Per una comune costituente antropologica

Di Emma Fattorini Martedì 13 Maggio 2008 18:53 Stampa

Una comune costituente antropologica: ecco la sfida che hanno di fronte i laici e i cattolici. Le nuove frontiere della scienza pongono interrogativi comuni che solo una ideologica radicalizzazione impedisce di vedere. Questo pone in termini diversi il concetto di laicità.

Secondo l’attuale, regressivo “bipolarismo etico” molti laici vorrebbero una religione relegata al solo foro interiore, mentre, all’opposto, soprattutto per i sempre più numerosi neofiti, il cattolicesimo dovrebbe candidarsi a religione civile, o almeno a principale supporto etico per le nostre società occidentali sempre più deficitarie di contenuti etici. Nessuno sostiene però che la modernità abbia reso la religione una “ideologia” residuale, destinata a scomparire o a interessare solo ceti socialmente marginali e culturalmente arretrati, essendo ormai evidente come essa sia una componente non solo ineliminabile, ma addirittura fondativa della modernità.

A partire da questa constatazione, la cultura laica si divide su come la religione possa anch’essa contribuire al processo di modernizzazione e in quale direzione debba farlo, non solo in funzione ancillare e del tutto subordinata. Si riflette quindi sul fatto che non debba “semplicemente” essere arginata, contenuta nel privato o al massimo tollerata in una pacifica sommatoria delle varie ideologie in campo. Il piano della tolleranza, del rispettoso riconoscimento reciproco è una condizione necessaria. E volesse il cielo (è il caso di dire) che un incontro su principi di base condivisi si riuscisse a realizzare nelle nostre società e specialmente in Italia.

Esiste ormai una vastissima letteratura che ci spiega come e attraverso quali rinunce e passaggi ciò si potrebbe ottenere. Si pensi all’ultimo intervento di Habermas nell’incontro promosso a Roma nell’inverno del 2007 dai filosofi della politica: «Tutte le parti, indipendentemente dal loro background culturale, devono prendere in esame le questioni controverse simultaneamente dalla propria prospettiva e da quella dei vari partecipanti. Soprattutto le parti devono apprendere a limitarsi ad argomenti che siano in grado di convincere chiunque, indipendentemente dalle sue propensioni metafisiche e affiliazioni religiose. A prescindere dal contenuto di un accordo finale, tali processi avrebbero come esito il dar luogo a un livello ideologicamente neutralizzato, e in questo caso, laico di reciproca comprensione. Visto in questa luce, il dibattito sulla secolarizzazione assume una direzione nuova».

Si tratterebbe, allora, secondo il modello rawlsiano del “consenso per intersezione”, di trovare i principi fondamentali della costruzione di un ordine politico giusto a partire ciascuno dalla propria concezione del mondo. In altre parole, i credenti trarrebbero “le premesse” dalla loro visione per giungere ad un ordine di principi condivisi.1 Ma qui è possibile effettuare un passo ulteriore, probabilmente solo teorico, dato che la durezza dei tempi non inclina alla tolleranza ma allo scontro, e già una convivenza rispettosa e pacifica apparirebbe davvero come una grande conquista. Vivendo la speranza come la più importante virtù cardinale di questi tempi si può allora tentare un passo oltre la mera tolleranza e interrogare i filosofi laici su questo punto: ci sono e quali sono i contenuti positivi, arricchenti, che non siano solo regressivi o contrappositivi, che il cristianesimo può portare alla modernità? I laici, innanzitutto, dovrebbero esprimersi sul possibile “uso pubblico buono” della religione, a prescindere dai rispettivi schieramenti politici, in modo che il credente non debba essere considerato comunque un “minorato” rispetto alla sua piena appartenenza all’ordine secolare e moderno.

Habermas sostiene inoltre: «Quando la componente secolare esclude i concittadini religiosi dal novero dei contemporanei e li tratta come esemplari da proteggere come specie in via di estinzione, ciò corrode la sostanza stessa di una eguale appartenenza all’universo delle persone razionali».

In secondo luogo, occorrerebbe riconoscere che gli inediti interrogativi posti dal dominio della scienza nel definire i confini della vita e della morte rendono necessaria una rinnovata e visibile presenza pubblica del credente. Quello delle tematiche antropologiche è il terreno di una nuova testi monianza pubblica della fede. Una sorta di chiamata alle armi, insomma, che va accolta ma che va affrontata nei termini opposti a quelli di un ripiegamento oscurantista che vorrebbe rieditare una nostalgica idea di cristianità piuttosto che costruire una comune riflessione con i laici. La maggior parte dei nuovi interrogativi legati alla bioetica pone problematiche comuni, legate all’umano, che solo l’accecamento di un’ideologica radicalizzazione del conflitto scienza-fede impedisce di vedere. Pensiamo solo ai terreni comuni che si devono trovare per fronteggiare le conseguenze di un’alleanza incontrollata della scienza con il mercato. Un impegno comune che si potrebbe definire una costituente antropologica.

I cattolici e la laicità

Già per i fondatori del cattolicesimo politico otto-novecentesco (non occorre dunque aspettare il Concilio Vaticano II) la laicità è una conquista e non solo un compromesso subito.

Laicità non solo in quanto distinzione del piano religioso da quello politico, secondo la insuperata definizione di Jacques Maritain, ma più complessivamente come testimonianza di un nuovo modo di stare al mondo rispetto allo “schema intransigente” con cui la cattolicità aveva reagito allo shock della Rivoluzione francese, riproponendo un nostalgico “modello di cristianità”. In quella loro nuova esperienza, ancorché costretti, i cattolici cominciarono ad accettare di non essere più “diversi” dal resto dell’umanità. E tentano di superare così le due modalità storicamente conosciute fino a quel momento, quella che li vedeva “parte egemonica” come nel Medioevo e quella, specularmente opposta, che li ghettizzava in una minoranza in seguito alla secolarizzazione. Essi cominciano, piuttosto, a considerare il loro agire nella storia, alla pari di tutti gli uomini, come la più autentica testimonianza evangelica che possano dare. Dopo il Kulturkampf bismarckiano e la questione romana italiana, è la politica l’occasione più propizia anche per testimoniare il Vangelo e non solo per salvaguardare i propri interessi di parte. Ad esempio, attraverso programmi politici (si pensi al Zentrum in Germania e al Partito popolare in Italia) del tutto laici e aconfessionali, ispirati a un’idea di “servizio”, “come se Dio non ci fosse”. Il fatto che in seguito questo servizio sia scaduto in pura acquisizione di potere è poi un’altra questione.

Negli ultimi anni tale modello sembrava essersi del tutto esaurito per tornare allo schema precedente che ne è l’esatto opposto: la richiesta di garanzie e di tutela della propria parte, la difesa “corporativa” degli interessi cattolici, siano essi materiali o spirituali.

Questa, dunque, l’evoluzione del concetto di laicità per i cattolici: dalla progressiva conquista dello stare nel mondo, come tutti gli uomini, al ritorno a volere rimarcare una diversità.

Nello stesso linguaggio ecclesiastico il termine “laicità” fu usato in senso negativo sempre come sinonimo di laicismo (come nell’enciclica “Maximam gravissimamque” di Pio XI del gennaio del 1924), espressione di una concezione che voleva cancellare la Chiesa e la religione da qualsiasi spazio pubblico. Le cose cominciarono a cambiare dopo il crollo dei totalitarismi. Di fronte alle macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale la Chiesa sentì il bisogno di incontrarsi con le forze liberali e democratiche. Nel marzo del 1958 Pio XII, richiamandosi al versetto di Matteo parlerà di «legittima sana laicità dello Stato» come «di uno dei principi della dottrina cattolica».

Ma la vera svolta, anche in questo caso, avviene con il Concilio Vaticano II, che con la “Dignitatis humanae” – nella quale di fatto si affermava la legittimità della «libertà di coscienza», negata strenuamente fino ad allora – spezzava il nesso libertàverità che limitava la prima al rispetto della seconda. Si supera il modello della Christianitas riconoscendo il valore della laicità dello Stato non più come male minore, ma come scelta ottimale anche per il cristiano.2 È l’incontro pieno dei cattolici con la democrazia, non più un’opzione tra le tante possibili (e la meno simpatica, almeno fino a Pio XI), ma quella a cui i cattolici devono concorrere insieme a tutti gli altri cittadini, senza superiorità ma anche senza inferiorità.

La laicità diventa allora una sorta di valore in sé, non un aggettivo funzionale a qualcosa: non si tratta infatti solo e tanto di adottare un comportamento laico, operare una decisione laica, scegliere un programma laico, quanto piuttosto di una vera e propria postura spirituale del cristiano verso la storia degli uomini, la loro convivenza civile e, dunque, la politica come governo di essa. La laicità come atteggiamento dello spirito e valore in sé e per sé per il cristiano si è identificata storicamente e teologicamente nelle nazioni europee con l’impegno politico. La politica è diventata allora un dovere prima ancora che una passione o una scelta. Un’accezione alta di politica, che aveva un preciso senso del suo limite, direttamente proporzionale alla sua capacità di sapere interpretare la vita delle persone. Senza pretese messianiche o salvifiche, si basava sulla convinzione profonda della continua compresenza di bene e di male. Ma senza rassegnazioni ciniche o relativiste.

 

[1] J. Rawls, Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p. 30.

[2] G. Miccoli, In difesa della fede, Rizzoli, Milano 2007.