Misuriamoci insieme con la novità del futuro

Di Giuliano Amato Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

Caro Massimo, mi sono capitati sott’occhio in questi giorni gli appunti che mi ero fatto due anni fa mentre leggevo il libro di Pierre Lellouche sul «Nuovo mondo» (un libro che ormai ha quasi dieci anni). Stavo preparando allora una relazione sull’Europa e sui cambiamenti che essa doveva affrontare in un mondo tanto diverso da quello in cui era cresciuta negli anni dell’economia fordista e della geopolitica dominata dal bipolarismo sovietico-americano.

Caro Massimo, mi sono capitati sott’occhio in questi giorni gli appunti che mi ero fatto due anni fa mentre leggevo il libro di Pierre Lellouche sul «Nuovo mondo» (un libro che ormai ha quasi dieci anni)1. Stavo preparando allora una relazione sull’Europa e sui cambiamenti che essa doveva affrontare in un mondo tanto diverso da quello in cui era cresciuta negli anni dell’economia fordista e della geopolitica dominata dal bipolarismo sovietico-americano.  I miei appunti rivelano che dei tanti cambiamenti trattati in quel libro a testimonianza del disordine (e non dell’ordine) mondiale che si stava preparando, io feci una istintiva selezione: le nuove condizioni socioeconomiche, e quindi le grandi ricchezze, i grandi divari e le diffuse incertezze che esse stavano generando tutto intorno a noi e anche nelle nostre società (che stavano diventando società del rischio e non più della stabilità); i nostri nuovi rapporti con l’Est europeo, destinato in parte crescente a ritornare a essere Europa e quindi a condividere con noi i nostri mercati dei prodotti, il nostro mercato del lavoro e le nostre risorse comuni; la bomba demografica sempre più vicina a esplodere ai nostri confini meridionali, con milioni e milioni di poveri che per alcuni decenni avrebbero continuato a lievitare, ponendo noi davanti a un drastico dilemma: attrezzarci a fronteggiare flussi migratori incontenibili (accompagnati da scoppi di conflittualità forse altrettanto incontenibili nei paesi di origine), o attrezzarci a una efficace redistribuzione dello sviluppo.

Mi pareva così che ce ne fosse più che abbastanza per spiegare il futuro in cui stavamo entrando e che fossero quindi queste novità a segnare un tale futuro. Mi limitai perciò a prender nota soltanto, senza particolare attenzione, degli altri capitoli del libro, che si occupavano della proliferazione delle armi nucleari, chimiche, batteriologiche e convenzionali, del terrorismo come nuova arma del cosiddetto «Sud del mondo» e dell’«Islam ovvero la frustrazione della storia» con tutti i fondamentalismi che questo poteva portare con sé. Non che fossi così stupido da ignorare questi temi. Ma pensavo che non sarebbero esplosi nell’immediato futuro oltre le dimensioni dei limitati e controllabili conflitti regionali, che già stavamo gestendo o che avremmo gestito poco dopo, dai Balcani a Timor Est. Mi sbagliavo, mi sbagliavo al punto tale che ora, mentre scrivo questa lettera, sembrano addirittura passati in secondo piano buona parte dei temi su cui allora mi ero soffermato, tant’è che tutti oggi diciamo che il mondo non è più lo stesso da quando le due torri di New York sono state frantumate da un attacco terroristico degno della fantasia cinematografica più estrema, con aerei guidati da uomini votati alla morte e migliaia di vittime innocenti. E il terrorismo continua da allora con altri mezzi a seminare paura nelle nostre società, mentre nel lontano Afghanistan ciascuno di noi sente in gioco ogni giorno una parte di sé.È difficile, è davvero difficile ricapitolare, orientarsi, fornire ad altri tracce su cui costruire orientamenti comuni: i cambiamenti sono così numerosi, così intensi e così rapidi da precedere la nostra stessa capacità di assimilarli e di ricostruire una cornice plausibile per i nostri giudizi e per le nostre azioni. E fra i tanti rischi che in tal modo corriamo senza una bussola per poterci orientare, uno è per me di straordinaria importanza: quello che in questo mondo interamente nuovo, segnato per l’appunto più dai rischi che dalle speranze, più dal bisogno di difendersi che da quello di cooperare, sia proprio la bussola che ha ispirato per decenni il movimento socialista ad essere ritenuta comunque obsoleta. Lo si disse già al tramonto del secolo ventesimo, che molti lessero – e non ingiustamente – come il trapasso alla società degli individui e il tramonto quindi dei soggetti collettivi su cui si era costruito e aveva conseguentemente poggiato il movimento socialista. Figuriamoci oggi, quando i soggetti collettivi riportati in primo piano sono gli eserciti e le alleanze militari. È un rischio reale, che noi stessi possiamo inverare, quando alle prese con i nuovi problemi interpretiamo il nostro ruolo nel rappresentare ansie, nel farci portatori di sentimenti buoni e sacrosanti, ma, non andando oltre questo (che pure c’è e ha da esserci), finiamo per essere la nostalgia di noi stessi. E con la nostalgia si diviene nobili minoranze, ma non si governa la straordinaria complessità del mondo che abbiamo davanti. E questa allora è la sfida: il socialismo, il riformismo hanno lasciato soltanto una traccia di buone intenzioni, oppure offrono ancora soluzioni – e soluzioni migliori di altre – per governare un mondo come questo? Io sono convinto (e lo sono davvero, non per un ostinato bisogno di coerenza) che è dal bagaglio del riformismo che si possono estrarre tuttora le soluzioni di cui c’è bisogno, quelle più capaci di funzionare. Tocca però a noi dimostrarlo.

È vero, nella nostra storia passata fu attraverso lo Stato ed entro i suoi confini che il riformismo dette le sue risposte: con la legislazione sociale che aveva limitato gli orari di lavoro e creato le reti di sicurezza contro i grandi rischi della vita, con la pubblicizzazione dei servizi essenziali per garantirne l’erogazione a prezzi ragionevoli anche ai consumatori più deboli, con la modulazione dell’intervento pubblico nell’economia al fine di sostenere lo sviluppo e l’occupazione. Oggi molti di questi strumenti si sono spuntati, perché i confini dell’economia non sono più quelli dello Stato e sviluppo e occupazione dipendono dalla interazione di fattori che hanno dimensioni più vaste. Inoltre, per ragioni ben note, lo statalismo e le pubblicizzazioni hanno messo in luce con gli anni difetti tali da far preferire di gran lunga una ben regolata concorrenza. D’altra parte, è la società stessa che si è venuta profondamente trasformando: si sono frantumate le precedenti e vaste identità comuni prodotte dai processi produttivi ed è nata – come ricordavo – la società degli individui, ciascuno con lavori diversi, con bisogni diversi, con aspettative diverse. Il riformismo, insomma, non ha più gli stampi in cui si erano formate le identità collettive su cui aveva fatto leva per la sua azione, non ha più buona parte degli strumenti attraverso i quali questa azione aveva potuto produrre i suoi effetti, si trova davanti a orizzonti dilatati, entro i quali i conflitti fra ricchi e poveri, fra potenti e deboli, fra etnie ed etnie, fra integralisti e modernizzatori si presentano in forme sempre più aspre, nuove e impreviste.Sì, tutto questo è vero e guai a non esserne consapevoli. Sono cambiati i confini della politica, sono cambiati i soggetti, sono cambiati i luoghi. Oggi la politica ha un ruolo se sa avere impatto su fatti e vicende che attraversano il mondo, non solo su ciascuno dei nostri paesi. Oggi la politica deve coinvolgere miriadi di individui, che vogliono come in passato sicurezza, ma ovunque possibile la vogliono tradotta in libertà «di» (libertà di scegliere, libertà di farsi valere) e non più soltanto in libertà «da» (da bisogni e da rischi, davanti ai quali siano altri a decidere e a provvedere per loro). Oggi la politica deve avere il supporto di cittadini, che non la vanno a cercare come in passato nelle sedi dei suoi partiti, ma che si aspettano di essere raggiunti nei luoghi, molto diversi da quelli di un tempo, in cui si pongono e pongono domande e punti fermi sui temi di interesse collettivo. Ma perché tutto questo dovrebbe tagliar fuori il riformismo? E cos’altro, invece, potrebbe fare di meglio?

È qui che dall’analisi del passato dobbiamo saper trarre una costante, che io ritengo essenziale. E la costante si identifica non con gli strumenti che il riformismo usò per decenni, ma con le finalità e gli effetti di fondo che seppe realizzare in relazione alla coesione, agli equilibri, alla governabilità stessa delle nostre società. Certo, specie nei suoi primi anni, il problema che esso si poneva non andava al di là del miglioramento delle condizioni di vita di coloro che rappresentava, attraverso la gestione dei conflitti sociali e un’azione parlamentare che poteva al massimo influenzare l’azione di governi di cui esso non era parte. Fu solo negli anni Trenta che, investito pienamente e direttamente del governo di alcuni paesi, il riformismo si trovò davanti alla responsabilità di costruire il tessuto in cui gli interessi che esso tradizionalmente rappresentava potessero essere tutelati entro una visione più complessiva dell’interesse generale. Ma rimase, tra queste due esperienze che variamente si rinnovarono nei successivi decenni, un solido filo comune, un filo che era presente già nelle prime. Il riformismo, in un caso e nell’altro, proprio perché era attento alla riduzione delle diseguaglianze, proprio perché allargava la cittadinanza, proprio perché mirava alla inclusione degli esclusi, riduceva l’asprezza del conflitto che la dinamica economica, lasciata a se stessa, avrebbe invece elevato; creava conseguentemente coesione e rendeva governabili le società di mercato. Ed è questo il punto: non avremmo avuto economie di mercato forti e dinamiche nella produzione del benessere, se non avessimo avuto la forza squilibrante del capitalismo. Ma avremmo finito egualmente per non averle, se non ci fosse stato il riformismo a riequilibrare il potenziale divaricante e distruttivo di quella forza e ad evitare quindi i conflitti, la violenza, le conseguenti reazioni autoritarie, che non sono del resto rimaste nel novero delle alternative teoriche, ma che la storia – come ben sappiamo – ci ha fatto sperimentare in più casi.

E allora: nel mondo tanto cambiato di oggi, insieme allo statalismo, insieme alle grandi fabbriche e ai grandi agglomerati operai della prima industrializzazione, insieme al rigoglio dei partiti organizzati di massa, è anche venuta meno la tensione fra l’unilateralità della dinamica economica e la impellente necessità di bilanciarla, che ebbe comunque dal riformismo le soluzioni migliori? La risposta, lo sappiamo benissimo, è no. Ciò che è accaduto è piuttosto che il problema, da una parte si è spostato in meandri sempre meno visibili (e organizzabili!) delle nostre società, tra i senza lavoro dequalificati, le madri single, i lavoratori precari e quelli sommersi, gli immigrati; dall’altra si è elevato a livello addirittura globale, via via che l’economia capitalista ha sempre più superato i confini nazionali, muovendosi con tutta la sua unilateralità in un contesto nel quale risulta largamente affrancata da regole e forze bilancianti. Chi e come, in questa nuova realtà, promuove la lotta contro le esclusioni che essa drammaticamente produce in ciascuna delle nostre società e nell’arena mondiale? Chi e come evita che si allarghino i fossati fra le tante diversità, che vivono ormai in un mondo troppo stretto per tollerare senza esplodere distanze economiche crescenti, ideologie intolleranti e intolleranti egoismi?

La misura delle responsabilità che abbiamo ce la offre la rassegna delle alternative che resterebbero nella nostra e nelle società similari se in esse davvero sparisse il riformismo. E la rassegna è assai breve, perché le alternative, al fondo, sono due e sono quelle che in modo diversamente sviluppato abbiamo sotto i nostri occhi in Italia. La prima è la destra e quindi i sentimenti che sa suscitare, il collante sociale che riesce a costruire, l’equilibrio fra i grandi valori (libertà, sicurezza, giustizia) che sa realizzare. È del resto la destra – secondo molti – la più adatta a corrispondere al prioritario bisogno di libertà delle società di individui, oltre che a garantire loro, e senza tentennamenti, la sicurezza interna ed esterna alla quale aspirano. Non c’è dubbio che su questi basilari bisogni la destra un collante sociale lo sa costruire – come fecero i conservatori inglesi negli anni della Thatcher e come ha fatto più di recente in Italia la Casa delle Libertà. Ma il collante della destra altro non è che la certezza offerta a tutti che i loro egoismi non verranno contrastati, che chi correrà di più sarà comunque premiato (senza guardare troppo per il sottile sui mezzi usati per aumentare la velocità della corsa), che le leggi e le regole sono impacci di cui liberarsi, se non per i casi in cui servono a contrastare non noi stessi ma gli altri. È indubbio che chi offre bussole come queste alle società del nostro tempo può ottenere vasti consensi, perché incontra e sollecita umori che sono largamente presenti, non soltanto in coloro che hanno, ma anche nei tanti che hanno soltanto la speranza di avere. Ma in questo modo verso quale futuro si avviano le nostre società? È attraverso l’appello ora esplicito, ora subliminale all’egoismo che le si può cementare, che si può mantenere viva l’essenziale responsabilità per l’insieme che ciascuno deve sentire affinché la coesione collettiva non scenda al di sotto dei livelli di guardia, che si possono infine affrontare i problemi del mondo con la necessaria disponibilità delle società ricche a quella redistribuzione dello sviluppo e delle stesse identità che per gli altri da loro è letteralmente questione di vita o di morte? Porre queste domande non significa fare dei moralistici appelli all’altruismo. No, qui sono in gioco le stesse libertà che si presume di difendere altrimenti, è in gioco il futuro pacifico del mondo. Non a caso si tratta esattamente delle stesse questioni che si posero all’inizio del ventesimo secolo e che in assenza delle soluzioni riformiste avrebbero portato, e in qualche caso portarono, all’avvitamento illiberale delle società, all’avvilimento delle economie, alla conflittualità senza sbocco. Sono questioni, dunque, che solo l’egoismo lungimirante riesce a porsi o forse ad accettare se altri le pone. Ne perde invece il senso una società che finisca per rotolare lungo lo scivolo delle tante corse individuali ignare l’una dell’altra (magari con esperienze comuni e collettive confinate nei recinti televisivi delle individualissime riflessioni del Grande Fratello o similari).

A fronte di una destra che si adopra attorno a questo seducente e pericolosissimo scivolo c’è, fortunatamente, un risveglio di sensibilità e di attenzione che investe proprio i grandi temi del mondo e che coinvolge soprattutto le nuove generazioni in una diffusa protesta contro la povertà, le diseguaglianze e il poco che si fa per ridurle. Sappiamo quanti rischi comporta la protesta di piazza e quanta acqua può portare al mulino della destra ogni volta che la violenza riesce a strumentalizzarla e a distorcerne i fini e gli effetti. Da questo punto di vista, considero l’insensibilità a tali rischi di celebrati e propagandati organizzatori della protesta un autentico delitto, una vera e propria forma di imperdonabile tradimento. Ma qui è un altro il punto che voglio mettere in evidenza. I giovani che manifestano contro la povertà, i giovani che così facendo dimostrano che la società degli individui non si identifica per tutti loro nel camminare ciascuno chiuso nella musica che ha nelle orecchie e nel trovarsi insieme soltanto in discoteca, sono un antidoto prezioso contro la fuga generalizzata nella solitudine dell’egoismo. Ma è, la loro protesta, l’unica forma di una politica che si opponga all’egoismo e quindi l’alternativa della sinistra alla politica della destra?

Pongo in questi termini la domanda perché è il modo forse più chiaro per rendere trasparente ciò che penso davanti a quanto vedo emergere a sinistra come alternativa al riformismo allo scopo di combattere la destra: stare con e nella protesta, condividerne i sentimenti, concorrere a gridarli e a rappresentarli. Per alcuni è una scoperta che li ringiovanisce; per me, vecchio socialista, è il ritorno della dialettica che segnò nei suoi primi decenni la storia del movimento socialista, quella fra riformisti e massimalisti. Fu una dialettica difficile, che ebbe anche conseguenze negative per le divisioni e i contrasti di cui fu la matrice. Ma questo non ha mai impedito a me, seguace dei riformisti, di apprezzare la capacità dei massimalisti di rappresentare i drammi sociali, di sottolinearne e di imporne l’urgenza. Attenzione però: qui stava e qui finiva la loro utilità politica, perché che cosa sarebbe accaduto senza i riformisti che, spinti da quella sollecitazione, si adopravano per trovare e far valere soluzioni praticabili? Tornando a oggi, guai se la sinistra prendesse le distanze dalla protesta, ma guai se ritenesse esaurito il suo compito nel rappresentarla. A chi lascerebbe il compito di tradurla in soluzioni di governo? Davanti ai fossati non solo sociali che già si stanno aprendo entro le nostra mura domestiche e nella comunità internazionale, davanti all’ulteriore sgretolamento del tessuto collettivo che può scaturire dalla cultura e dalla politica della destra, di sicuro serve una sinistra rinvigorita, di sicuro serve un riformismo che non sia senza popolo, ma serve una sinistra che si senta investita della missione di governare e che sia in grado di esercitarla con la necessaria omogeneità ai diversi livelli a cui oggi si è chiamati a governare: locale, nazionale e (a dir poco) europeo.

E se guardiamo appunto al livello europeo, ci accorgiamo che nei paesi a noi vicini la profezia di fine secolo, che dava per morto insieme a esso lo stesso riformismo, è ben lungi dall’essersi avverata. Ha dovuto dimostrarlo, il riformismo, di essere ancora vitale. E per farlo si è profondamente rinnovato, è stato (mi viene da dire: togliattianamente) capace di adattarsi alle pieghe della nuova società, senza rimanere chiuso in quelle dalle quali aveva avuto le sue spinte iniziali oltre un secolo fa. Fedele ai suoi fini, ha allargato le sue radici e mutato i suoi strumenti. È ciò che dobbiamo fare anche noi in Italia, più di quanto abbiamo già fatto, con più coraggio di quello che già abbiamo avuto, con meno reticenze, con più esplicitazione, con più dialogo e voglia di convincere di quelle che abbiamo dimostrato sinora. Abbiamo un patrimonio che attende solo di essere valorizzato (e che saremmo semplicemente folli a disperdere): la rete del riformismo europeo, principalmente rappresentata dai partiti socialisti, e la rete dell’Ulivo, in cui sono venute intessendo la loro trama le radici dei diversi riformismi italiani, socialista, popolare, liberal-democratico, ambientale. La fuga nella protesta e nella sua rappresentazione farebbe disperdere la rete dell’Ulivo e ci distaccherebbe dalla rete europea. Mentre la valorizzazione di entrambe ci chiede di mantenere sempre viva una vocazione maggioritaria (e quindi di governo) di cui c’è assoluto bisogno. C’è bisogno in Italia, perché è una missione riformista quella di rendere più libera la nostra società, senza renderla per questo più divaricata e ingiusta; così come è riformista la missione di rendere più competitiva la nostra economia arricchendone il capitale umano e la produttività tecnologica e non solo riducendone i costi. E c’è bisogno in Europa, perché solo un’azione riformista a livello sovranazionale può affrontare le lacerazioni che tormentano il mondo, a beneficio di chi ne soffre e a garanzia della sicurezza delle nostre stesse società.

Davanti a questi temi giganteschi, perché ci scriviamo tu ed io, segnando con questo scambio di lettere l’avvio di una nuova rivista? Intanto perché siamo entrambi convinti che una politica riformista possa segnare la sua identità se nasce da una elaborazione culturale non affidata alle sole società di comunicazione e non tradotta soltanto in slogan suggestivi da pronunziare davanti alle telecamere. E questo, di per sé, significa più cose che contano: da una parte tornare a una vera analisi della società e non fermarsi alla raccolta dei suoi umori quali emergono dai sondaggi; dall’altra, attraverso la circolazione della rivista, consentire non soltanto a chi la fa, ma anche a chi la legge di ritendere i fili di una politica in cui partecipare non sia assistere da tifosi alle esibizioni dei leader, ma sia avere il tempo e il modo di pensare e di ragionare con se stessi e con altri, interagendo davvero nella messa a fuoco e nel cambiamento di convincimenti individuali e collettivi. Non ci aspettiamo – né tu né io – che siano coinvolte in questo processo milioni di persone, ma sarà comunque un processo aperto, che darà nutrimento a una politica comunque più rispondente alle idealità riformiste di quanto non facciano le forme soltanto plebiscitarie consentite dai mezzi di comunicazione di massa. Alcuni mi dicono che a questo provvedono di già i siti di Internet. È vero, e anche la nostra rivista ha il suo sito. Ma molta gente, molta gente a cui teniamo, non va sui siti ed è pronta a leggere, magari in treno o in metropolitana, articoli (non astrusi, e dovremo evitare di essere astrusi) che le servano non a vedere soltanto il mondo, ma a capirlo.

Siamo tu ed io – dicevo – a iniziare questa esperienza, scrivendoci queste due lettere parallele; e anche questo significa qualcosa. Abbiamo alle spalle due storie diverse, storie fatte anche di conflitti fra noi, nel contesto di lacerazioni profonde fra i partiti nei quali tu e io siamo cresciuti. Mentre ti scrivo non so che cosa tu stai scrivendo a me, ma sono certo che nelle nostre due lettere, al di là delle differenze che sicuramente vi saranno, i lettori troveranno la convinzione comune tanto del valore storico quanto della vitalità attuale del riformismo per l’Italia e per l’Europa. Nel mio animo – e immagino anche nel tuo – su tante altre questioni relative al nostro travagliato passato sarebbe rimasta la voglia di verificare consensi e dissensi, ammissioni di torti o di ragioni. Ma davanti a quella fondamentale convinzione comune, davanti alla constatazione ineludibile che gli scenari del presente e del futuro ci propongono scelte, potenziali convergenze e possibili (e magari necessarie) divergenze che nulla hanno a che fare con i nostri conflitti di ieri, io ricaccio indietro il passato, perché il passato è semplicemente finito. È con questo stato d’animo che ti scrivo e – penso – ci scriviamo. L’intento è di promuovere così un’avventura culturale foriera non già di una identità politica che sia solo nostra, ma di un’identità riformista da costruire insieme a tutti coloro – e non dovrebbero essere pochi – che con noi condividono per l’appunto questo: il passato è finito, misuriamoci insieme con la novità e la complessità del futuro.

 

Bibliografia

1 P. Lellouche, Il nuovo mondo: dall’ordine di Yalta al disordine delle nazioni, Il Mulino, Bologna 1994.