The business of business is business

Di Alessandro De Nicola Martedì 13 Maggio 2008 20:07 Stampa

L’impresa può essere considerata come un fascio di contratti, una serie di accordi tra i soggetti che vi partecipano. E il diritto societario, nel regolare tali contratti, ha il fine di minimizzare i costi di transazione e massimizzare l’efficienza. In tale contesto, caratterizzato inoltre dalla separazione tra la gestione dell’impresa affidata ai manager e la proprietà – conseguenza della crescente specializzazione necessaria per guidare le grandi imprese – si inserisce una riflessione sulla democrazia industriale e sul concetto di responsabilità sociale di impresa.

Il concetto di impresa

Cos’è l’impresa? È un fascio di contratti il cui scopo è minimizzare i costi di transazione e massimizzare l’efficienza. Detto così sembra una formula esoterica, ma invero la frase descrive molto semplicemente la realtà, spesso negata dalle visioni tradizionali che descrivono la società per azioni come un’istituzione.

L’impresa (o la società per azioni) è un fascio di contratti: ciò significa che non siamo di fronte ad un’entità con vita propria, ma ad una serie di accordi tra i partecipanti all’impresa stessa, vale a dire i capitalisti-investitori e i gestori-amministratori che le danno vita. L’ordinamento giuridico le conferisce personalità giuridica, ossia la capacità di agire nei confronti di terzi, e la responsabilità limitata. La responsabilità limitata potrebbe essere raggiunta anche attraverso un contratto tra i partecipanti: quando scommetto 10 euro giocando al lotto non sono responsabile con tutto il mio patrimonio, ma solo di quei 10 euro. L’ordinamento non impedisce, più che concedere, la responsabilità limitata delle società per azioni, rinunciando all’imposizione obbligatoria della responsabilità illimitata dei suoi partecipanti.

Altre caratteristiche presenti in tutto il mondo sono la libera trasferibilità delle azioni (per agevolare l’efficiente allocazione degli investimenti), la gestione centralizzata delegata al management (per una conduzione efficiente e specialistica) e il diritto di proprietà degli investitori (altrimenti nessuno investirebbe).

E gli altri attori? I controllori – in Italia il collegio sindacale, il revisore e i consiglieri indipendenti o, nelle società quotate, di minoranza – garantiscono soprattutto gli investitori dalla negligenza e dalle frodi dei manager; se la società fa ricorso al mercato dei capitali di rischio, i controllori assumono anche un ruolo pubblico, vale a dire assicurare la trasparenza della società nei confronti degli inve- stitori. Come disse il grande giurista americano Louis Brandeis: «La luce del sole è il miglior disinfettante». E coloro i quali vengono in contatto con l’impresa, ossia i creditori, i lavoratori e chi subisce le conseguenze di eventuali illeciti (ad esempio, gli abitanti di un paese inquinato da una industria chimica)? I creditori sono garantiti in primis dai contratti che stipulano e dalle fideiussioni che riescono a ottenere; i lavoratori, dagli accordi individuali o collettivi che stipulano con il management e dalle regole imperative di diritto del lavoro e della sicurezza; i danneggiati, dalle regole sulla responsabilità civile e, quando è il caso, dal diritto penale. Il diritto societario non deve andare al di là dei suoi compiti di regolare il fascio di contratti di cui si è detto, al fine, per l’appunto, di minimizzare i costi di transazione e massimizzare l’efficienza (ciò che oggi chiamiamo lo shareholders’ value, oppure valore aziendale). Infatti, l’impresa nasce proprio perché agire sul mercato ha un costo che a volte conviene internalizzare.

In un mondo dove tutti i partecipanti avessero perfette informazioni e non ci fossero spese negoziali rappresentate dal costo-opportunità e da quello vivo per giungere alla conclusione di un contratto, ad esempio le parcelle di banche d’affari, avvocati, revisori e consulenti di ogni genere, il premio per assicurarsi contro un eventuale inadempimento o fallimento della controparte, il tempo necessario per concludere un contratto, ebbene in un mondo trasparente e senza spese, sarebbe sempre più economico ed efficiente approvvigionarsi di tutto quello che serve per un’attività produttiva (incluse quelle finanziarie o di servizi) sul mercato.

Viviamo invece nell’imperfezione e quindi per molti aspetti è necessario internalizzare questi costi (detti appunto di “transazione”) dando vita ad una struttura complessa come l’impresa, che ha il pregio di diventare un deposito di informazioni, favorire una certa divisione del lavoro, consentire l’accumulo di conoscenze specifiche sia del settore in cui si opera che aziendali. Inoltre, basandosi l’impresa su una struttura gerarchica, essa rende più semplice governare i comportamenti opportunistici degli individui. Mentre la mia controparte contrattuale cui sono legato da un accordo a lunga scadenza può dilazionare i pagamenti o favorire un altro cliente, il dipendente deve eseguire delle direttive. Poiché, inoltre, coloro i quali operano all’interno della struttura aziendale hanno in genere una prospettiva di mediolungo periodo, essi hanno tutto l’interesse a cooperare e ad acquisire una reputazione di affidabilità. Le virtù dell’impresa, tuttavia, non sono scevre da problemi, altrimenti il mercato finirebbe per concentrare tutte le attività economiche in un’unica azienda-mostro mondiale. Ma ciò non accade e per buone ragioni.

Il diritto societario

Ebbene, sono gli stessi costi di transazione che la struttura di impresa cerca di minimizzare che causano l’emergere del diritto societario. Infatti, in teoria gli azionisti e i manager potrebbero negoziare tutti gli aspetti del contratto sociale sia nel momento della sua nascita sia ad ogni modifica. Tuttavia, questo mo- do di operare sarebbe molto poco pratico, specialmente in quelle società che hanno un azionariato diffuso: raggiungere l’unanimità, come è necessario per ogni modifica di un contratto, sarebbe impossibile. Negoziare anche per arrivare a una decisione a maggioranza in ogni occasione sarebbe molto difficile e costoso e quasi mai fattibile.

Interviene quindi il diritto societario, il quale propone un sistema di regole predefinite al fine di evitare faticosi processi decisionali. Il sistema può funzionare a due condizioni. Primo, il diritto deve mimare il mercato: in altre parole il legislatore dovrebbe cercare di immaginare quale sarebbe stata la soluzione più efficiente che le parti avrebbero adottato potendola negoziare in assenza di costi di transazione e tramutarla in legge. Secondo: le regole così stabilite devono essere derogabili. Nessuno più delle parti coinvolte sa cos’è meglio per i loro interessi o, più correttamente, per una risoluzione efficace che ricomponga interessi che potrebbero essere anche contrapposti. Non lo può sapere un legislatore o un regolatore distante che agisce con informazioni parziali e giunte in ritardo e il cui primario intento è di essere rieletto, se è un politico, o di aumentare la propria rilevanza, se è un burocrate (in questo senso la scuola di pensiero cosiddetta di public choice insegna fin troppo bene che i fallimenti del governo sono molto più frequenti di quelli del mercato).

Perciò, qual è il ruolo del diritto societario? È quello di creare una serie di incentivi affinché le parti siano in grado di massimizzare l’efficienza delle proprie scelte, sempre che non decidano di regolare autonomamente i loro interessi. Primario obiettivo delle norme societarie sarà quindi quello di risolvere i problemi dei cosiddetti “costi di delega”, allineando il più possibile il tornaconto dei manager con quello degli azionisti e bilanciando, tra questi ultimi, gli interessi dei dominanti e dei minoritari. Se tali norme saranno, come si è detto, derogabili, gli investitori tenderanno a scegliere le società con statuti più efficienti.

Il rapporto tra gestori e proprietari

La separazione tra gestione dell’impresa affidata ai manager e proprietà è conseguenza della crescente specializzazione necessaria per guidare le grandi imprese. Quando non c’è un socio dominante, gli amministratori sono i mandatari degli azionisti, i quali affrontano dei costi di delega, quelli cioè necessari per controllare che i manager creino il massimo valore per la società.

Laddove il socio di controllo sia ben identificabile e quindi abbia più facilità a controllare gli amministratori, egli agirà da mandatario del socio di minoranza: sarà quest’ultimo a doversi proteggere da o garantirsi contro un’estrazione privata di benefici da parte dell’azionista di maggioranza. I manager possono sprecare risorse sociali per assicurarsi vantaggi privati o per accrescere il loro potere o status. Inoltre, essi possono avere orizzonti temporali diversi da quelli dei proprietari: di lungo termine gli uni (attenti al lungo termine in quanto capiazienda), di breve periodo gli altri (i risultati della trimestrale), o viceversa (se i manager stanno per andare in pensione o sono giovani ad alta mobilità e i soci sono stabili).

Diversa è l’attitudine al rischio: sono normalmente avversi al rischio gli amministratori esecutivi, in quanto il lavoro che svolgono è la loro principale fonte di sostentamento, mentre sono neutrali gli investitori che hanno un portafoglio diversificato. A volte, quando il meccanismo delle stock option è mal congegnato, può avvenire il contrario.

I meccanismi che riducono tali divergenze di interesse sono essenzialmente quattro. Il più importante è il mercato, attraverso la contendibilità del controllo delle società (quelle che vanno male hanno un prezzo basso e sono soggette a take over ostili), la remunerazione e la reputazione dei manager, il monitoraggio di altri stakeholder come banche, assicurazioni, fondi di investimento, borse valori, agenzie di rating, revisori contabili. Nessuno di questi è perfetto, ma insieme hanno una certa forza. In secondo luogo, i contratti, espliciti e impliciti (auditing interno, certificazione del bilancio, l’informativa societaria e contabile, stock option) che limitano la libertà d’azione dei manager e ne incentivano la buona performance.

Il terzo elemento è costituito dal diritto societario e dei mercati finanziari, con le regole sull’informativa ai mercati, i doveri fiduciari degli amministratori, il controllo delle operazioni in conflitto di interesse, il divieto di insider trading e market manipulation ecc.

Infine, la struttura proprietaria: una concentrazione della proprietà, come si è detto, riduce i costi di delega; se tuttavia non è accompagnata da forti protezioni delle minoranze, essa è inefficiente. Ma se le minoranze sono protette non c’è più bisogno di concentrare la proprietà (come succede nei paesi anglosassoni). Secondo un autore, anzi, la concentrazione proprietaria è una conseguenza della struttura socialdemocratica del sistema politico ed economico: un modo per difendersi da governo e sindacati.

La responsabilità sociale di impresa

In un contesto come quello descritto ha fatto ad un certo punto irruzione la responsabilità sociale di impresa, o corporate social responsibility (CSR), concetto piuttosto vago con il quale di volta in volta si intendono i comportamenti quali un atteggiamento corretto verso i propri dipendenti e le controparti negoziali, così come un’attenzione alle componenti ecologiche del proprio business, fino ad arrivare al rispetto delle comunità circostanti alle proprie sedi o all’attiva promozione di iniziative benefiche o caritatevoli.

Ancora una volta, siamo di fronte a un’intrusione inutile o dannosa. La legge già impone i limiti entro i qua- li l’impresa deve muoversi: il diritto penale è pieno di norme anticorruzione, anti-inquinamento e antisfruttamento, il diritto del lavoro stabilisce standard minimi contrattuali. Insomma, l’ordinamento già stabilisce i principi giuridici ed etici cui bisogna attenersi.

Quanto ad un atteggiamento di correttezza nei confronti di dipendenti e controparti contrattuali, tutto ciò che viene fatto al di là di quanto richiesto dalla legge può essere fatto o nell’interesse della società o in quello dei manager o degli azionisti di maggioranza.

Se delle iniziative caritatevoli o di promozione dello sviluppo umano servono per aumentare la buona percezione dell’azienda nei confronti dei consumatori, si tratta di marketing, non di responsabilità sociale di impresa. E un’azienda lungimirante saprà adottare quella social responsibility che migliori sia la sua reputazione sia l’attaccamento e la produttività dei dipendenti. Nel caso in cui si vada oltre ciò che è profittevole per l’azienda, allora ciò serve agli amministratori per “farsi belli” con i soldi degli azionisti o ai soci di maggioranza per coltivare i loro interessi privati facendosi sovvenzionare da quelli di minoranza.

Conrad Black, il multimilionario canadese recentemente incriminato ed espulso dal board della società di cui era il socio di riferimento, faceva esattamente questo, il munifico benefattore di progetti a lui cari, utilizzando i soldi della società. Vivere in un mondo senza beneficenza o attenzione ai problemi sociali? Niente affatto, saranno gli azionisti che potranno impiegare gli utili delle proprie società per i fini che preferiscono, come dimostrano i grandi impegni umanitari di Bill Gates e Warren Buffett.

Conclusioni

Date le premesse succintamente esposte in questo contributo, parlare di democrazia industriale è un modo come un altro per distrarre l’impresa e la società per azioni dal proprio fine: la massimizzazione del profitto. È solo quando riesce ad essere efficiente e a creare valore per gli azionisti, nel rispetto della legge e in particolare dell’imperativo del diritto romano naeminem laedere, che l’impresa massimizza anche il benessere sociale. Crea ricchezza, posti di lavoro, competenza e conoscenza che i meccanismi concorrenziali provvederanno a diffondere nel mercato.

Non è compito dell’impresa intraprendere azioni per le quali non ha competenze, né il legislatore deve imporre vincoli al suo modus operandi per inseguire malintesi fini sociali, che altro non sono se non gli obiettivi della classe politica momentaneamente al potere.

Come ha affermato in modo icastico, ma certamente efficace, Milton Friedman: «The business of business is business», frase che non ha bisogno di traduzione.