, civili, sociali, senza una lotta credibile alla povertà e senza la giusta attenzione verso risorse ambientali esauribili, la globalizzazione può degenerare in un conflitto drammatico dove la sofferenza di masse enormi di diseredati diviene il terreno di coltura di estremismi pericolosi e criminali. Mentre sull’altro fronte, quello delle società più ricche e sviluppate, la mancata soluzione di questi problemi non farà che alimentare l’insicurezza e con essa una spinta crescente alla militarizzazione e alla compressione degli spazi di democrazia.

Sono osservazioni dalle quali in qualche misura discende l’altro corpo di problemi ai quali dobbiamo guardare e che investe in modo diretto il destino del riformismo italiano. È il  grande tema della ricomposizione della sinistra, per come esso si pone ora e per le prospettive che apre all’evoluzione del sistema politico e del bipolarismo. Anche in questo caso, caro Giuliano, senza per forza ricominciare daccapo. Se guardiamo all’esperienza e al lavoro di questi anni, ai tentativi anche generosi compiuti in direzione dell’unità della sinistra dopo la fine dei «nostri» vecchi partiti, non possiamo negare i passi avanti nella direzione giusta. Passi non sufficienti è vero, talvolta incerti, con tappe segnate ancora da uno spirito giacobino che ha risvegliato sospetti e paure di un’assimilazione tardiva, ma nonostante tutto la ricomposizione del riformismo italiano sotto una sigla e un progetto comuni è stato il tema col quale ci siamo confrontati nel corso della stagione più recente. La vera novità casomai è che la durezza degli avvenimenti allarga l’imbuto della clessidra e ci concede meno tempo. Ci chiede di accelerare il processo e di completarlo prima che la forza dei mutamenti finisca col ridurci al silenzio o al più – il che è lo stesso – a una vuota testimonianza di valori. Tanto più che il cuore del problema non è rappresentato dai principi che sono scolpiti nell’identità della sinistra riformista soprattutto dopo la prova difficile del governo del paese. Il nodo vero è che questa ricomposizione unitaria non è solo e tanto il frutto del superamento di lacerazioni che a lungo hanno inchiodato la sinistra italiana alle sue divisioni. Questo aspetto c’è e non va rimosso. Ma non è tutto e non basta a capire la forza e la necessità di un progetto nuovo.La ricomposizione della sinistra ha senso oggi perché si fonda su un principio unificante, nasce intorno a una scelta di campo internazionale e a un’opzione storica; quella dell’Europa e del socialismo europeo. Vive qui la vera discontinuità col passato. L’incontro e la collaborazione tra noi – tra le diverse componenti della sinistra riformista – è il solo modo per reggere l’urto delle novità. Dunque è la scelta di guardare avanti che ci impone di stare uniti come in passato non siamo stati. E d’altra parte se davvero, come ha scritto Lionel Jospin, «l’Europa è innanzi tutto un progetto politico, un “contenuto” prima che un “contenitore”, un prodotto della mente, un modello di società, una visione del mondo», allora la sinistra – anche la complicata vicenda della sinistra italiana – deve immergersi dentro questo fiume che scorre. Deve partecipare alla costruzione di quel progetto che solo, ripeto, è in grado di trasformare l’architettura della nuova Europa in un attore globale che conta e decide sulla scena internazionale. Questa è anche la condizione perché il riformismo si rafforzi seguendo lo sviluppo e l’evoluzione continua della società, interloquendo con essa e scoprendo nuovi contenuti e modi per rappresentarla. È questa vivacità che ci consente di guardare già oggi al DNA della sinistra come a una miscela di radici diverse, dal socialismo storico al riformismo comunista, al personalismo cristiano, all’ambientalismo e al pensiero femminile, sino a valori costitutivi della cultura liberale. Nulla a che vedere – lo sai bene – con l’eclettismo culturale che tanti danni ha prodotto in passato, ma una realtà articolata e complessa, animata da grandi personalità rimaste purtroppo a lungo divise anche quando le ragioni dell’unità sovrastavano di gran lunga i motivi della frattura. Oggi, in quasi tutta l’Europa, le forze del socialismo sono impegnate esattamente in questo sforzo; cercare una sintesi moderna dei principi di libertà e di eguaglianza, di un individualismo non egoista e della responsabilità verso il futuro. Partecipare a questa battaglia di idee è il solo modo per non astrarre i destini del riformismo italiano dal percorso che l’Europa va definendo per sé e per il proprio avvenire. Noi non possiamo che stare dentro questo solco e non possiamo che starvi assieme. Per la scelta che abbiamo fatto d’integrare l’Italia in quella prospettiva e perché un’alternativa non è data. Qualcuno ha detto, ancora di recente, che i mali della sinistra, i suoi endemici ritardi, sono anche figli di uno scarso rispetto per la storia del vicino, di colui che a lungo abbiamo avuto seduto a fianco ma fuori da casa nostra. C’è in questo un fondo di verità. Nel senso che abbiamo bisogno anche di maggiore rispetto tra noi.

Dobbiamo capire che il futuro non è necessariamente nelle mani del più abile o di chi può contare sulla riserva di consenso relativamente più ampia. Anche perché quella riserva è oggi comunque drammaticamente insufficiente rispetto agli scopi. Bisogna riconoscere con qualche umiltà che potremo farcela soltanto anteponendo l’interesse generale – l’unità della sinistra riformista – alle convenienze momentanee di un leader o di un gruppo dirigente. Il congresso dei Democratici di Sinistra, in questo senso, sarà un’occasione e una tappa lungo il percorso intrapreso. Altre tappe seguiranno, ma è dovere di ciascuno di noi fissare il traguardo di questa lunga rincorsa. E farlo con autorevolezza, coraggio, creatività, non per sommare gli spezzoni di una storia tramontata ma per riprendere il cammino.

Qualche anno fa mi capitò di affermare che compito della mia generazione era portare la sinistra al governo del paese. La verità è che nel momento in cui abbiamo raggiunto questo obiettivo ci siamo resi conto della sua insufficienza. Dunque, possiamo certamente dire che la sinistra italiana ha completato interamente una lunga traversata sul terreno della sua piena legittimazione interna e internazionale, ma è anche giusto riconoscere che la sinistra al governo non è coincisa con la creazione nel tessuto profondo del paese di una sinistra di governo, di una nuova cultura, di nuove cellule in grado di rinnovare e rigenerare un organismo invecchiato. Ecco perché oggi farei precedere quella frase sulla sfida del governo dall’impegno a costruire finalmente in Italia una sinistra moderna, unita, vincente. Se riusciremo senza presunzione a fornire un contributo a questa prospettiva, allora questa nostra nuova rivista avrà assolto pienamente al compito per cui, una sera di qualche anno fa, cominciammo a pensarla. E non sarà stato un risultato da poco.