Papato e Italia: una breve riflessione storica

Di Antonio Menniti Ippolito Martedì 13 Maggio 2008 18:50 Stampa

Il rapporto tra la Chiesa e l’Italia ha una storia e una valenza particolari, che lo rendono unico rispetto alle relazioni con gli altri paesi cattolici. Mettendo a confronto tre testimonianze risalenti ad epoche diverse, tale particolarità risulta evidente e fornisce una valida chiave di lettura per valutare lo stato attuale di questa complessa relazione.

La vicenda del rapporto tra la Chiesa e l’Italia è speciale, ed è tale perché detta relazione è antica, si è nutrita nel corso di una storia plurisecolare di motivazioni e istanze assai varie e l’una realtà ha contribuito fortemente all’altra: e questo si dice senza attribuirvi connotazioni qualitative, né positive, né di segno opposto.

La precisazione metodologica non deve far pensare che si intenda però qui rimanere nel generico, o, peggio, avvilupparsi nello “storichese”. Tutt’altro. La speciale dilezione che oggi il papato dimostra verso il nostro paese appare un fardello e per nulla un privilegio, e soprattutto appaiono del tutto inopportuni gli strumenti con cui le gerarchie ecclesiastiche questa dilezione disvelano. Tale giudizio riguarda tuttavia l’oggi, appunto, e non può essere applicato al tempo in cui il rapporto venne a formarsi e ad assumere le caratteristiche che l’hanno contraddistinto. Il passato va, come è noto, studiato per quel che è stato, senza giudizi, senza sovrapporvi le categorie del presente, che impongono invece prese di posizione: conoscere e analizzare l’antico può far comprendere perché il nostro paese continui ad essere immerso in questo passato e non riesca a rinnovarsi. Per arrivare a comprendere cosa sia dietro la speciale dilezione della Chiesa verso la penisola italiana bisogna tornare indietro di almeno sei secoli. La sede e lo spazio a disposizione impongono di operare una sintesi e procedere per esempi. Se ne presentano qui tre diversi: tre testimonianze di altrettanti illustri ecclesiastici, che sembrano poter ben spiegare quale fu l’importanza che l’Italia ebbe per la storia del papato. Il primo esempio riguarda il conclave che elesse papa Pio II, l’umanista Enea Silvio Piccolomini. È lui stesso a riferire (nei “Commentarii”) di quel che fece, nel 1458, dopo la morte del “forestiero” Callisto III Borgia, quando la propria candidatura a papa parve minacciata da quella di un francese, il cardinale di Rouen. Piccolomini puntò tutto sulla propria italianità e così si espresse col cardinale Giovanni Castiglioni – che si era dichiarato per il rivale – dopo avergli ricordato come egli discendesse dal cardinale di Piacenza Branda Castiglioni, che s’era adoperato per riportare il papato in Italia dopo il Grande scisma: «Fu merito della sua abilità, del suo zelo, della sua intelligenza se, quando furono allontanati dal pontificato gli altri contendenti, venne eletto il romano Martino V, della famiglia Colonna. Branda riportò la Curia apostolica (…) in Italia. Tu, suo nipote, dall’Italia la trasferisci in Francia. Tu, italiano, favorisci la Francia piuttosto che l’Italia. Ma il cardinale di Rouen, prediligendo la sua nazione invece dell’Italia, da buon francese, se ne andrà in Francia con la dignità suprema (…). E che è la nostra Italia senza il presule romano? Abbiamo perso l’impero, ci resta la Sede apostolica, e con questo solo lume rimasto vediamo la luce. E invece ora lo perderemo, con il tuo appoggio, con il tuo consiglio, con il tuo aiuto? O il papa francese se ne andrà in Francia, e la nostra dolce patria sarà orbata del suo splendore; o resterà fra noi, e l’Italia, regina delle genti, servirà un padrone straniero e noi saremo schiavi della gente francese. Il regno di Sicilia finirà in mano francesi; e i francesi si impadroniranno di tutte le città, di tutte le rocche della Chiesa (…), vedrai il Sacro collegio riempirsi di francesi; nessuno più strapperà loro il papato (…), verrà imposto alla tua nazione un giogo perpetuo». Un papa straniero poteva recare pregiudizio alla libertà della Chiesa e dell’intera Italia, peraltro allora pacificata dagli accordi raggiunti a Lodi tra i potentati italiani: il rischio di un «giogo perpetuo» era pressante e sarebbe stato ancor maggiore se il papa fosse stato suddito di una potenza dominante. Un papa italiano, dunque, garantiva la Chiesa e la penisola tutta: ma c’è di più, un uomo espressione di una realtà culturale e politica rilevante ma dominata dalla frammentazione poteva anche costituire un elemento di garanzia nei confronti delle grandi e piccole potenze. Si veda quanto ancora Piccolomini disse al nipote del papa defunto, il car- dinale Rodrigo Borgia (il futuro Alessandro VI), che s’era espresso anch’egli per il francese: «O giovane sciocco! Dunque porrai sul trono papale un nemico della tua nazione? (…) Lui francese sarà più amico di un francese o di un catalano? Si prenderà più cura di uno straniero o di un compatriota? (…) E se non hai a cuore la Chiesa romana, se non fai conto della religione cristiana, se mostri di disprezzare Dio, preparandogli un tale vicario, almeno abbi cura del tuo interesse e pensa che, se un francese terrà il papato, tu sarai l’ultimo dei cardinali». Questi rischi da un italiano non sarebbero mai potuti venire. L’italianità del papato, e della Curia, si impose poi definitivamente agli inizi del Cinquecento. Il collegio dei cardinali, serbatoio dei papi, si italianizzò sempre più, e dopo l’elezione di Adriano VI (1522-23) e fino a quella di Giovanni Paolo II nel 1978, tutti i pontefici furono italiani.

Cambiamo tempo e per ampliare e comprendere meglio quel che qui s’è accennato utilizziamo la testimonianza di un cardinale assai potente nella Curia del secondo Seicento, Decio Azzolini. Costui, interpellato da papa Innocenzo XI che voleva abolire il nepotismo (tentativo che fu drasticamente annullato per le resistenze incontrate si può dire a ogni livello della Curia), espresse, col parere negativo sull’iniziativa papale, una concezione assai pessimista dell’ambiente curiale. Per lui la famiglia del papa andava foraggiata con generosità per evitare che i membri del clan regnante si volgessero «a bere dell’acqua più torbida per disetarsi [giungendo così] col vendere a Principi et a Privati le cariche, gl’onori, gl’indulti e tutto ciò che per utilità d’altri può derivare dall’autorità del Pontefice», ma anche perché nella stessa tentazione potevano cadere i papi, che avrebbero potuto accettare compromessi con altri potentati per impinguare i consanguinei. Si sarebbe allora rischiato di «finire di sterminare lo Stato ecclesiastico perché per havere cento per la sua casa dovrà il Pontefice ad un Prencipe mille e diece milla dove hora per dar cento per sé non ha bisogno che levar cento alla Camera». La Sede apostolica avrebbe potuto all’improvviso prendere a interessarsi «in Guerre e Leghe con Principi per acquistar da loro ricompense di danari, d’entrate, de’ feudi e Stati». Si trattava di un rischio da non correre, ammoniva Azzolini: una sola occasione in cui questo si fosse verificato avrebbe potuto far più danni «che tutto lo sconcerto pre- sente». L’elezione di un papa ultramontano avrebbe insomma ridotto la Chiesa ad uno Stato servile «e subordinato ad un re».

Anche nel tardo Seicento, insomma, un papa non proveniente dalla penisola era visto come un rischio gravissimo per l’indipendenza e la libertà della Chiesa. In estrema sintesi, il papato doveva rimanere in mano italiana e l’Italia doveva mantenere le caratteristiche che le consentissero da un lato di costituire da efficace cintura di sicurezza per la Santa sede e dall’altro di continuare a essere l’ideale serbatoio di candidati al papato: le realtà politiche italiane dovevano restare quel che erano, numerose e deboli. Nessun suddito di Stati italiani avrebbe potuto costituire una minaccia per i maggiori poteri europei che si combattevano anche nella sede di conclavi, condizionati dai loro maneggi e veti. Se ne avvantaggiava la Chiesa, deperiva di conseguenza l’Italia, che lo stesso Machiavelli vedeva disgregata e debole per i prevalenti interessi della Santa sede. Certo, in virtù della situazione, l’Italia non corse nell’età moderna grandi rischi quali guerre o invasioni.

Ma la questione è più ampia e complessa di quel che fin qui è apparso. E la chiave per leggere il tutto in modo più completo la diede un grande curiale, anch’egli attivo nella seconda metà del Seicento, il giurista Giovan Battista de Luca, laddove si interrogò sui motivi per cui solo nel caso dei vescovi designati dai pontefici si ricorresse a un esame dei candidati che si svolgeva di fronte al papa e che verteva essenzialmente su materie teologiche. Si è detto solo i vescovi nominati dai papi, ovvero quelli delle diocesi italiane (neppure tutte), di alcune diocesi di Dalmazia e dell’arcipelago Egeo (sottoposte al dominio veneto) e in altre poche di collazione papale. Perché per i vescovi proposti da re, principi, eletti da capitoli di cattedrali o per quelli indicati dalla Congregazione di propaganda fide non si faceva nulla di tutto questo? Perché, in altre parole, i vescovi delle diocesi di Germania, Francia, Spagna, Polonia, Ungheria, India ecc. non venivano esaminati da nessuno? C’era una evidente disparità di trattamento che poneva in condizioni di inferiorità i vescovi italiani, considerati non già da subito idonei come gli altri, e lo stesso papa che, paradossalmente, per procedere alle nomine per questi benefici era costretto a procedure più complesse di quelle che riguardavano i poteri laici. L’interesse della Sede apostolica nei confronti della penisola si spiega insomma anche col fatto che esclusivamente su di essa la giurisdizione papale era piena. Il primo vescovo americano sulla cui designazione il papato influì fu quello della diocesi di Quebec alla fine del Seicento; altrove, con la garanzia di concordati, si esprimevano cesaropapismi che andarono a farsi sempre più accentuati, fino alla serie di svolte nelle relazioni con i singoli Stati, che attribuirono ai pontefici, nel XIX e agli inizi del XX secolo, quel pieno controllo sulle Chiese locali che è, in sostanza, un fatto recente. Per la giurisdizione papale, la frammentazione politica della cristianità europea legata alla creazione delle monarchie continentali agli inizi dell’età moderna ebbe molte più conseguenze della frammentazione dell’unità religiosa tra i cristiani seguita all’affermarsi delle riforme protestanti. Tutto questo però avvenne oltralpe, non in Italia. Il papa disponeva solo in Italia di strumenti (e tra questi era il Santo uffizio) per pretendere un’obbedienza che altrove poteva ottenere esclusivamente quando le monarchie avevano convenienza nel riconoscergliela.

Ma si torna qui allo spunto di de Luca, per illustrare i motivi con cui egli spiegava la particolare situazione dell’esame, solo italiano, dei vescovi. Le cause erano molte. Anzitutto il gran numero dei vescovati italiani (sei volte quelli spagnoli, ad esempio), che oltre a moltiplicare le possibilità di nomina rendeva molte di quelle sedi assai povere; ciò comportava che a proporsi per essi fossero anche uomini che non appartenevano alle élite tradizionali. Ciò però avveniva anche perché in Italia l’eresia era del tutto estirpata e ciò aveva fatto sì che si fosse «dismesso l’uso che i vescovi predichino et amministrino la cura delle anime et i sacramenti particolarmente quello della penitenza» (il che avveniva per mezzo dei parroci e di altri). Non solo: «Essendo la dottrina cristiana da insegnarsi a putti et ad idioti resa molto facile con tante opere et istruzzioni in modo che ogni semplice chierico o secolare anche idiota è habile ad insegnarla (…) quindi segue che il suo ufficio [del vescovo] principalmente consiste nell’amministrazione dell’una e l’altra giustizia (…), nel punire i delitti e nel dare a ciascuno quel che è suo e per conseguenza sopra la vita e costumi de’ sudditi e del suo clero e popolo et anche nella distribuzione de’ benefizi, nel decente culto delle chiese, nella buona provvisio- ne de’ Parochi e nell’invigilare che questi facciano bene l’ufficio loro e nel difendere e mantenere la giurisdizione et l’immunità ecclesiastica, con la buona economica amministrazione delle robbe temporali della Chiesa catedrale o della sua mensa, invigilando che l’istesso segua nelle altre chiese inferiori (…)». Si intenda, de Luca non sminuiva con ciò affatto il ruolo dei vescovi – e anzi lo valutava superiore a quello dei cardinali – ma li presentava come amministratori e non pastori, dotati di un ruolo politico, quali rappresentanti locali della Chiesa romana i cui interessi anche economici e, appunto, politici, dovevano garantire. I vescovi italiani non dovevano curare le anime, diceva de Luca, e quindi se pure dovevano sottoporsi ad un esame, questo avrebbe dovuto insistere su materie giuridiche, per valutare le loro qualità di amministratori e di funzionari.

Un rapporto speciale, quindi, quello tra l’Italia e il papato, e quanto sia stato essenziale per quest’ultimo lo provano anche le testimonianze qui riportate. Quanto tale rapporto poté invece essere utile all’Italia è più complesso dire. Benedetto Croce, come è noto, lo giudicò positivamente, perché la penisola venne consegnata alla sua nuova storia unitaria almeno non indebolita dalla divisione religiosa. Altre note potrebbero essere dedicate ad aspetti diversi della vicenda della Chiesa italiana: al ruolo civile che svolse, a quello formativo, assistenziale, spirituale. Ma non è questa la sede per tal tipo di riflessione. Può tuttavia essere utile sottolineare come la Curia romana fu a lungo efficace palestra delle classi dirigenti italiane. Per secoli e secoli rampolli di grandi o più modeste (la Chiesa era l’unica realtà che poteva garantire un successo fino al più alto livello ai non aristocratici) famiglie italiane frequentarono quel che i contemporanei definivano tra l’altro come “gran teatro del mondo”, per tentarvi direttamente una carriera, per assistere curiali, per svolgervi compiti diplomatici. Molti di loro finivano poi per tornare nelle loro patrie, forti di un’esperienza sprovincializzante. Nel “De vulgari eloquentia”, Dante discute la tesi della mancanza di una vera e propria Curia in Italia, in assenza di un principe unitario. In realtà egli sosteneva che una Curia vi fosse, sia pur fisicamente dispersa in più sedi caratterizzate da elementi comuni. A partire dal XV secolo questa grande Corte “virtuale” si trovò ad essere di fatto riunita e sintetizzata nella Corte di Roma, struttura funzionale all’amministrazione di uno Stato particolare retto da un sovrano che aveva però anche una giurisdizione universale, un organismo dove si formò un gran numero di esponenti della classe dirigente dei singoli Stati italiani.

Concludendo, il cardinale Azzolini (e non solo lui), come si è detto, denunciò che l’elezione di un papa ultramontano avrebbe potuto ridurre la Chiesa in uno Stato servile «e subordinato ad un re». Di fatto, con tre sole eccezioni, dagli inizi del Quattrocento e per sei secoli il papato è stato un fatto italiano. Nel 1978 si è mutato rotta e sarebbe interessante porsi il problema dei due ultimi “forestieri” all’interno di questa riflessione. Con loro la Chiesa non si è asservita ad altri poteri, né, per usare un eufemismo, l’Italia è divenuta meno importante per la Sede romana. Si potrebbe anzi sostenere che per il papato l’Italia è diventata ancor più essenziale a fronte di significativi mutamenti che avvengono nel mondo da cui la nostra società, si pensa, debba essere mantenuta immune, col concorso di una politica che si mostra in buona parte debole e/o opportunista. In forma diversa, ma un’Italia da tenere ancora sotto controllo, su cui ancora esercitare una indiretta, ma non per questo poco ferma, giurisdizione. Questo è però tutt’altro discorso e non spetta più allo storico.