Laici, laicità e laicismo

Di Giuseppe De Rosa Martedì 13 Maggio 2008 19:00 Stampa

È interessante soffermarsi sull’evoluzione della parola “laico” nella storia. La “laicità dello Stato” esige che esso sia autonomo rispetto alla religione e alla Chiesa, ma non estraneo. Ha il dovere di assicurare la piena libertà religiosa e di mettere i cittadini in condizione di praticare la propria religione e di diffonderla nel rispetto delle leggi.

È curioso il destino di certe parole: nate per significare una cosa finiscono col significarne un’altra, in genere diversa, ma spesso opposta. È il caso della parola “laico” e di quelle che ad essa si riferiscono, quali “laicità” e “laicismo”. Poiché nel dibattito tra laici e cattolici si fa largo uso di questi termini, è bene chiarire in quale senso i cattolici le adoperano. Ma poiché questi termini hanno dietro di sé una lunga storia, è opportuno farvi un rapido cenno. Nell’antichità greca il termine “laici” (laikoi) indicava la massa della popolazione in quanto si distingueva da coloro che la governavano. Nei primi secoli cristiani, i laici erano i semplici fedeli, che si distinguevano da quelli che esercitavano un ministero nella comunità cristiana, come i vescovi, i presbiteri e i diaconi. Ma tale distinzione non comportava una condizione d’inferiorità. Fu nell’Alto Medioevo che avvenne un declassamento dei laici rispetto ai chierici e ai monaci. Anzitutto, un declassamento culturale: la cultura divenne monopolio dei chierici, mentre i laici furono chiamati illitterati e idiotae. Poi, un declassamento spirituale: chierici e monaci furono detti spirituales, perché si dedicavano alle realtà spirituali e alla perfezione cristiana, mentre i laici furono detti carnales, perché erano impegnati nelle realtà materiali e mondane. Questa distinzione tra chierici e monaci, da una parte, e laici, dall’altra, fu spinta tanto oltre che il monaco giurista Graziano nel suo Decretum (1140 circa) arrivò a scrivere che «ci sono due generi di cristiani» (Duo sunt genera christianorum): da una parte i chierici e i monaci; dall’altra, i laici. I primi sono coloro che guidano (sunt reges); i laici sono il popolo (populus) che dev’essere guidato dai primi. Questa distinzione dei cristiani in due generi condusse alla clericalizzazione della Chiesa e alla soggezione del potere temporale – cioè dell’Impero cristiano – al potere spirituale della Chiesa secondo la teoria delle “due spade”: una, spirituale, in mano alla Chiesa; l’altra, temporale, a servizio della Chiesa.

Le cose cambiarono nel secolo XIII, quando cominciò ad affermarsi quello che Georges de Lagarde ha chiamato «lo spirito laico».1 Infatti, con la rinascita del diritto romano nacque lo Stato moderno come «potenza pubblica», dotato di un potere (imperium) sovrano e indipendente da qualsiasi altro potere, anche – e soprattutto – dal potere religioso. Di qui il conflitto tra lo Stato (o gli Stati) e il papa; tra i Comuni e i vescovi. Conflitto motivato spesso da interessi economici contrapposti, ma la cui ragione profonda era l’affermazione dell’autorità laica degli Stati e dei Comuni. Questo conflitto si inasprì a tal punto da creare uno stato di generale ostilità contro il clero. Lo riconobbe lo stesso Bonifacio VIII nel 1296, iniziando la sua lettera contro Filippo IV il Bello con le parole «Clericis laicos infestos oppido tradit antiquitas» (È antica tradizione che i laici siano sommamente contrari ai chierici).

Iniziò così tra la Chiesa cattolica e gli Stati un conflitto che tra alterne vicende doveva durare per molti secoli e condurre alla separazione tra la Chiesa e gli Stati e alla piena laicizzazione del potere civile. Da parte clericale, Bonifacio VIII nella bolla “Unam Sanctam” (18 novembre 1302) riprende la teoria delle due spade, affermando che «l’una e l’altra sono in potere della Chiesa», ma che il potere religioso (la spada spirituale) dev’essere esercitato «dalla Chiesa», mentre il potere politico (la spada materiale) dev’essere esercitato «a favore della Chiesa». Da parte laica, non ci si accontenta di rivendicare i propri diritti nella Chiesa, ma si pretende che i poteri laici debbano controllare tutta la vita della Chiesa, tanto che Jean de Paris afferma che «se il Papa fosse colpevole di crimini e scandalizzasse la Chiesa e fosse incorreggibile, il principe (a quel tempo era Filippo IV il Bello) potrebbe scomunicarlo indirettamente (indirecte) e deporlo».2 Fu però Marsilio da Padova che nel 1324 pose le basi dello Stato laico moderno, affermando che allo Stato spetta la pienezza dell’autorità non solo nel «temporale», ma anche nello «spirituale». Infatti – egli affermava – la maggior parte dei poteri che ora la Chiesa si attribuisce, essa li ha usurpati allo Stato, il quale soltanto ha potere universale, quindi anche sulla Chiesa, che non è una istituzione divina, ma semplicemente una società umana e, in quanto tale, deve essere sottomessa all’autorità statale: «Ecclesia seu Christi fideles omnes subesse debent principibus saeculi» (La Chiesa e cioè tutti cristiani devono essere soggetti ai prìncipi secolari).3

In tal modo nei secoli XIII e XIV ebbe inizio un processo di laicizzazione e di secolarizzazione del pensiero e della vita, che si andò approfondendo nei secoli seguenti: processo consistente dapprima nel progressivo distacco delle realtà mondane dalla religione cristiana, dalle sue dottrine e dai suoi riti, e poi nel sottrarsi al suo influsso e alla sua tutela tanto sul pensiero quanto sulla vita e sui comportamenti; consistente inoltre nell’affermazione dell’autonomia e della indipendenza delle realtà umane, prima dalla Chiesa, dalla sua autorità, dalle sue norme religiose e dalle sue leggi morali, e poi da Dio stesso; consistente, infine, nell’esclusione della religione cristiana da tutti gli ambiti della vita umana, personale e sociale, e quindi nella negazione di Dio e nella lotta alla Chiesa, a cui si nega ogni presenza pubblica per confinarla nell’ambito privato delle coscienze.

La laicizzazione-secolarizzazione è dunque un fenomeno di lunghissima durata ed estremamente complesso; poiché si estende a tutti gli ambiti della vita e della cultura, attraverso percorsi, spesso sotterranei, intricati e oscuri. Si può dire, semplificando molto le cose, che nell’Umanesimo e nel Rinascimento si ebbe una forte laicizzazione della cultura, che assunse forme pagane. Con Copernico e Galileo si affermò l’autonomia della scienza, perché per conoscere il mondo fisico – che è scritto in caratteri matematici – basta ricorrere ai principi che sono intrinseci alla natura: in tal modo, nell’interpretazione del mondo fisico, la matematica sostituisce la teologia e la metafisica. La laicizzazione del diritto, che tende a proclamarsi autonomo non solo dalla religione, ma anche dalla morale cristiana, iniziò con Accursio (1184- 1260), il quale affermava che il giurista non ha bisogno di sapere di teologia, perché «tutto è contenuto nel diritto» (Omnia in corpore iuris inveniuntur);4 ma è pienamente formulata nel secolo XVII da Huig van Groot (Grozio), il quale afferma che il diritto naturale sarebbe valido «anche se ammettessimo che Dio non esiste» (etiamsi daremus non esse Deum).5 Con Niccolò Machiavelli la politica si rende autonoma dalla legge morale, perché per l’uomo politico quello che conta è il successo, quale che sia il mezzo – la forza, la frode o l’inganno – col quale lo si consegue. Thomas Hobbes, Baruch de Spinoza e Jean-Jacques Rousseau fanno dello Stato il «dio terreno», la fonte e il depositario di tutti i diritti dell’uomo.

Il processo di laicizzazione raggiunge il suo vertice nell’Illuminismo settecentesco e nella rivoluzione francese con la riduzione del cristianesimo a un ammasso irrazionale di miti e di leggende e con la proclamazione del razionalismo più esasperato. Nell’Ottocento tale processo sfocia nell’immanentismo assoluto, cioè nella negazione di Dio come essere trascendente, e di ogni rapporto della realtà umana con Dio e con la religione, la quale diviene «affare privato»: l’uomo, in quanto essere «razionale » e «storico» prende il posto di Dio e diviene la «misura» di ogni realtà e la «norma» della vita morale. Come scrive Karl Marx, «l’uomo diviene per l’uomo l’essere supremo». Così, con Ludwig Feuerbach, la teologia diventa antropologia; con Auguste Comte il positivismo materialista diviene la «religione dell’Umanità»; lo scientismo agnostico prende il posto della metafisica, e Friedrich Nietzsche proclama la «morte di Dio». In tal modo il processo di laicizzazione culmina nell’irreligione, in pratica, nella lotta alla Chiesa e al cristianesimo, del quale Nietzsche scrive: «Definisco il cristianesimo l’unica grande maledizione, l’unica grande e più intima depravazione, l’unica e immortale macchia d’infamia dell’umanità».6

Il paese in cui la laicizzazione ha assunto un carattere violentemente antireligioso e anticristiano è stata la Francia, particolarmente in due periodi della sua storia. Dopo che Voltaire aveva esortato i francesi a «Ecraser l’infâme» (l’infâme è il cristianesimo), la Rivoluzione francese, prima con la “Costituzione civile del clero” e con la conseguente feroce persecuzione contro il clero «refrattario»; poi con l’abolizione del calendario cristiano e quindi della domenica e delle feste religiose; infine con i culti della Dea Ragione e dell’Essere Supremo, compì un’opera di scristianizzazione radicale: la prima nella storia cristiana. Quest’opera fu ripresa e portata avanti con ostinazione negli anni della III Repubblica (1879- 1905), quando i laici – così cominciarono a chiamarsi – ottennero la maggioranza in Parlamento e governarono la Francia col proposito di fare di essa una repubblica laica, cioè irreligiosa e anticristiana. A tale scopo si servirono di due mezzi: la creazione, ad opera di Jules Ferry, della scuola laica (1882-86) e la separazione tra Chiesa e Stato (1904-05), a opera di Émile Combes e di Pierre Waldeck-Rousseau, per i quali la «separazione» era «il termine naturale e logico da compiere verso una società laica sbarazzata da ogni predominio clericale» e, quindi, «la completa secolarizzazione dello Stato e la fine del potere della Chiesa». L’esempio della Francia fu seguito dalla Spagna, dal Portogallo, da molti Stati dell’America Latina, in particolare dal Messico nella prima metà del Novecento. Anche l’Italia nella seconda metà dell’Ottocento subì un profondo processo di laicizzazione, in particolare nella scuola, a opera dei governi liberali, sostenuti dalla massoneria, che nel Parlamento italiano aveva un grandissimo numero di affiliati, soprattutto al tempo dei Gran Maestri Adriano Lemmi ed Ernesto Nathan. Attualmente è assai forte in Italia e in Europa una corrente di pensiero che si qualifica come laica e che, pur essendo assai varia, conviene su alcuni punti, sia ideologici, sia di comportamento. Di tali punti il primo è il razionalismo assoluto. Secondo i laici, che in questo sono eredi dell’Illuminismo, l’unica fonte e l’unico metro della verità è la ragione umana: il laico — essi affermano — è l’uomo di ragione, il credente è l’uomo di fede». I laici, cioè, rigettano ogni rivelazione e quindi ogni verità che pretenda di fondarsi su una rivelazione religiosa e di trarre da essa la sua validità. In particolare, i laici rigettano la religione cristiana, in quanto religione fondata su una rivelazione e formulata in dogmi che – a loro parere – contraddicono la ragione umana e per tale motivo esigono un’adesione di fede. Per i laici il cristianesimo è un insieme di miti e di superstizioni che sono in evidente contraddizione con la ragione umana e che, proprio per il rispetto che si deve avere per la ragione, devono essere rigettati.

Il secondo principio base del pensiero laico è il radicale immanentismo: nulla esiste che trascenda l’uomo, questo mondo e questa storia, quale l’uomo l’ha fatta con le sue realtà grandi e belle e con le sue mostruosità. Non esiste un Essere – comunque lo si voglia chiamare: Dio, l’Assoluto – che abbia creato l’uomo e il mondo e diriga la storia umana, la quale non ha nessun fine trascendentale.

Non esiste una legge morale, che abbia la sua origine e la sua obbligatorietà in un legislatore supremo. Ciò non significa che non ci siano leggi e valori morali, che l’uomo è obbligato ad osservare; ma sono leggi umane e valori umani, che hanno origine dall’uomo. Ma poiché l’uomo è un essere storico che vive nel tempo, le leggi morali e i valori umani non sono realtà assolute, sempre valide, ma evolvono con l’uomo, con la comprensione sempre nuova che egli ha di se stesso e del mondo, con le invenzioni e scoperte scientifiche che egli compie e che gli aprono possibilità sempre nuove, con le esigenze e i bisogni sempre nuovi che egli deve soddisfare. Esiste perciò un’etica laica, razionale e impegnativa, ma è un’etica semplicemente umana, espressione dell’autonomia dell’uomo; è un’etica sempre esposta al dubbio e al cambiamento, e dunque mai assoluta, valevole per ogni tempo, ma relativa alle esigenze umane che cambiano col tempo e di cui soltanto l’uomo è giudice e arbitro. Rispetto alla religione, i laici hanno atteggiamenti diversi: alcuni si dichiarano atei, altri agnostici, altri fortemente anticlericali, altri rispettosi dei credenti e della fede che professano. Tutti, però, affermano l’autonomia assoluta dell’uomo e della società umana da Dio, dalla fede e dalla morale cristiana. Tutti ritengono che la religione sia, e debba restare, un fatto privato, e non debba avere – e tanto meno rivendicare – alcun influsso sulla vita pubblica. Perciò, i laici rigettano con forza ogni ingerenza della Chiesa – e quindi della fede e della morale cristiana – nella vita dello Stato, in particolare nella formazione delle leggi. I cristiani possono evidentemente partecipare, in quanto cittadini, alla vita dello Stato; ma nella loro attività pubblica devono comportarsi etsi Deu non daretur (come se Dio non esistesse), cioè non devono pretendere di far valere e prevalere i loro principi religiosi e morali. In pratica, i laici sono contrari a ogni forma di Concordato tra lo Stato e la Chiesa, perché con il Concordato si concedono indebiti privilegi alla Chiesa, la quale, per essi, è una semplice associazione di cittadini a cui vanno applicate le norme che regolano le associazioni di diritto privato; soprattutto, con il Concordato, si dà alle autorità ec- clesiastiche la possibilità di ingerirsi negli affari pubblici e di ledere in tal modo l’autonomia dello Stato. I laici ritengono poi che soltanto la scuola pubblica, in quanto istituzione dello Stato al pari della magistratura e della polizia, debba essere sostenuta col pubblico denaro, perché soltanto essa è pluralistica e non pretende di imporre valori unici e verità rivelate, come fanno le scuole cattoliche, che sono – e devono restare – private, e non devono essere finanziate dallo Stato, né direttamente né tanto meno indirettamente. Infine i laici condannano l’integralismo e il fondamentalismo che sarebbe proprio del cattolicesimo, ed esigono che ogni cittadino sia libero di fare le scelte culturali e morali che egli preferisce nel campo della famiglia, della sessualità e della vita, senza che nessuno possa impedirglielo in base ai principi religiosi o a norme morali fondate sulla religione: ciò sarebbe integralismo fondamentalista, che per sua natura è nemico della libertà ed è fonte di intolleranza, di autoritarismo e di sopraffazione.

A questo punto ci si chiede: questo modo di pensare e comportarsi può essere definito laicità oppure si deve parlare di laicismo, cioè di un’ideologia irreligiosa e anticristiana, che spesso – ma non sempre – assume toni aggressivi e virulenti? Chi scrive ritiene che la laicità sia cosa ben diversa dal laicismo, fondato essenzialmente su una concezione areligiosa o antireligiosa della vita e della storia umana, in forza della quale la religione – in pratica, il cristianesimo e la sua traduzione storica e istituzionale, la Chiesa – è vista come il male e la rovina dell’uomo e la fonte e la causa dell’infelicità umana, in quanto tende a privarlo della libertà di scelta delle proprie condizioni di vita. La laicità si colloca tra l’integralismo, che facilmente scade – come spesso è, purtroppo, avvenuto nel passato, ai tempi dell’«unione del trono e dell’altare» – nel clericalismo e nel confessionalismo, e il laicismo, che finisce col divenire anticlericalismo e, più propriamente, anticristianesimo. Che significa, dunque, per noi Stato «laico» e «laicità dello Stato»? Lo Stato, in quanto realtà temporale e storica, è laico per sua natura, vale a dire è autonomo rispetto alla religione e alla fede – e quindi rispetto alla Chiesa – per quanto riguarda la sua costituzione, la sua forma, il suo regime, le sue leggi, il suo fine, i suoi strumenti operativi. L’ordine nel quale esso si muove è quello della razionalità e della sto- ricità: sono cioè la ragione e le condizioni storiche le fonti da cui deriva le proprie decisioni e i propri comportamenti. Il suo fine è il bene comune della comunità politica, non la salvezza eterna dei suoi cittadini. Questo significa che lo Stato non può avere una propria religione e, quindi, non può essere confessionale; d’altra parte, non può avere una propria legge morale, da imporre a tutti i cittadini, prescindendo dall’ordine morale razionale e naturale. Così, non può, ad esempio, legalizzare l’aborto e l’eutanasia, non per motivi di ordine religioso o confessionale, ma per motivi di ordine morale razionale, per il fatto cioè che tali leggi contraddicono il bene dell’essere umano e, quindi, sono contrarie al fine dello Stato.

In secondo luogo, la laicità, come insegna il Concilio Vaticano II nella costituzione Gaudium et spes (n. 75), comporta l’autonomia dello Stato dalla religione e la sua indipendenza dalla Chiesa, ma non comporta – come oggi chiedono molti laici – né l’agnosticismo, vale a dire l’indifferenza e l’estraneità dello Stato verso la religione, né il separatismo “alla francese”, cioè la reciproca ignoranza e l’esclusione di ogni rapporto tra lo Stato e la Chiesa e la riduzione di questa a ente di diritto privato. In realtà, in forza della sua laicità, lo Stato è incompetente per quanto riguarda la verità o la falsità di una religione e la bontà del culto che essa pratica. Quindi non può pronunciarsi sulla verità di una religione né immischiarsi nei suoi atti di culto (salvo nel caso che siano contro le leggi e l’ordine pubblico). Ma poiché per un certo numero di cittadini – molti o pochi che siano – la religione è un fattore essenziale della propria vita, lo Stato deve interessarsene, mettendoli in condizione di poter vivere e praticare la propria religione e di poterla diffondere con la predicazione, anzitutto assicurando loro la piena libertà religiosa, pur nel rispetto dell’uguaglianza di trattamento di tutti i cittadini. Del resto, è quanto lo Stato italiano ha fatto prima con il Concordato del 1929, e con la sua revisione del 1984, e poi con le recenti Intese con gli ebrei, i valdesi, le Assemblee di Dio, i buddisti e i Testimoni di Geova.

In conclusione la laicità dello Stato comporta tre cose: la distinzione tra la Chiesa e lo Stato; la loro reciproca autonomia; la loro collaborazione per ciò che riguarda il bene sia delle persone, sia della comunità. Ciò esige un delicato equilibrio, perché sono sempre possibili sconfinamenti, sia dello Stato nei confronti della Chiesa, sia di questa nei confronti dello Stato, come si è visto precedentemente, percorrendo la storia tormentata dei rapporti tra Stato e Chiesa. Tuttavia è possibile mantenere e promuovere tale equilibrio, se tra credenti e laici si stabilisce un clima di mutua fiducia e – perché no? – di reciproca simpatia, fondato sul rispetto e sul dialogo.

 

[1] Cfr. G. de Lagarde, La naissance de l’esprit laïque au déclin du Moyen Age, Nauwelaerts, Lovanio-Parigi, 1956.[

[2] Jean de Paris (de Jandun), De potestate regia et papali, in J. Leclerq, Jean de Paris e l’Ecclésiologie du XIII siècle, Parigi 1942, p. 214.

[3]Marsilio da Padova, Defensor pacis, vol. II, cap. V.

[4] Accursius, Ad. 1, 10; De iustitia et iure, 1. Cfr. F. C. de’ Savigny, Storia del diritto romano, Torino 1856-7, pp. 569-78

[5] Huig van Groot (Grozio), De iure belli et pacis, Proleg. § 11, Parisiis 1625. Si noti che Grozio rigetta come «delitto» l’espressione «etiamsi daremus non esse Deum», essendo egli un cristiano.

[6] F. Nietzsche, L’Anticristo, n. 62.