Giustizia, eguaglianza e cittadinanza: il diritto alla salute e la sua universalità in Italia

Di Vito De Filippo Mercoledì 24 Febbraio 2016 12:23 Stampa

Ai temi della equità e della giustizia sociale in relazione al diritto alla salute va connessa la questione della sostenibilità nella fruizione e nell’esercizio di uno dei diritti meno negoziabili che ci siano: il diritto a ricevere, da parte di un Servizio sanitario nazionale come quello italiano, prestazioni compatibili con il livello di sviluppo e di evoluzione raggiunto dai sistemi dei paesi OCSE. Di fronte a un bilancio dello Stato prosciugato dopo anni di crisi economica e incapace di fronteggiare le sfide di una ricerca scientifica in grado di apprestare farmaci sempre più evoluti oltre che onerosissimi, è necessaria una sintesi tra governo, Regioni e imprese del settore sanitario che possa imprimere un cambio di strategia e di approccio al SSN: una nuova cabina di regia nella cornice della Conferenza Stato-Regioni.

Equità e sostenibilità sono condizioni di possibilità per la giustizia sociale. Il dibattito tipico del liberalismo di ispirazione angloamericana si è intersecato con fecondità con quello proprio della sinistra europea e si è incentrato, a partire dalle analisi di Rawls, Dworkin, Sandel, Habermas e Taylor (per citare solo gli autori più rilevanti nel dibattito odierno), sulla definizione della giustizia. La giustizia si trova in continua tensione tra la sua definizione in termini di equità o di converso come sistema di garanzie, a seconda delle declinazioni che si sono incontrate e determinate reciprocamente in questi ultimi anni.

In Italia e nell’Unione europea il dibattito pubblico su queste tematiche sovente inclina a ritenere che andrebbero ripotenziati la rappresentanza e il dibattito parlamentare, troppo compresso negli ultimi decenni dall’azione degli esecutivi nazionali e delle agenzie e istituzioni sovranazionali. Ripensare oggi l’Europa dei diritti comporta ripensare la rappresentanza e i diritti sociali, tra i quali quello alla salute è condizione di possibilità per tutti gli altri.

Da questo punto di vista fa piacere constatare che per la prima volta il Patto per la salute 2014-16 contiene una previsione specifica sul tema dell’umanizzazione. L’umanizzazione nell’organizzazione sanitaria garantisce il recupero della centralità del paziente facendosi carico non solo degli aspetti fisici della malattia, ma anche di quelli psicologici, relazionali e sociali. Il concetto di centralità del paziente nei servizi sanitari è stato più volte affermato in questi anni nella normativa internazionale, nazionale, regionale e i diritti del malato sono l’obiettivo prioritario dei singoli paesi e delle associazioni di pazienti.

Le mutate condizioni economiche e la diversa percezione da parte dei decisori politici della primazia del diritto alla salute sono state più volte commentate negli ultimi anni da editorialisti e analisti politici. Le inquietudini di natura finanziaria hanno caratterizzato anche i radicali mutamenti del dibattito politico in Italia e il suo lessico.

«La sostenibilità futura del Servizio sanitario nazionale potrebbe non essere garantita». Queste parole, pronunciate dall’allora presidente del Consiglio Mario Monti il 27 novembre 2012, sancirono l’entrata ufficiale del termine sostenibilità nel lessico sanitario. Da quel momento molti sono stati i commenti e le analisi in tema di definizione del lemma “sostenibilità”, che diventò d’uso comune anche nelle aule parlamentari, tanto che, sia alla Camera che al Senato, sono state istituite due commissioni d’inchiesta con al centro proprio il tema della sostenibilità del nostro SSN.

La Camera, dove l’indagine è stata condotta dalle Commissioni Bilancio e Affari sociali, ha concluso i suoi lavori nel giugno 2014. Al Senato, dove si è impegnata la Commissione Igiene e sanità, i lavori si sono conclusi nel giugno scorso. Da entrambi i rami del Parlamento sono pervenuti due documenti molto articolati con diversi punti in comune e con alcune declinazioni differenti sulle possibili misure concrete per rendere realmente sostenibile ed equo il nostro SSN, declinazioni che ci consentono di affrontare il problema con diverse ipotesi di azione politica. Per la Camera «senza innovazione e cambiamenti importanti il nostro sistema sanitario non potrà farcela»: da questo assunto certamente condivisibile deriva l’apertura a forme incentivanti di sanità integrativa e a un sistema di compartecipazione alla spesa da parte dei cittadini. Questo dovrebbe avvenire con franchigie con soglie decrescenti in funzione del reddito in base alle quali il costo delle prestazioni verrebbe posto gradualmente a carico del cittadino.

Il Senato ha inteso invece discutere lo stesso concetto di sostenibilità. Non è necessario partire dalla sostenibilità, secondo i senatori, che si basano su un assunto normativamente ispirato che potrebbe essere sintetizzato nel principio secondo cui «il sistema sanitario è tanto sostenibile quanto noi vogliamo che lo sia». Ovvero è la decisione politica a doversi assumere la piena responsabilità di scelte e opzioni differenti nel determinare il livello di finanziamento per la sanità.

Se da un lato la tesi del Senato è corroborata anche dal fatto che in Italia ormai per la sanità pubblica si spende molto meno che negli altri Stati europei – si è giunti a una diminuzione del 28,7% della spesa pro capite a parità di potere d’acquisto rispetto all’Europa a 15 (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Italia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia, Regno Unito) – dall’altro, continuare a immaginare di comprimere ulteriormente la spesa appare impossibile a meno di voler effettivamente smantellare le tutele sanitarie universali previste dal nostro ordinamento. Il problema della sostenibilità futura della sanità, posto con decisione dalla Camera, resta comunque in piedi. Ciò per diverse ragioni, che ho potuto approfondire in questi intensi mesi di attività di governo e di lavoro con il Parlamento, tra cui le più significative sono la cronicizzazione di molte malattie e l’aumento dei costi per l’innovazione farmaceutica e tecnologica.

Due fattori con i quali occorre fare i conti già ora. Lo abbiamo visto, ad esempio, nel caso recente dell’introduzione dei nuovi farmaci contro l’epatite C, i primi in grado di eradicare la malattia ma con un costo talmente elevato da costringere i governi mondiali a comprimere e razionare l’accesso alle terapie, con programmi di triage terapeutico in base allo stato di salute dei sieropositivi. In Italia siamo riusciti a trattare con i nuovi farmaci 30.000 pazienti nel 2015, ma sappiamo che i sieropositivi italiani al virus dell’epatite C sono, secondo alcune stime, tra 1,5 e 2 milioni.

Ma non ci sono solo i farmaci. Anche nel campo dei dispositivi medici l’innovazione costa e i medici sanno quanta differenza può fare una tec-nologia sanitaria di qualità e di ultima generazione rispetto a dispositivi vecchi o di scarsa qualità produttiva. Di fronte a questi dati il tema della sostenibilità resta quanto mai attuale. Ci possiamo permettere ancora queste innovazioni? È una domanda fondamentale alla quale bisogna dare risposte concrete e innovative. In questo senso tornano utili le conclusioni delle due indagini parlamentari citate. Sistema da innovare profondamente, dice la Camera, e maggiore assunzione di responsabilità della politica, dice il Senato.

Due visioni che, come ho detto, contengono entrambe elementi di verità. Dal 1978, quando si decise di istituire un Servizio sanitario nazionale di impronta universalistica e finanziato dalla fiscalità generale abbandonando le vecchie mutue, a oggi il SSN ha subito due grandi riassetti: prima la scelta dell’azienda come modello gestionale al posto delle originarie USL disegnate dalla legge 833 e gestite in chiave partecipativa come diretta emanazione della politica locale; poi la regionalizzazione del servizio sanitario con la delega legislativa delle materie sanitarie alle Regioni.

Il bilancio di queste due innovazioni strategiche si presta oggi a una lettura in chiaroscuro. L’aziendalizzazione è stata realizzata solo in parte: la stessa natura giuridica delle Aziende sanitarie locali è ancora oggi ambigua, senza una vera autonomia aziendale e con una gerarchia del management atipica. Non esiste un CDA, non c’è una responsabilità diretta sul bilancio, non c’è un ruolo diretto nella contrattazione con il personale, che resta inserito nei ranghi regionali. Di conseguenza i margini di autonomia aziendale sono limitati dalla programmazione e dalle decisioni regionali, che ne fanno sostanzialmente più degli “enti regionali” che delle aziende autonome a tutti gli effetti, a dispetto del paradigma aziendalista che si è voluto introdurre, anche se forse non era una svolta indispensabile, in sanità.

Ciò ha fatto sì che anche le logiche e le scelte gestionali del management (a partire dalle nomine apicali) siano più emanazione della politica della giunta (e quindi sensibili ai diversi orientamenti politici) che di scelte ispirate esclusivamente a dinamiche di libera iniziativa aziendale, pur se in un “mercato” particolare, tutelato e “governato” come quello della salute.

D’altro canto la regionalizzazione, divenuta operativa con la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 e finalizzata, negli intenti del legislatore, ad avvicinare la risposta sanitaria alle diverse esigenze locali, ha finito per congelare le diversità preesistenti, così che dove la sanità funzionava bene ha continuato a farlo e dove invece funzionava male, e il diritto alla salute era compresso a livelli inaccettabili, ha comunque conservato questa iniquità. Si è quindi giunti a una tale ampiezza delle diseguaglianze e della discriminazione nell’accesso ai servizi sanitari determinata dal luogo di residenza degli assistiti che non può essere più tollerata. Le differenze esistenti si sono così incancrenite, e si è consolidato un approccio alle questioni di tipo isolazionista, avviando una sorta di chiusura dei confini sanitari regionali (non solo virtuale) e adottando scelte diverse sia sul piano assistenziale che finanziario (basti per tutti l’esempio dei ticket, ormai una vera e propria giungla tributaria, diversa da una Regione all’altra). Questa realtà è stata ben fotografata da ambedue le Commissioni parlamentari sulla sostenibilità del sistema e indicata dall’OCSE in un recente report sulla sanità italiana come la prima problematica da affrontare per migliorare il quadro dell’assistenza sanitaria del nostro paese. In sostanza, quello che è venuto meno dopo la scelta regionalista del 2001 – e che ora la nuova riforma del Titolo V all’esame del Parlamento intende correggere riportando allo Stato l’esclusività delle politiche sanitarie e limitando lo spettro di azione regionale alle sole scelte di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari – è la garanzia di unicità di accesso alle prestazioni e della stessa uniformità dei livelli essenziali di assistenza su tutto il territorio nazionale. Una deriva alla quale è indubbio abbia contribuito anche la progressiva perdita di influenza del ministero della Salute che, nella sua nuova dimensione scaturita dalla legge del 2009 che lo “re-istituiva” dopo la sua abolizione da parte della legge Bassanini del 1999, vedeva perdere molte sue funzioni a partire da quelle dirimenti sul finanziamento del SSN che venivano di fatto delegate al MEF.

Il combinato disposto di questi due fattori, regionalismo e perdita di poteri del ministero, ha indubbiamente indebolito quella che potremmo definire come ipotetica “cabina di garanzia nazionale della sanità”, rappresentata virtualmente dal ministero della Salute, quale garante primario dei LEA (Livelli essenziali di assistenza), e dal Parlamento, quale legislatore unitario nazionale. Senza questa “cabina di garanzia nazio-nale” la sanità italiana si è frammentata, facendo perdere al SSN, anche nell’immaginario e nella percezione dei cittadini, quella forza propulsiva di comparto nazionale, per diventare al contrario “patrimonio” o “problema”, a seconda delle situazioni, delle singole Regioni.

La correzione di questa deriva è pertanto una priorità assoluta per garantire pari assistenza e pari qualità della vita ai cittadini, ma anche per affrontare la sfida della sostenibilità con armi più forti che consentano da un lato di promuovere politiche di spending review incisive (si pensi ad esempio a come potrebbero cambiare le economie di spesa se si passasse a politiche di acquisto centralizzato, come del resto previsto dalla legge di stabilità 2016, o se si diffondessero compiutamente i costi standard sanitari, sui quali c’è un preciso impegno del governo) e dall’altro di attuare interventi decisi per supportare e correggere le situazioni più critiche (in questo senso ben vengano i nuovo poteri di affiancamento dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali alle Regioni in Piano di rientro previsti dalla legge di stabilità). Basterà? No. È infatti indubbio che la sostenibilità del sistema (e qui do piena ragione alle conclusioni dell’indagine del Senato) è prima di tutto una scelta politica che si deve tradurre in una strategia lungimirante in grado di coniugare investimenti e capacità gestionali e soprattutto di valorizzare compiutamente l’apporto che il sistema salute nel suo complesso può dare allo stesso rilancio dell’economia del paese.

All’inizio del 2015, in occasione della presentazione del Rapporto OCSE dal titolo “Revisione OCSE sulla qualità dell’assistenza sanitaria in Italia”, è emerso come l’Italia abbia migliorato notevolmente la qualità dell’assistenza sanitaria negli ultimi decenni. Secondo il rapporto OCSE gli indicatori di salute della popolazione italiana sono tra i migliori per aspettativa di vita alla nascita e per gestione delle cronicità: questi dati aggregati mascherano, comunque, profonde differenze tra le Regioni o, nella stessa Regione, tra i diversi territori. Sono ancora necessari interventi per sostenere le Regioni più in difficoltà, affinché possano erogare servizi di qualità. L’organismo internazionale ha raccomandato al nostro paese di assicurare che i continui sforzi per contenere la spesa sanitaria non pregiudichino la qualità dell’assistenza, come principio fondamentale sotteso a un governo sistematico che mi ostino a voler vedere come incentrato sull’equità. L’allocazione delle risorse regionali deve avere il proprio fulcro nella qualità ed essere collegata a incentivi per il suo miglioramento continuo con piani e obiettivi specifici.

Si è detto più volte che la sanità non è un costo ma un investimento. Non solo perché produce salute e quindi benessere ma anche perché è una grande opportunità. Investire in sanità vuol dire muovere risorse, uomini, saperi italiani che il mondo ci invidia per le nostre capacità ideative e realizzative. È necessario sviluppare un approccio più omogeneo e ambizioso per monitorare e migliorare le performance dei sistemi sanitari, attraverso un’infrastruttura informativa meno frammentata. Queste considerazioni di fatto sono state alla base della costruzione del Patto per la salute 2014-16 e del Regolamento degli standard ospedalieri, in combinazione con il Programma di revisione della spesa in sanità, all’epoca gestito dal commissario Cottarelli. Questi provvedimenti contengono previsioni che comportano riduzioni di inefficienze, eliminazione degli sprechi e misure che si pongono l’obiettivo del miglioramento della qualità e della sicurezza dell’assistenza, nonché dell’eliminazione di attività non prioritarie o inappropriate.

Una rilevazione di qualche anno fa stimava che a fronte di un carico in termini di spesa pubblica del 7,2% sul PIL (i dati erano riferiti al 2010), la sanità rappresentava il 12,8% dello stesso PIL in termini di “ricchezza” prodotta. A fronte di questi dati le politiche economiche nei confronti del settore restano purtroppo nei fatti tuttora ancorate a una visione della sanità come mero fattore di spesa e non come fattore di sviluppo per l’intera economia nazionale, anche sul piano dell’occupazione. Un cambio di strategia e di approccio sul quale governo, Regioni e imprese del settore devono trovare una nuova intesa capace di valorizzare questo patrimonio, concordando politiche e obiettivi da raggiungere con un “Piano nazionale di sviluppo del settore sanitario” capace di promuovere un generale ammodernamento strutturale e tecnologico (penso soprattutto alla rete ospedaliera e ai nuovi servizi territoriali) ma anche capace di governare l’innovazione farmacologica e strumentale con politiche innovative sul piano della negoziazione dei prezzi e degli acquisti. In questo quadro non possono mancare degli interventi sulle politiche del personale che, in una visione strategica di sostenibilità del SSN, sono quanto mai centrali.

Per attuare la visione che ho delineato vorrei organizzare nel 2016 un evento che, a mia memoria, non si è mai realizzato: far partecipare, come protagonisti attivi e non come soggetti informati, alla realizzazione del nuovo Patto per la salute non solo lo Stato e le Regioni ma anche i diversi “produttori di salute” ossia i rappresentanti sindacali e professionali degli operatori del SSN, dipendenti pubblici o privati, con rapporto di lavoro dipendente e con rapporto di lavoro convenzionato. Le motivazioni che mi convincono dell’opportunità di questa scelta sono varie e tutte valide: la prima è la constatazione che i processi di innovazione che il nuovo Patto per la salute vuol attivare per difendere, consolidare ed estendere la capacità del SSN di tutelare la salute individuale e collettiva hanno bisogno di attuarsi anche con la comprensione, la condivisione e il coinvolgimento dei soggetti, in primis i professionisti sanitari, che dovranno quotidianamente programmarli, attuarli, monitorarli e verificarne gli effetti.

La seconda è la constatazione che la risorsa umana e professionale è il principale e centrale attore nell’erogazione delle prestazioni rese ai cittadini dal Servizio sanitario nazionale, risorsa umana costituita nella maggioranza da oltre 30 profili professionali laureati, tutti caratterizzati da uno specifico e autonomo ambito d’intervento: è, quindi, impossibile non tenerne conto e con essa delle loro numerose rappresentanze sindacali e professionali.

La terza è data dalla necessità dello stesso sistema di avviare una profonda modifica dell’organizzazione del lavoro, in molte realtà del paese ferma a modelli precedenti la legge 833/1978 e comunque datati, funzionale all’evoluzione scientifica e tecnologica, nonché a una riforma dell’ordinamento e della formazione degli operatori. Alcune priorità come l’ospedale per intensità di cura, le cure primarie nel territorio presenti sulle 24 ore, le implementazioni delle competenze delle professioni sanitarie e la valorizzazione della carriera professionale e non solo di quella gestionale della dirigenza medica e sanitaria sono innovazioni la cui progettazione e realizzazione, condivise e convinte, non possono aver corso senza il confronto e la partecipazione attiva dei soggetti che di tali modifiche non saranno solo i destinatari bensì i protagonisti.

La storia del Servizio sanitario nazionale, che dopo lo scioglimento del precedente sistema mutualistico si è evoluto in diverse forme di difesa e mantenimento delle sue caratteristiche di sistema universale, pubblico e solidaristico, ha visto in prima fila i sindacati, gli ordini, i collegi e le associazioni professionali rappresentative. Una tale ricchezza di idee e di impegno professionale e lavorativo, per estrinsecare al massimo la sua potenzialità e capacità riformatrice, dovrebbe avere la possibilità di svilupparsi in uno scenario unitario che superi le metodologie e le ritualità della contrattazione, ormai insufficienti per la realizzazione di un disegno strategico di sistema.

L’auspicabile partecipazione delle rappresentanze sindacali e professionali del personale del SSN alla realizzazione del Patto per la salute dovrebbe svilupparsi in un unico tavolo di confronto con il ministero e le Regioni, senza nulla togliere a successivi momenti specifici ma che in seguito dovrebbero essere ricondotti al tavolo di confronto unitario e unificante.

Anche per questi motivi il ministero della Salute ha proposto uno specifico accordo (accettato dalla Conferenza Stato-Regioni) per l’istituzione di una cabina di regia per la regolazione dell’attività professionale in sanità al fine di dar l’avvio a un unitario e unificante tavolo di confronto con le rappresentanze sindacali che sia in grado di dar vita a un’intesa con ministero della Salute e Regioni sui contenuti del nuovo Patto per la salute. Mi voglio impegnare per realizzare questo evento partecipativo, insieme ai miei collaboratori, perché sono convinto che potrà essere veramente l’occasione per superare l’epoca delle contrapposizioni e mettere in campo un protagonismo attivo e positivo, con il necessario intreccio e l’integrazione dei diversi saperi professionali per la difesa, il mantenimento e, si auspica, il potenziamento del nostro Servizio sanitario nazionale.

In sintesi, la nozione di sostenibilità in sanità che ho cercato di tratteggiare deve essere ampliata e includere quindi, oltre a fattori strettamente economici, i presupposti di un’azione politica normativamente ispirata, integrata e incentrata sulla persona e sulla cittadinanza, oltre che su una visione prospettica del futuro del nostro paese. Questi sono la ricerca e lo sviluppo scientifico, la crescita professionale degli operatori, l’attenzione alle fragilità e alle diseguaglianze, la promozione della persona in tutte le situazioni della vita.