Sostenibilità: forse un falso problema

Di Federico Spandonaro Mercoledì 24 Febbraio 2016 12:23 Stampa

Ogni giudizio in merito alla sostenibilità di una spesa va espresso in considerazione sia delle risorse disponibili sia delle priorità che si assumono. Nel caso specifico della spesa sanitaria, allora, occorre chiedersi non tanto se ci siano i margini per spendere di più in tutela della salute quanto se valga la pena investire in questo comparto, al fine non solo di porre rimedio alle sofferenze che il sistema manifesta, ma anche per offrire una migliore risposta in termini di presa in carico e qualità dei servizi oltre che di riduzione delle diseguaglianze in tema di salute.

Il tema della sostenibilità, negli ultimi anni, è sempre più presente nei convegni in ambito sanitario e anche nelle previsioni degli organismi internazionali, che tendono a prospettare scenari “catastrofisti”.

Cosa sia sostenibile dipende, però, tanto dalle risorse disponibili quanto (e principalmente) dalle priorità che si assumono. Di fatto, almeno nei paesi ad alto reddito, e fra questi è l’Italia, la spesa sanitaria, per quanto rilevante, si attesta su livelli intorno al 10% del PIL: evidentemente è del tutto indimostrabile che non si possa spendere di più per la sanità (che rimane pur sempre fra i bisogni primari), sebbene a scapito di altri impieghi. La questione, piuttosto, è se “vale la pena” spendere di più (o simmetricamente “di meno”) per la sanità: più che un problema di capability to pay, si pone, quindi, come un problema di willingness to pay. Assumendo, per definizione, che i cittadini sappiano come allocare razionalmente le proprie risorse, il problema fondamentale è l’allocazione delle risorse pubbliche, che non è affatto scontato sia ottimale. Ragionando in media, la quota di spesa sanitaria pubblica nei paesi ad alto reddito si attesta sul 75%: quindi il “problema” della corretta determinazione della spesa pubblica è quantitativamente rilevante e non può che incidere significativamente sugli esiti finali. Allo stesso tempo non si dovrebbe dimenticare che la spesa sanitaria privata è complementare a quella pubblica, mirando al soddisfacimento dei bisogni residui dei cittadini. Fatto che si potrebbe interpretare dicendo che i livelli di spesa complessiva attuali sono “per definizione” rappresentativi della willingness to pay; se non fosse, però, che in Italia tre milioni di cittadini, secondo le rilevazioni Istat, dichiarano di rinunciare a spese sanitarie per problemi economici (e in tal caso si configura davvero un problema di capability to pay); e se non fosse, inoltre, che i consumi sanitari sono permeati di esternalità positive, e quindi potenzialmente forieri di un sottoconsumo in assenza di adeguati incentivi: nel caso italiano, basti pensare ai livelli del tutto subottimali a cui sono scese le vaccinazioni.

In definitiva, nel caso specifico italiano, dati i numeri attuali, è difficile pensare che si possa spendere di meno e che, come conseguenza, non sia razionale spendere di più. Sul piano politico, però, le indicazioni implicite contenute nei documenti di finanza pubblica vanno nel senso opposto, dimostrando che l’investimento in sanità non è realmente fra le priorità: a conferma di ciò si può citare la dichiarata volontà di ridurre l’incidenza della spesa sanitaria sul PIL, ovvero sulle risorse disponibili. Contro questa ipotesi di “disinvestimento” viene spesso citata l’argomentazione degli sprechi: vuoi che essi siano di natura organizzativa, vuoi che siano generati dalla medicina difensiva, o ancora da corruzione e altri comportamenti illeciti, essi rappresenterebbero, secondo una tesi, le “risorse aggiuntive” esistenti per i prossimi anni. Sprechi che, con molto coraggio, sono anche quantificati in decine di miliardi e quindi decisamente rilevanti. Si tratta, però, per lo più di esiti di comportamenti non immediatamente evidenti e, conseguentemente, di difficile determinazione quantitativa. Appare oltremodo evidente che si tratta di fenomeni che caratterizzano non solo l’Italia; in effetti, nel caso della sanità, trattandosi di un sistema estremamente complesso, è difficile, se non su un piano di astratta teoria, pensare che gli sprechi siano azzerabili: vale, allora, la pena di chiedersi se per dimensionare correttamente i risparmi possibili non sia meglio confrontare la spesa italiana con quella degli altri paesi.

In questa ottica, è però inoppugnabile che il gap fra spesa sanitaria pro capite italiana e paesi UE a 14 è negativo e continua ad allargarsi a un ritmo piuttosto impressionante: rispetto al 2003 è cresciuto dell’8,8%, arrivando così al –28,7%. Si noti che il gap in termini di PIL si è allargato del 9,7%, arrivando al –17,8% (Figura 1). In altri termini, pur non disconoscendo che ci siano sprechi di sistema eliminabili, i livelli di spesa italiana sono ormai così distanti dalle medie europee da suggerire che siano almeno discutibili le stime di risparmio proposte. Si consideri che il dato, già di per sé significativo, lo è ancora di più se disaggregato per Regioni: quelle del Centro-Nord hanno un gap verso l’UE a 14 del –22,4% (a fronte di un gap di PIL positivo), mentre in quelle meridionali il gap esplode raggiungendo il –33,1% (a fronte di un gap di PIL che supera il 40%).

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Per inciso, i dati regionali citati mettono anche in evidenza come l’assetto istituzionale del SSN italiano permetta una redistribuzione dimensionalmente molto importante, limitando così l’effetto che il ritardo economico del Sud potrebbe avere sul diritto di accesso all’assistenza sanitaria: ma le differenze, che sin dalla costituzione del SSN si volevano ridurre, rimangono talmente grandi da risultare di fatto incolmabili, evidenziando l’ennesimo fallimento delle politiche economiche del paese che si riverbera direttamente sulla sanità. A riprova di ciò, le differenze di spesa pro capite fra Regioni settentrionali (e in particolare a statuto speciale) e meridionali, anche eliminando la distorsione dovuta alla differente de- mografia, rimane davvero importante: fra la Regione che spende di più (Valle d’Aosta) e quella che spende meno (Sicilia) il differenziale di spesa è del 33,5%, pari a oltre 1000 euro (Figura 2).

Quanto precede sembra indicare che è difficilissimo trarre conclusioni solide in tema di definizione del livello efficiente di spesa sanitaria, mentre appare serenamente sostenibile che per la sanità in Italia si spende, in media, comunque davvero poco (ovviamente con riferimento ai paesi con analogo livello di sviluppo economico), sia a livello pubblico che a livello privato: conclusione a cui giunge ormai anche l’OCSE, come dimostrano le audizioni dell’organismo internazionale presso le istituzioni italiane. In aggiunta, è possibile affermare, in modo altrettanto pacifico, che le Regioni del Sud hanno livelli di spesa ancora più lontani dagli standard dell’UE a 14.

Su questo ultimo punto, va osservato che l’intervento pubblico ha ragioni prima di tutto equitative, e che la sua determinazione finanziaria ha, quindi, un contenuto essenzialmente politico, trattandosi di decidere non tanto l’ammontare globale di spesa sanitaria, ma i livelli delle prestazioni da garantire a tutti, indipendentemente dalle proprie condizioni economiche (questione, alla luce dei dati sopra esposti sui gap nei livelli

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di spesa del Sud, di eminente significato). In altri termini, sebbene la questione della sostenibilità sia certamente da porsi in relazione con le dolenti note della scarsa crescita italiana e del debito pubblico, quindi con un problema di rispetto degli equilibri macroeconomici, non si può neppure ignorare che abbiamo indicazioni che una ulteriore contrazione della willingness to pay pubblica sarebbe rischiosa in termini tanto di efficienza quanto di equità del sistema.

La questione della sostenibilità va allora inserita in un contesto più ampio, che si riassume nella domanda su quale debba essere l’impegno pubblico per incentivare stili di vita salutari e consumi sanitari appropriati e, allo stesso tempo, assicurare garanzie uniformi di assistenza sul territorio nazionale. In definitiva, parlare di sostenibilità senza aver propedeuticamente definito il livello dei servizi pubblici che è ritenuto meritorio erogare è del tutto inconcludente.

Sostenibilità: possibile un nuovo corso? Il federalismo, la cui più completa espressione si trova proprio in sanità, sebbene sembri avere sempre meno estimatori in politica, almeno in questo caso ha mantenuto le proprie promesse, responsabilizzando finanziariamente le Regioni. A riprova di ciò, i rilevanti disavanzi dei primi anni del secolo, si sono infatti via via ridotti, diventando (almeno in termini assoluti) sostanzialmente irrilevanti, e comunque concentrati in pochissime realtà regionali, essendosi anche riequilibrata la situazione fra le ripartizioni (Nord, Centro, Sud) del paese. In particolare, dopo l’inaugurazione dei Piani di rientro il deficit complessivo si è ridotto di circa il 44% (si fa riferimento alle sole Regioni con un risultato di esercizio negativo) raggiungendo i –1293,7 milioni di euro nel 2014 (Figura 3). Il superamento dell’emergenza finanziaria, rappresenta forse l’evoluzione più eclatante delle recenti politiche sanitarie, in quanto permetterebbe, almeno potenzialmente, il passaggio alla “fase due” del risanamento: in altri termini, lo spostamento dell’attenzione dal mero equilibrio di bilancio, all’adeguamento quali-quantitativo dei servizi erogati, passando per la scelta delle politiche di razionalizzazione ritenute più efficienti.

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Il passaggio a ragionamenti di più ampio respiro, anche economicamente parlando, comporta un approccio certamente più complesso, sia metodologicamente che in termini di gestione delle sue conseguenze. In primo luogo perché esiste scarsa evidenza di quale sia l’assetto istituzionale del SSN più efficiente. Si noti che, quantitativamente, gran parte dei “risparmi” fin qui realizzati nel SSN sono da attribuirsi alle azioni messe in atto nei confronti del privato, ivi comprendendo la spesa farmaceutica e gli acquisti di prestazioni da strutture convenzionate: il dato emerge chiaro anche dal confronto fra i tassi di crescita di queste voci e da quello della spesa diretta delle strutture pubbliche. Quindi, non è ovvio che le politiche di accentramento regionale (a partire dalla centralizzazione degli acquisti, ma che comprendono in generale i vincoli sempre più stretti posti all’autonomia delle singole aziende sanitarie e ospedaliere) abbiano prodotto effetti eclatanti in termini di efficienza produttiva. Inoltre, tali strategie di accentramento comportano quanto meno il rischio di divenire inefficaci a breve termine, svilendo allo stesso tempo la logica del decentramento e della creazione di una responsabilità manageriale diffusa. Sempre in termini quantitativi iniziamo, piuttosto, ad avere indizi di razionamenti nel SSN che, in prospettiva, possono diventare problematici. Ad esempio, è indubbio che, negli ultimi anni, gli investimenti in prevenzione abbiano segnato il passo. La nostra quota di spesa in tale campo regge il confronto europeo in percentuale della spesa sanitaria, ma in termini assoluti pro capite è fra le più basse in Europa. Sulla stessa linea possiamo ancora evidenziare come il consumo in Italia delle molecole farmaceutiche di più recente approvazione, pur inserite in prontuario, risulti significativamente inferiore ai livelli registrati in Europa. Tutto ciò potrebbe non rappresentare un problema se non osservassimo contemporaneamente come il vantaggio in termini di livelli di salute della popolazione, che l’Italia ha storicamente sperimentato rispetto ai paesi del Nord Europa, si stia rapidamente riducendo: è troppo presto per poter comprendere il contributo dei vari fattori a questa tendenza, ma è questione che merita certamente attento monitoraggio, se non altro perché la soluzione di continuità sembra temporalmente coincidere con la crisi finanziaria e anche con la fase di più intensa spending review nel settore. Se poi cerchiamo elementi, ormai fondamentali, per misurare la qualità dei servizi resi, malgrado rilevanti passi avanti (fra tutti citiamo il Piano nazionale esiti), gli strumenti disponibili sembrano ancora troppo poco affidabili. Ad esempio, le cosiddette “griglie LEA”, che sono al centro della valutazione “non finanziaria” dell’operato delle Regioni, pur fornendo indicazioni assolutamente significative, sembrano poco permeabili, tra le altre cose, a valutazioni dell’impatto che il razionamento della spesa dei SSR ha sul piano sociale. Basti vedere che anche una Regione promossa a pieni voti (e anche benchmark per i costi standard) quale le Marche risulta secondo l’Istat caratterizzata da una elevata quota di rinunce ai consumi sanitari per motivi economici. Da ultimo va segnalato come, a fronte di un unanime consenso sulla necessità di sviluppare l’assistenza primaria, contenendo le tendenze ospedalocentriche, continuiamo però a disporre di validi strumenti di monitoraggio e benchmarking dell’attività ospedaliera, mentre poco o nulla è conosciuto dell’assistenza erogata sul territorio, e tanto meno esistono standard di riferimento consolidati. Non appare poi un caso che un ulteriore rischio di razionamento sia certamente legato alla paucità delle risposte pubbliche verso la non autosufficienza e la long term care. Possiamo quindi dedurne che sono maturate condizioni che rendono possibile ripensare il problema della sostenibilità in termini di perseguimento di reale efficienza: ma le conoscenze a oggi disponibili sono insufficienti, come anche l’attenzione della politica e tutto sommato anche dell’accademia.

Riflessioni finali Il Sistema sanitario italiano, per quanto sulla carta universale e globale nella risposta, non sembra esente da rischi di razionamenti impliciti, ovvero barriere all’effettivo accesso a prestazioni pure riconosciute come un diritto di cittadinanza: questi fenomeni non fanno che confermare che esiste già un certo livello di sofferenza del sistema, e che questo è più accentuato in alcune aree del paese piuttosto che in altre. Paradossalmente sembra che l’aspetto economico, almeno in termini di sostenibilità, sia al momento quello più in ordine della sanità italiana. Di contro, è ancora insufficiente la risposta in termini di presa in carico e qualità dei servizi (specialmente nella espressione della responsiveness), come anche la capacità di ridurre le diseguaglianze (geografiche e non solo) in tema di salute, che poi era il principale obiettivo del legislatore degli anni Settanta, all’atto dell’instaurazione del SSN. In sintesi, il livello di spesa attuale potrebbe essere anche sostenibile nel breve periodo, ma non per questo risultare efficiente: oggi a causa di allocazioni errate delle risorse; in prospettiva, anche per una carenza di investimenti che potrebbe far distaccare non solo la spesa, ma anche i livelli di salute italiani da quelli europei.