Flessibilità, conciliazione e occupazione femminile

Di Giovanna Altieri Martedì 13 Maggio 2008 17:58 Stampa
L’articolo mette in luce le contraddizioni aperte dai processi di flessibilizzazione del lavoro dal punto di vista di genere. Le nuove opportunità occupazionali flessibili stanno, infatti, producendo tra le donne anche un aumento del rischio di marginalizzazione nel lavoro, in seguito alla crescita di una partecipazione lavorativa discontinua e precaria, caratterizzata da redditi parziali e secondari.

La flessibilità è amica delle donne?

Anche in Italia sempre più donne sono presenti nel mondo del lavoro: negli ultimi dieci anni (1995-2006) il tasso di occupazione femminile nella fascia d’età 35-54 anni è aumentato di 14 punti percentuali. Tuttavia, le differenze tra Centro- Nord e Sud, invece di ridursi, si sono accresciute e la distanza rispetto alla media europea in termini di tasso di occupazione femminile si mantiene intorno ai 12 punti percentuali. La dinamica positiva della partecipazione femminile mette comunque in luce l’importanza del lavoro delle donne nell’economia familiare, lavoro a cui è sempre più difficile rinunciare e che le donne stesse non intendono abbandonare, soprattutto se hanno fatto un investimento di carattere formativo. Al tempo stesso suggerisce l’ipotesi che, nel nuovo mercato del lavoro “flessibile”, gli spazi per le donne si siano accresciuti e che, quindi, lavoro flessibile e occupazione femminile siano in correlazione positiva.

Tuttavia, guardando nel dettaglio delle dinamiche dell’occupazione femminile, la realtà appare molto più contraddittoria.1 Le nuove opportunità di occupazione flessibile stanno, infatti, producendo tra le donne anche un aumento dei rischi di una marginalizzazione nel lavoro, in seguito alla crescita di una partecipazione lavorativa discontinua e precaria, caratterizzata da redditi parziali e secondari. Una condizione che rafforza di fatto la dipendenza dal partner, in termini di garanzie di reddito e di copertura assicurativa, e impedisce il superamento del modello basato sul maschio lavo- ratore capofamiglia (strong male breadwinner) e sulla asimmetria dei ruoli nella distribuzione del lavoro tra i generi.2 Per questa via si innestano altresì circoli viziosi che frenano lo sviluppo ulteriore dell’occupazione femminile. Le nuove forme contrattuali flessibili, d’altra parte, non sempre aiutano la conciliazione e, anzi, più che sostenere il lavoro delle donne impegnate in attività di cura, spesso le inducono ad abbandonare il mercato oppure a ridimensionare i propri progetti di maternità. La forte segmentazione di genere del mercato del lavoro italiano, dunque, non solo concorre a determinare il divario tra il tasso di occupazione femminile italiano e quello medio dell’Europa occidentale, ma rappresenta un vero e proprio limite al suo superamento. Per individuare le ragioni di differenziali così ampi è bene tenere presente come l’Italia sia in ritardo soprattutto per le donne con istruzione inferiore: il loro tasso di occupazione è sensibilmente sotto la media dell’UE indipendentemente dal numero di figli (Tabella 1).

Il lavoro al femminile: part-time e/o temporaneo

Nel corso di poco più di dieci anni le donne hanno raggiunto una quota relativamente bassa di

 

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Fonte: Eurostat 2005.3

occupazione,4 ma importante nel panorama del mercato del lavoro italiano. Di fatto, è proprio l’occupazione femminile che ha alimentato la crescita del mercato del lavoro, assorbendo ben il 76% dell’aumento complessivo di occupazione del periodo 1993-2006. D’altra parte, nel decennio trascorso si è consolidato un processo di “terziarizzazione” della nostra economia, tanto che il peso dell’occupazione nei servizi è aumentato di 5 punti percentuali (dal 60% del 1995 al 65% del 2005). Sono infatti cresciute proprio quelle attività labour intensive e relativamente più favorevoli all’impiego di manodopera femminile: il settore immobiliare, quello alberghiero e della ristorazione, quello della salute e dei lavori sociali e i servizi alla persona. Dunque, i crescenti tassi di occupazione femminile non sono stati solamente una conseguenza di cambiamenti nei comportamenti e nelle aspirazioni delle donne, ma sono stati determinati anche da modificazioni intervenute più in generale nelle strutture produttive della nostra società. Va anche tenuto conto che in generale la terziarizzazione ha portato con sé la crescita di tipologie di lavoro poco qualificato e scarsamente retribuito, e per un numero crescente di famiglie si è quindi imposta la necessità di disporre di due redditi da lavoro.

La crescita dell’occupazione femminile ha portato con sé l’aumento del lavoro a tempo parziale, il cui peso è sostanzialmente raddoppiato nel periodo considerato, attestandosi al 13% circa dell’occupazione totale, ma al 26% tra le donne che lavorano. Di fatto, più della metà della nuova occupazione femminile – che ha riguardato oltre 850.000 persone – è a tempo parziale. Gli orari flessibili sono spesso un requisito dell’occupazione a misura di famiglia poiché facilitano il lavoro delle donne. Non è un caso che il part-time sia più diffuso nei paesi con tasso di occupazione femminile più alto, né è casuale che, dove esso è meno diffuso, il tasso di involontarietà sia più elevato: quantità e qualità del part-time sono, infatti, associate positivamente. Il part-time è dunque una modalità che può favorire la conciliazione, che si ripercuote tuttavia non solo sul livello di reddito attuale della donnamadre, ma che rischia di condizionarne il futuro sia in termini di prospettive di carriera che di capacità di maturare un adeguato reddito da pensione. Le tendenze più recenti mostrano, tra l’altro, una riduzione del numero di ore lavorate tra le donne che hanno contratti part-time che si approssima sempre più alle 20 ore settimanali, rispetto alle 25 ore medie della metà degli anni Novanta. Ciò indica una ulteriore marginalizzazione del lavoro delle lavoratrici part-time.

Accanto alla crescita del lavoro part-time, un secondo aspetto caratterizza le dinamiche di crescita dell’occupazione femminile: nell’ambito dell’occupazione dipendente, il lavoro a tempo determinato tra le donne passa da poco meno del 13% del 1993 a quasi il 16% del 2006, mentre tra gli uomini si assesta all’11%. Le tendenze recenti dimostrano tra l’altro che le donne rappresentano ancora la componente più dinamica dell’occupazione, ma con il baricentro spostato proprio sul lavoro dipendente a termine. Gli aspetti più critici, tuttavia, emergono guardando al peso e alle caratteristiche peculiari della presenza femminile in un’area che abbiamo definito di «instabilità occupazionale»,5 fatta di contratti di lavoro dipendente a termine, atipici, in somministrazione di breve e brevissima durata, contratti di collaborazione a progetto o occasionali dai compensi irrisori, ma anche da entrate e uscite dalla condizione di disoccupazione. Ebbene, se in Italia complessivamente si può stimare, al 2006,6 in oltre 3.400.000 il numero di persone in una condizione di instabilità occupazionale, si può osservare che ben il 53% di queste è di genere femminile. Il dato è ancor più significativo ove si consideri che le donne costituivano alla stessa data poco più del 39% dell’occupazione totale. La difficoltà ad inserirsi nel mercato del lavoro incontrata in generale dalle nuove generazioni, in particolare nel caso di occupazioni stabili, è ben rappresentata dal fatto che fino ai 24 anni il 44% dei giovani si trova in una condizione di instabilità occupazionale, ma tra le donne giovani la percentuale sale al 51% circa; inoltre, più di un quarto delle donne occupate tra i 25 e i 34 anni è instabile (gli stessi rapporti calcolati per gli uomini sono 39,7% e 15,5% rispettivamente). Il rischio di essere impiegati in forma precaria diminuisce con l’età ma, come si vede dalla Tabella 2, è sempre maggiore per le donne.

Se l’instabilità lavorativa è in generale più estesa nel Mezzogiorno, fa riflettere il fatto che in questa zona del paese addirittura un terzo delle lavoratrici che non ha superato l’obbligo scolastico cade in quest’area. Ciò suggerisce l’ipotesi che le scarse

 

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prospettive di lavoro – in termini di qualità e sicurezza – abbiano un effetto di scoraggiamento in particolare sulle donne meridionali meno scolarizzate, ovvero su quella componente che più concorre a produrre il differenziale di partecipazione italiano rispetto agli altri paesi europei.

Le probabilità di ricadere in un’area di instabilità lavorativa tende, comunque, a ridursi con l’età – e, geograficamente, da Sud a Nord. Tuttavia, a parità di titolo di studio ed età, le donne con occupazioni instabili rappresentano una quota dell’occupazione femminile sistematicamente maggiore rispetto allo stesso dato calcolato per gli uomini. È, dunque, una condizione che presenta una marcata connotazione di genere.

Tra le donne, inoltre, la precarietà non è soltanto più ampia, ma assume anche caratteri particolari. Se, in media, l’orizzonte temporale dei contratti per chi è occupato con un contratto temporaneo non supera l’anno nel 70% dei casi, tra le donne questo avviene nel 76% dei casi e per più di un terzo di loro il lavoro non supera i sei mesi. Le donne rappresentano anche la parte prevalente dei lavoratori instabili a tempo parziale: esse rappresentano il 73% degli occupati part-time a termine, dipendenti o parasubordinati; ma il dato da rilevare è che mentre il 57% delle donne che hanno un contratto part-time stabile non aspira ad un lavoro a tempo pieno, questo avviene per una piccola minoranza di lavoratrici con contratti instabili (il 36%).

D’altra parte, mentre il tempo parziale in situazioni occupazionali garantite sembra affermarsi quale strumento di conciliazione in assenza di servizi di sostegno alla famiglia (tra le madri con con- tratti stabili il part-time è scelto nel 65% dei casi), nell’area dell’instabilità è sintomo piuttosto di sottoccupazione: lo scelgono solo il 45% delle “madri instabili” impegnate a tempo ridotto.

La scadenza predefinita e la durata breve dei contratti non consentono, in generale, la pianificazione e il rispetto di qualsiasi impegno o investimento personale, economico e affettivo, e impediscono anche il consolidarsi di relazioni di lavoro sulla cui base si accumulano competenze per il lavoratore e capitale sociale per le imprese.

Nel caso delle donne, soprattutto se con figli piccoli, ogni scadenza contrattuale diventa però anche un’occasione per interrogarsi sulla convenienza della ricerca di un nuovo lavoro. Tra le meno scolarizzate, più esposte al rischio di restare intrappolate all’interno di contesti di lavoro poco tutelati e privi di prospettive, è probabile che il quesito si risolva nell’uscita temporanea o definitiva dal mercato. In generale, più del 7% delle lavoratrici instabili di età 15-54 anni occupate al IV trimestre 2005 risulta aver lasciato l’anno successivo il mercato del lavoro – e principalmente per dedicarsi alla cura della casa e/o della famiglia – e più del 5% è disoccupato.

Se un numero non trascurabile di donne con esperienze di lavoro discontinuo alle spalle prima o poi rinuncia, un numero molto maggiore vive la precarietà del lavoro per un lungo periodo di tempo. Valutando le transizioni occorse tra il IV trimestre 2005 e lo stesso trimestre 2006 limitatamente alle classi di età 15-54 anni, osserviamo che solo il 17% degli occupati instabili è stato assunto a tempo indeterminato. Per le donne, in particolare, il passaggio verso forme contrattuali stabili è ancora più difficile: ha interessato soltanto il 14% circa delle lavoratrici temporanee contro il 20% degli uomini con contratti a tempo determinato o di collaborazione.

In definitiva, se nel “nuovo” mercato del lavoro un numero crescente di persone deve affrontare condizioni di instabilità occupazionale che si protraggono nel tempo, attraversando fasi di sottoccupazione e disoccupazione, tra le donne la precarietà è più diffusa e ha caratteri peculiari: riguarda persone relativamente più adulte ed è caratterizzata da impieghi marginali, contratti di breve durata, impegni con orari limitati e imposti, minori opportunità di transizione verso occupazioni stabili. Maternità e discontinuità lavorativa

Da un altro punto di vista, quello della conciliazione, i dati rimandano un quadro ancor più contraddittorio. Ad esempio, tra le giovani collaboratrici che hanno tra i 25 e i 34 anni, le madri sono soltanto il 19%, una quota modesta in relazione al peso relativo delle madri nell’insieme delle occupate della stessa età (31%). Le madri, inoltre, sono relativamente meno scolarizzate: quasi una su quattro ha solo la licenza media (contro circa il 7% delle altre donne) e il lavoro è caratterizzato da impegni orari modesti, oltre che da redditi decisamente bassi. Se tutti, uomini e donne, lavorano in larghissima maggioranza per una sola azienda/cliente (91% circa) o sono vincolati alla sede del committente (85-86%), più donne che uomini (due su tre) non possono stabilire in autonomia l’orario di lavoro. Per le madri adulte la collaborazione rappresenta, dunque, una occasione per (ri)entrare nel mercato del lavoro e contribuire al reddito familiare, anche se in posizioni sovente marginali. Ma la scarsa presenza di giovani donne madri che lavorano in collaborazione ci mostra anche l’esito del dilemma a cui sono sottoposte le collaboratrici più istruite e potenzialmente interessate alla carriera professionale. Tra continuare a svolgere il proprio lavoro rinunciando alla famiglia o, piuttosto, vivere senza compromessi l’esperienza della maternità rischiando un ritiro dal mercato, emerge come comportamento prevalente quello di differire la maternità.

Anche in altri segmenti del lavoro atipico, come quello del lavoro interinale, si dimostra che le donne lavorano con un contratto temporaneo di basso profilo perché hanno problemi di conciliazione, ma, nel contempo, se hanno un contratto temporaneo riescono con più difficoltà a progettare la maternità: le lavoratrici interinali di età compresa tra i 30 e i 39 anni non hanno figli nel 65,2% dei casi.7 A fronte delle crescenti difficoltà determinate dalla riduzione del potere d’acquisto dei salari e dalla rigidità della domanda di lavoro da parte delle imprese – che interpretano la flessibilità come strumento di riduzione dei costi a basso valore aggiunto – le donne italiane scelgono dunque di differire il tempo e di ridurre i progetti di maternità, partecipando alla formazione del reddito familiare sal- vo poi, nel pieno della vita attiva, decidere loro malgrado di ritirarsi dal lavoro o continuarlo in un regime di basso profilo.

Eppure nelle regioni dove è maggiore la partecipazione al lavoro delle donne si osserva una natalità media più alta e/o che tende a crescere nel tempo. Al contrario, nelle regioni dove i tassi di attività femminile sono più bassi e il peso del lavoro insicuro è più elevato, la natalità è in calo o stabile. Non a caso, nelle regioni del primo tipo l’offerta di servizi alle famiglie è relativamente migliore sia per qualità che per quantità.

In sostanza, non è il lavoro della donna che deprime in Italia la propensione alla maternità, ma piuttosto la mancanza di lavoro, ovvero di occupazioni stabili e ben remunerate. La questione, non risolta, riguarda le modalità attraverso le quali rendere compatibili il lavoro della donna con le esigenze della maternità.

I rischi di una mancata regolazione della flessibilità

Mentre stenta a crescere la flessibilità family friendly, quella concepita e praticata per facilitare la conciliazione tra lavoro remunerato e cura della famiglia, aumenta il rischio che, in mancanza di interventi organici, la diffusione di contratti flessibili si traduca in precarietà, soprattutto per le donne. La diffusione di queste forme contrattuali è stata inizialmente giustificata e interpretata, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, come il risultato di una politica di conciliazione che avrebbe dovuto favorire l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Oggi, viceversa, è legittimo chiedersi se il ricorso indiscriminato a forme contrattuali atipiche non rappresenti in realtà un fattore di svantaggio per le donne. Infatti, se da un lato la flessibilizzazione del mercato del lavoro offre alle donne nuove opportunità di impiego, dall’altro essa determina situazioni di progressivo deterioramento dal punto di vista occupazionale, economico e sociale.

L’inserimento delle donne nei meccanismi di mercato, in sostanza, solo apparentemente rappresenta un superamento del modello del breadwinner, poiché produce nuove forme di segregazione e tende a marginalizzare il lavoro remunerato della donna all’interno della coppia, generando così nuove disuguaglianze.

D’altra parte, le differenze di genere nelle opportunità di lavoro e di guadagno rafforzano la tradizionale divisione del lavoro nella famiglia. Recenti ricerche dimostrano che, quando il rapporto tra i coniugi è “strutturalmente” paritario, vale a dire quando contribuiscono nella stessa misura al bilancio familiare lavorando entrambi con continuità e a tempo pieno, la condivisione diviene necessaria e questo ha delle ripercussioni sulla visione stessa dei ruoli familiari, dei modelli di famiglia ed educativi. Quando la moglie non può essere presente in casa, il marito tende a condividere gli impegni domestici. Il confronto ravvicinato con i compiti di cura, con le esigenze della donna e con il suo percorso lavorativo, porta i mariti a superare gli stereotipi sul ruolo femminile radicati nella cultura italiana. Al contrario, se il lavoro della donna è discontinuo e di basso profilo, l’uomo è indotto a delegare le responsabilità familiari, soprattutto nella conduzione delle faccende domestiche (meno nella cura dei figli).8 Marginalità e discontinuità, insieme al basso reddito, spingono molte donne fuori dal mercato del lavoro. Prezzi e disponibilità di alcuni beni e servizi, in particolare quelli relativi alla cura della casa e delle persone, sono determinanti: se il reddito derivante dal lavoro della donna è basso e incerto, il costo-opportunità per la famiglia spinge la donna a restare a casa o ad orientarsi verso occupazioni a tempo parziale.

Alla luce di quanto sopra esposto è auspicabile la definizione di nuove forme contrattuali che prevedano orari brevi e/o flessibili in occupazioni stabili, che non avviliscano le donne “ingabbiandole” in attività part-time dalle scarse prospettive professionali, che permettano alle lavoratrici di crescere e affermarsi senza discriminazioni di genere. Se le potenzialità di crescita – qualitativa e quantitativa – dell’occupazione femminile sono affidate a politiche integrate e sistemiche del lavoro, di welfare e della famiglia, non c’è dubbio che nell’attuale contesto di mercato – e in assenza di quelle politiche – non sia possibile prospettare né un aumento significativo del tasso di attività delle donne, in particolare di quelle meridionali poco istruite, né una ripresa decisa del tasso di natalità. L’entrata e l’uscita dal mondo del lavoro, lungi dal corrispondere alle diverse esigenze che intervengono nel corso della vita, diventano di fatto funzionali alla generazione di circuiti che costringono nella precarietà e nell’insicurezza. L’instabilità convince molte donne a ritardare l’esperienza della maternità, attivando un circolo vizioso: per crescere un figlio è spesso necessario il lavoro della madre, lavoro che – in quanto instabile – è messo a rischio proprio dal sopraggiungere della maternità. Si comincia tardi a fare il primo figlio e si finisce per farne al massimo uno.9

Il lavoro delle donne ha rilevanti implicazioni positive sul benessere economico della famiglia e sulle spese per i figli. Nelle famiglie dove si lavora in due, infatti, una maggiore quota di reddito viene spesa per l’istruzione e per i consumi dei figli. Tuttavia, i figli – ovvero le esigenze di cura – allontanano la donna dal lavoro e le famiglie numerose sono spesso monoreddito. Si creano per questa via circuiti perversi di differenziazione sociale e crescita dei rischi di povertà: le famiglie si trovano prive di risorse proprio quando ne avrebbero più bisogno per garantire ai figli un futuro di benessere e di opportunità. In assenza di supporti e di servizi a costi contenuti, i gruppi più penalizzati sono, infatti, quelli “popolari”, con livelli bassi di scolarizzazione e di capitale sociale.

Per altro verso, portare stabilmente al lavoro anche le donne con basso titolo di studio significherebbe affidare in maniera meno univoca alla famiglia lo sviluppo delle competenze relazionali e cognitive dei figli, evitando così di riprodurre le disuguaglianze attraverso le generazioni.

Eppure, al di là del quadro delineato, anche in Italia la nascita di un figlio non impedisce necessariamente alle donne di restare nel mercato del lavoro. Divenute madri, si continua a lavorare a condizione di occupare una posizione di “pregio” a cui corrisponde, insieme ad un reddito adeguato, un investimento professionale certamente oneroso; oppure a condizione di svolgere un lavoro che rende possibile la conciliazione. Si continua a lavorare anche quando, pur svolgendo professioni poco qualificate, l’occupazione è stabile (regolata da contratti standard) e, dunque, per la famiglia è meglio non rinunciare al reddito della donna, soprattutto a quello differito. Una uscita dal lavoro della neomamma espone la famiglia al rischio di un difficile rientro. Al contrario, nei casi in cui il lavoro sia discontinuo e/o la remunerazione bassa, si è portate, in occasione della maternità, a rinunciare in maniera temporanea o definitiva al lavoro.

Una flessibilità regolata, accompagnata da tutele e diritti, politiche che favoriscano processi di stabilizzazione del lavoro discontinuo sono, dunque, tasselli importanti di una strategia tesa a far crescere la presenza femminile nel mondo del lavoro e a consolidare rapporti più paritari tra i generi nel nostro paese.

[1] Molti dei dati riportati in questo articolo sono più ampiamente trattati in G. Altieri, G. Ferrucci, F. Dota, Donne e lavoro atipico: un incontro molto contraddittorio. 3° Rapporto Osservatorio permanente sul lavoro atipico in Italia, IRES-NIDIL, 19 marzo 2008, mimeo, disponibile sul sito www.ires.it.

[2] Il 77,7% del tempo dedicato dalle coppie al lavoro familiare, casalingo o di cura è svolto dalle donne; ben il 77,1% del tempo complessivo di lavoro degli uomini è dedicato al lavoro retribuito e appena il 23% al lavoro familiare. Cfr. ISTAT, Indagine multiscopo sull’uso del tempo, 2002-2003, ISTAT, Roma 2007. L’indagine ISTAT sulla fecondità – che ha rilevato i comportamenti delle donne che hanno avuto un figlio negli ultimi tre anni – mette in evidenza anche che il 73% delle neo-mamme non riceve nessun aiuto per il lavoro domestico e che su dieci donne che dichiarano di ricevere un aiuto esterno soltanto 4 (cioè il 10% del totale del campione) possono permettersi una collaboratrice domestica (le altre 3 fanno affidamento sul proprio partner, 2 sui nonni e 1 su altri aiuti). Cfr. S. Prati, M. Lo Conte,V. Talucci, Le strategie di conciliazione e le reti formali ed informali di sostegno alle famiglie con figli piccoli, in CNELISTAT, Seminario “Maternità e partecipazione delle donne al mercato del lavoro tra vincoli e strategie di conciliazione”, Roma, 2 dicembre 2003.

[3] Citato in A. Poggiaro, Maternità e partecipazione femminile al mercato del lavoro, in ISFOL, Maternità, Lavoro, Discriminazioni, Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Roma 2006.

[4] La quota di occupazione totale imputabile alle donne è passata dal 35% al 39% nel periodo che va dal 1993 al 2006.

[5] La misurazione statistica dell’area dell’instabilità è basata sui dati ISTAT e include, oltre ai dipendenti con contratto a termine (indipendentemente dalla volontarietà) e ai collaboratori a vario titolo, anche gli ex dipendenti a termine o parasubordinati (con o senza partita IVA), disoccupati da non più di un anno per scadenza dell’impegno lavorativo. In particolare, i «non occupati instabili» sono stati individuati sulla base delle risposte alle domande della sezione E del questionario ISTAT riservata ai non occupati con precedenti esperienze di lavoro. Si tratta di disoccupati attivi oppure di persone inattive disponibili a lavorare, tutti con precedenti esperienze a termine. Gli ex parasubordinati con partita IVA, in particolare, sono soggetti non occupati già lavoratori in proprio o liberi professionisti, in cerca di lavoro o disponibili a lavorare, che hanno concluso un’attività a tempo determinato. Cfr. Altieri, Ferrucci, Dota, op. cit.

[6] Cfr. ISTAT, Rilevazione sulle forze lavoro – IV trimestre 2006, ISTAT, Roma 2007.

[7] Cfr. IRES, Percorsi nel lavoro atipico: il caso dei lavoratori interinali, 2008, in corso di pubblicazione.

[8] Cfr. Altieri (a cura di), Uomini e donne moderni. Le differenze di genere nel lavoro e nella famiglia: nuovi modelli da sostenere, Ediesse, Roma 2007.

[9] L’età media alla prima maternità è di 30,8 anni (31,1 per le italiane e 27,4 per le straniere), ma tre donne su quattro ritengono che il periodo ideale per avere il primo figlio sia 25-29 anni. Cfr. ISTAT, Il matrimonio in Italia: un’istituzione in mutamento. Anni 2004-2005, ISTAT, Roma 2007.