Settanta anni dalla nascita della Repubblica. Elogio di una classe dirigente

Di Giorgio Napolitano Giovedì 28 Aprile 2016 14:27 Stampa

Nei mesi cruciali che segnarono la nascita della Repubblica italiana, la nuova classe dirigente che aveva assunto su di sé le sorti della nazione risorta a indipendenza, libertà e democrazia, diede grandi e molteplici prove di sapienza e, con saggezza e lungimiranza, riuscì a garantire continuità di istituti storici e di risorse umane tra lo Stato ereditato dal fascismo e quello postfascista. L’opera di quella classe dirigente illuminata è durata fino agli ultimi decenni del Novecento. Ma da ormai non pochi anni è aperto un cantiere da cui resta difficile prefigurare quel che nascerà e si consoliderà nell’assunzione di responsabilità di lungo periodo per le sorti del nostro paese.


A distanza di settanta anni dalla nascita della Repubblica, di quell’evento, del contesto in cui maturo e in cui dove poi consolidarsi, posso trasmettere solo una flebile memoria personale e, forse meglio, offrire una qualche riconsiderazione storica, suggerita anche dal tempo che stiamo vivendo.

In quella primavera del 1946 vissi solo da spettatore, sia pure non distaccato, la campagna elettorale e poi, il 2 giugno, lo svolgimento del referendum istituzionale. Ero molto giovane, mi mancava un mese per compiere i 21 anni, non avevo dunque nemmeno acquisito i miei diritti di elettore. Politicamente ero sensibile e attivo: ma solo dal novembre dell’anno precedente avevo iniziato il mio apprendistato nelle file del Partito Comunista Italiano, col quale peraltro collaboravo già da un po’ nel movimento studentesco e giovanile.

Il mio primo grande “bagno” nella politica nazionale fu, negli ultimi giorni del 1945, la partecipazione – essendovi stato di colpo eletto delegato dal Congresso provinciale – al V Congresso nazionale del partito: un’immersione indimenticabile in una storia e in una realtà vivente straordinariamente ricche di esperienza e di passione. Ma nei mesi seguenti mi concentrai essenzialmente nella preparazione del I Congresso nazionale universitario, in continuità con le iniziative di cui ero stato partecipe già da un anno al livello napoletano. Quel Congresso si tenne a Roma nell’ultima decade del maggio del 1946. Non potei perciò partecipare nemmeno al corteo popolare per la Repubblica che si tenne a Napoli, a conclusione della campagna elettorale, pochi giorni prima del 2 giugno. Fu un corteo affollatissimo ed entusiasta, che attraverso le piazze e le strade della città: ma a quel pieno di partecipazione popolare corrispose un pauroso vuoto di consensi elettorali per la Repubblica, appena il 20%. E, purtroppo, di quelle lezioni (“piazze piene, urne vuote”, amava dire Pietro Nenni) ne avremmo conosciute parecchie negli anni successivi. I consensi per la Monarchia a Napoli vennero dalla aristocrazia e dal popolino, secondo tradizione, e anche dalla borghesia professionale e – per spirito di conservazione o di continuità storica – da eminenti personalità liberali del mondo della cultura.

Ma simile fu l’esito del referendum in tutto il Mezzogiorno. Se a Roma per la Repubblica voto a malapena il 49% degli elettori, schiacciante fu la prevalenza dei voti per la Monarchia soprattutto in Campania, Puglia e Sicilia, e neanche in Lucania e in Sardegna si andò al di la del 40% di voti per la Repubblica.

Il paese, dunque, posto di fronte a quella scelta, si spacco in due. E anche se nel mio ricordo la campagna elettorale a Napoli non aveva avuto momenti o episodi di accensione drammatica, violento fu – pochi giorni dopo il 2 giugno, al momento della proclamazione del risultato – il manifestarsi di quella frattura nel popolo e nella città. Venne assalita e assediata per molte ore la sede della federazione comunista napoletana da una folla di manifestanti monarchici, che pretendevano fosse ammainata la bandiera tricolore esposta senza lo stemma dei Savoia, e per porre termine, dopo molte ore a quella pressione e a ripetuti tentativi di penetrazione nei locali con intenti aggressivi verso le persone che vi si trovavano, dove intervenire la polizia con le armi da fuoco, provocando fatalmente non poche vittime tra i manifestanti.

Insomma, tra Centro-Nord repubblicano e Sud monarchico, l’Italia apparve di nuovo “tagliata in due”. Prima, fra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945, lo era stata per effetto della divaricazione tra un Mezzogiorno liberato dagli alleati e un Centro-Nord occupato dai tedeschi. E, al di la della fiammata delle Quattro giornate di Napoli, che a fine settembre del 1943 anticiparono la cacciata delle truppe tedesche rispetto all’ingresso in città delle forze angloamericane, l’Italia meridionale era rimasta estranea alla decisiva esperienza della Resistenza. Un’esperienza che ancor oggi non e retorico definire rigeneratrice: e anche il fatto che il Sud non fosse stato partecipe di quella grande ondata ideale ed emotiva avrebbe il 2 giugno del 1946 giuocato un ruolo nella scarsa adesione popolare alla scelta della Repubblica nel referendum.

Nel riflettere dunque sulla nascita della Repubblica, non si può lasciare nello sfondo, sottovalutandone la drammatica pericolosità, la divisione profonda determinatasi una prima e una seconda volta, come ho voluto ricordare, tra il Centro-Nord e il Sud del paese. Le forze politiche democratiche ricostituitesi o nate dopo la Liberazione e giunte attraverso un laborioso percorso a governare insieme il paese, avevano dunque da affrontare un problema serissimo di superamento di quella divisione e di accorta gestione politica della preparazione dei fondamentali lavori dell’Assemblea costituente.

Le nuove forze dirigenti ebbero grande cura anche, s’intende, della predisposizione delle conoscenze di base e dei contributi sociali e culturali indispensabili perche poggiasse su solide premesse l’attività di elaborazione della Carta costituzionale, ovvero di rifondazione dello Stato italiano sul terreno democratico. In questo senso – ancor più che la modesta attività della Consulta nazionale operante tra il settembre 1945 e, in sostanza, il marzo 1946 – fu davvero esemplare l’apporto che venne dal ministero per la Costituente.

Sotto la guida di Pietro Nenni e grazie alla memorabile prova di laboriosità e attitudine alla concretezza e all’innovazione del capo di Gabinetto del ministro, il professor Massimo Severo Giannini, accanto alla Commissione per l’elaborazione della legge elettorale politica per l’Assemblea costituente, lavorarono alacremente, a ritmo sostenuto, numerose Commissioni di studio. Tra esse, assunse particolare rilievo la Commissione economica, per l’ampio coinvolgi- mento, attraverso raccolte di pareri e audizioni, di esponenti rappresentativi del mondo industriale e finanziario e di studiosi di elevata qualità. Ne sono ancora adesso testimonianza i dodici volumi degli atti di quella Commissione.

Ma insieme con questa sapienza nella preparazione dei contenuti dell’attività dei padri costituenti, era stata necessaria la più grande sapienza politica per far nascere e consolidare la Repubblica su basi di unita nazionale, risultate pericolanti almeno in due fasi. La prima fase fu quella della soluzione del nodo istituzionale che aveva impedito fino all’aprile 1944 la formazione di un governo politico dopo la caduta del fascismo e il crollo dello Stato monarchico. E la soluzione venne con la ingegnosa formula giuridica della luogotenenza, dovuta a Enrico De Nicola su sollecitazione e consiglio di Benedetto Croce. Quella via d’uscita transitoria dall’impasse istituzionale, in attesa che dopo la Liberazione fosse possibile ricorrere al voto popolare per la scelta definitiva della forma di Stato, divento politicamente percorribile anche grazie alla nuova posizione assunta dal PCI dopo il ritorno in Italia di Palmiro Togliatti. Fu già quello un capolavoro politico unitario.

E un secondo colpo d’ala fu certamente costituito dalla individuazione ed elezione, per la funzione di Capo dello Stato provvisorio, il 28 giugno 1946, in Assemblea costituente, di Enrico De Nicola. Un uomo pubblico napoletano, di tradizione monarchica (al pari di Benedetto Croce), di sicura integrità e imparzialità e di saldo convincimento nazionale unitario, apparve, e si rivelo, protagonista essenziale per la identificazione dell’immagine della Repubblica con il comune sentire dei cittadini di tutta l’Italia.

Che cosa dire di queste molteplici prove di sapienza della classe dirigente che aveva ormai assunto su di se le sorti della nazione risorta a indipendenza, liberta e democrazia? Va innanzitutto ricordato che cosa essa fosse dal punto di vista della sua composizione, essenzialmente sotto il profilo politico e di governo. Essa poggiava sulla saldatura fra tre componenti storiche e generazionali.

La componente prefascista liberale, che ritorno sulla scena politica esprimendosi in grandi figure come Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Ivanoe Bonomi e gli stessi Croce e De Nicola. La componente dell’antifascismo, che nei lunghi anni del regime mussoliniano opero in Italia, restando attiva e rinnovandosi, nel nostro paese, nelle dure condizioni della clandestinità, della prigionia nelle carceri e dell’isolamento al confino, e a meta degli anni Trenta sui campi di battaglia della guerra di Spagna. E opero egualmente all’estero, esule in diversi paesi e sempre cercando riferimenti nella storia e nella realtà nazionale italiana.

E infine, la componente nuova, e decisiva per il futuro, costituita dalla generazione che, negli ultimi anni del fascismo, si era andata formando alle idee della democrazia e preparando alla prospettiva di un’Italia da ricostruire: emergendo soprattutto nelle università e nei luoghi di educazione e di cultura in spazi relativamente meno esposti alla repressione fascista. Di quella splendida generazione fu figura esemplare Giaime Pintor, e vale la pena di ricordare questa pagina densa di significato dedicatagli dall’antifascista di Giustizia e Liberta e repubblicano di Spagna, Aldo Garosci: ≪Conobbi Giaime e vidi subito in lui l’incarnazione dell’Italia che avevo amato non veduta. Egli e la viva risposta alla mia attesa. Nella progrediente amicizia con Giaime sentivo, al posto del dubbio, la certezza che non c’eravamo sbagliati, che una Italia libera e nuova viveva nell’anima di questa generazione ultima, sentivo anche riempirsi di un significato di calda verità una frase che all’estero mi era sempre sembrata vuota e stolta, sulla “funzione dell’esilio”. Non ero emigrato per stare all’estero, avevo sempre negato a me stesso, quasi, di vivere all’estero passando ore e ore ogni giorno tra cose, uomini, scritti italiani. Ma ora sentivo che veramente avevamo qualche cosa da portare, e non solo da ricevere da chi stava in Italia≫.

La saldatura tra quelle, tra loro ben diverse, componenti della classe dirigente presentatasi come guida all’Assemblea costituente, garanti la necessaria cesura e insieme una saggia, selettiva continuità di istituti storici e di risorse umane tra lo Stato ereditato dal fascismo e la gestione statuale postfascista. E si può dire che l’onda lunga di quel processo, dell’opera di quella classe dirigente, che lascio la sua prima fortissima impronta nell’adozione della Carta costituzionale, e durata fino agli ultimi decenni del Novecento.

Ma ormai da non pochi anni e aperto un cantiere da cui resta difficile prefigurare quel che nascerà e si consoliderà nell’assunzione di responsabilità di lungo periodo per le sorti del nostro paese. Guido Dorso, geniale indagatore della realtà politica meridionale e italiana, giunse ad affermare (1949) che ≪la formazione di una classe dirigente e un mistero della storia, che ne il materialismo ne l’idealismo sono riusciti ancora a spiegare≫. Nella mia lettura giovanile di Dorso – preso com’ero dalla certezza che fossero a portata di mano esaurienti spiegazioni razionali (o ideologiche) anche dei fenomeni più complessi – quell’assunto mi era suonato inaccettabile: e invece, nel tempo che stiamo vivendo in Italia, esso andrebbe forse seriamente rimeditato.