Una declinazione locale per l'agenda digitale italiana?

Di Antonio Nicita Mercoledì 14 Maggio 2014 16:52 Stampa

Nel quadro del generale ritardo rispetto al raggiungimento degli obiettivi dell’agenda digitale europea, la situazione italiana presenta alcune caratteristiche peculiari. Prima tra tutte l’esistenza di condizioni estremamente differenziate per quanto riguarda la diffusione della banda larga e ultra-larga. Il rischio è che, ad aree interessate da una concorrenza feroce tra gli operatori e a elevata infrastrutturazione, si affianchino zone del paese alle prese con un drammatico digital divide. Dati questi presupposti, il modello della concorrenza infrastrutturata su base nazionale, seguito finora, rischia di essere inefficace, se non addirittura controproducente. Quali policy alternative sono allora possibili?


L’ITALIA IN AFFANNO SULL’AGENDA DIGITALE

Il comparto delle comunicazioni elettroniche e, più in generale, il tema dell’adozione dell’agenda digitale non vengono ricompresi tipicamente nel dibattito relativo alle opzioni di policy nei servizi pubblici locali. Le ragioni sono molteplici, ma la principale risiede nella circostanza che, pur essendo alcuni servizi di comunicazione elettronica classificabili come servizi di interesse pubblico, la loro naturale dimensione competitiva richiama mercati di dimensione quantomeno nazionale. Secondo l’approccio regolatorio e antitrust europeo, i mercati rilevanti della gran parte dei servizi di comunicazione elettronica, sia fissi che mobili, hanno una dimensione geografica nazionale, con riferimento ai mercati retail, cioè alla domanda finale di tali servizi da parte dei consumatori. Nei servizi di telefonia sulla rete mobile la dimensione nazionale delle reti e dei servizi è necessitata dall’esistenza di economie di scala, tanto dal lato dell’offerta quanto da quello della domanda (effetti di rete) che fanno sì che la concorrenza avvenga quantomeno su scala nazionale. Gran parte degli operatori “mobili” operanti in Italia, quattro dei quali sono, pur con diverso grado, infrastrutturati, afferiscono poi a gruppi multinazionali di operatori telefonici e le recenti decisioni europee circa l’azzeramento delle tariffe di roaming internazionale accelerano le spinte verso futuri mercati sovranazionali. Nei servizi di rete fissa, invece, la dimensione nazionale dei servizi retail si rapporta a una tipologia di concorrenza diversa da quella osservata per la telefonia mobile, rispetto alla quale la dimensione locale dell’accesso alla rete può assumere un rilievo significativo, anche sotto il profilo della regolazione. Dunque, è sotto questo specifico profilo che la dimensione locale dell’agenda digitale assume rilevanza.

Una fondamentale differenza tra i servizi di rete fissa e quelli di rete mobile è la diversa dipendenza tecnologica degli operatori “nuovi entranti” dall’operatore identificabile come lo storico monopolista pubblico, in Italia rappresentato dal gruppo Telecom Italia. Nei servizi di rete mobile si assiste a una dinamica concorrenziale vivace, con una penetrazione record a livello europeo e internazionale, una riduzione significativa dei prezzi, investimenti in nuove tecnologie (LTE), la presenza di quattro operatori infrastrutturati e di un crescente numero di operatori mobili “virtuali” (ovvero di operatori che utilizzano la rete degli altri operatori). Nei servizi di rete fissa, invece, persiste la dominanza di Telecom Italia, pur con quote di mercato in costante declino, specie nei servizi a banda larga. Questa dominanza, per i servizi di rete fissa, non si misura, banalmente, con esclusivo riferimento alla quota di mercato detenuta a livello retail, ma per il tramite di una più sofisticata analisi economica dell’effettivo potere di mercato, ovvero della capacità dell’operatore dominante di intraprendere comportamenti indipendenti dalle reazioni dei concorrenti, dei clienti e, in ultima analisi, dei consumatori finali. In altri termini, la dominanza sussiste allorché le scelte dell’operatore dominante non subiscono credibilmente il vincolo tempestivo della disciplina della concorrenza, sia attraverso la minaccia “orizzontale” dei concorrenti (che, ad esempio, potrebbero entrare sul mercato o aumentare la propria consistenza, in presenza di rialzi di prezzo retail) sia attraverso la minaccia “verticale” dei clienti o dei consumatori (i quali, ad esempio, potrebbero migrare verso i concorrenti in presenza di rialzi di prezzo da parte dell’operatore o di degrado della qualità). Non vi è dubbio che, a oltre quin dici anni dalla liberalizzazione del mercato, la perdurante dominanza nei servizi di rete fissa da parte dell’ex monopolista pubblico sia alimentata dalla dipendenza tecnologica dalla rete di Telecom Italia, che avviene sul mercato dell’accesso alla rete. Gli operatori alternativi che desiderino entrare sul mercato hanno a disposizione una serie di opzioni, ciascuna caratterizzata da un diverso grado di dipendenza tecnologica dall’operatore dominante: a) accesso bitstream; b) accesso all’ultimo miglio (local loop unbundling, ULL); c) investimenti in fibra fino agli armadi di strada (FTTCab); d) investimenti in fibra fino all’edificio (FTTB); e) investimenti in fibra diretti al cliente finale (FTTH). Man mano che si passa dalla opzione a) alla opzione e) aumenta il grado di infrastrutturazione, e dunque di investimenti, da parte dell’operatore, in quanto aumenta la parte di “fibra” rispetto alla tradizionale rete in rame, che ha una capacità di trasporto dati limitata. L’accesso bitstream indica la tipologia di accesso alla rete per la fornitura di servizi di accesso a internet a banda larga meno infrastrutturata. In questo caso, l’operatore telefonico dominante (nel caso italiano Telecom) fornisce un servizio di accesso a banda larga a un cliente finale e, allo stesso tempo, mette a disposizione la medesima infrastruttura di telecomunicazione ai suoi concorrenti. Questa tipologia di accesso alla rete, però, non sottintende nessun accesso diretto da parte dell’operatore telefonico alternativo all’infrastruttura stessa: sarà l’operatore dominante a gestire, controllare e manutenere l’intera linea. All’altro estremo (FTTH, fiber to the home) vi è una connessione diretta all’utente finale con l’altissima capacità (fino a 300Mbit/s con le attuali soluzioni GPON) che la rete comporta. L’approccio regolatorio comunitario ha privilegiato, fino a oggi, una regolazione incentivante, volta a fissare il livello dei prezzi di accesso ai concorrenti in funzione del loro grado di infrastrutturazione, in modo da indurli a salire lungo la scala degli investimenti (ladder of investment). La scala dei prezzi di accesso alla rete dell’operatore dominante è stata così fissata in modo inversamente proporzionale al grado di infrastrutturazione degli operatori, inducendoli a decidere di volta in volta se essere autonomi (make) o acquistare in tutto o in parte servizi di accesso dall’operatore dominante (buy), ovvero se puntare a raggiungere prima una scala mini ma efficiente di clienti che, una volta acquisiti, potessero poi transitare in reti autonome ad alta capacità (buy to make).

Come ha recentemente ben fotografato il Rapporto Caio1 commissionato dal governo di Enrico Letta (redatto da Francesco Caio, Gérard Pogorel e Scott Marcus), il nostro paese presenta quattro Italie: a) alcune isole locali felici, caratterizzate da una elevata penetrazione a banda larga e ultra-larga, come nel caso del modello Metroweb di Milano (l’operatore che offre accesso a fibra spenta a tutti gli operatori) e delle oltre venti città interessate dal piano di copertura FTTCab di Fastweb; b) altre aree urbane caratterizzate da un numero elevato di centrali aperte alla disaggregazione dell’ultimo miglio (ULL); c) aree non ancora aperte all’ULL e nelle quali verosimilmente soltanto l’operatore dominante potrà realizzare nuovi investimenti; d) aree residue di pieno digital divide, nelle quali solo nei prossimi anni, grazie anche a un forte intervento pubblico, il mercato realizzerà nuovi investimenti per connessioni a banda larga su rete fissa. Il Rapporto ha poi analizzato i piani annunciati a oggi dai principali operatori, concludendo che Telecom Italia raggiungerà, entro il 2016, una copertura del 50% della popolazione, con soluzioni FTTCab ad almeno 30Mbit/s, investendo 1,7 miliardi di euro nel triennio 2014-2016; Fastweb coprirà il 20% della popolazione investendo 0,4 miliardi di euro nel triennio 2012-2014; Vodafone coprirà il 29% della popolazione entro il primo trimestre del 2017. Ne consegue, secondo il Rapporto, che il 25-30% della popolazione sarà servito da due o tre infrastrutture a banda ultra-larga in concorrenza; un ulteriore 20-25% (che potrebbe salire al 40-45% nel 2020) sarà servito dalla sola infrastruttura a banda ultra-larga di Telecom Italia; la parte rimanente continuerà a essere servita, in postazione fissa, dalla sola rete in rame, e quindi dalla sola rete a banda larga di prima generazione, a meno di interventi di finanziamento pubblico. Questa variegata situazione comporta che il nostro paese si colloca in un significativo ritardo rispetto agli obiettivi infrastrutturali 2020 dell’agenda digitale, che richiedono copertura a 30Mbit/s per il 100% della popolazione e avvio delle connessioni a 100Mbit/s per il 50% delle famiglie. In particolare, con riferimento alla copertura minima di 30Mbit/s l’Italia si collochi oggi all’ultimo posto in Europa e, sebbene abbia fatto progressi in termini di penetrazione, il nostro paese si posiziona sempre all’ultimo posto in termini di adozione dei servizi. È noto che l’Italia sconta un ritardo infrastrutturale dovuto all’assenza di infrastrutture via cavo. Ma è altrettanto vero che, dal 2005 a oggi, paesi che stavano dietro il nostro quanto a livelli di penetrazione e infrastrutturazione hanno fatto straordinari passi in avanti. Segno che esistono specificità nazionali che vanno studiate e rimosse, tanto dal lato dell’offerta (creazione delle reti) quanto dal lato della domanda (incentivazione all’uso di servizi digitali a elevata qualità, specie dal lato della PA). Questo preoccupante quadro non è peraltro compensato dai servizi di rete mobile. Sebbene, infatti, il nostro paese sia da anni tra i primi, a livello OCSE, in termini di penetrazione (assoluta e pro capite) di telefoni cellulari e di smart-phone, tablet e così via, la capacità disponibile è ancora limitata, in attesa di un pieno sviluppo della tecnologia LTE e LTE advanced, e l’utilizzo stesso di servizi a banda larga in mobilità è tra i più bassi d’Europa. In questo contesto si pongono, per il regolatore e in genere per i policy makers, alcuni dilemmi la cui risoluzione non è più procrastinabile e che interessano tanto la dimensione nazionale dei mercati, quanto la dimensione locale dell’accesso alle reti e della realizzazione degli investimenti.

 

CONCORRENZA E INVESTIMENTI: QUALE SOSTENIBILITÀ?

Il primo e più importante dilemma, per il nostro paese, riguarda proprio l’attuazione del modello finora perseguito a livello europeo, e realizzato dai regolatori, e cioè quello della concorrenza infrastrutturata su base nazionale. È sostenibile una situazione nella quale alcune aree del paese registrino una pluralità di operatori che effettuano i medesimi investimenti per aggredire la medesima clientela ad alto valore, relegando le altre aree a un sostanziale monopolio, se non all’assenza di ogni investimento a banda larga? Questa domanda sottende due questioni, in parte collegate. La prima riguarda la “sostenibilità locale” della concorrenza infrastrutturale. La seconda attiene alla “sostenibilità nazionale” del modello di concorrenza infrastrutturale ai fini del conseguimento degli obiettivi dell’agenda digitale. Con riferimento alla sostenibilità locale, è evidente che, se gli operatori si infrastrutturano tutti in tutte e sole le zone nelle quali è potenzialmente rinvenibile una domanda “complessiva” a elevato valore, ciascuno di essi – a parità di dotazione tecnologica – potrà aspirare a soddisfare soltanto una porzione di quella domanda, con il rischio di generare ex post un eccesso di capacità aggregata dal lato dell’offerta e, dunque, uno “spreco sociale” dal punto di vista dell’allocazione delle risorse destinate agli investimenti. Ciò è ancor più evidente laddove si consideri che, a fronte di un eccesso di investimenti in alcune aree, vi è un sottoinvestimento aggregato in altre aree, nelle quali non soltanto non si registra una significativa concorrenza, ma nelle quali – proprio a causa del venir meno della disciplina di mercato – l’operatore dominante sarebbe indotto a estrarre la massima rendita dalla vecchia tecnologia e non a realizzare nuovi investimenti innovativi. Peraltro, il tema viene ancor più complicato dal fatto che, dopo aver investito nell’infrastruttura, ciascun operatore dovrà integrare la propria offerta di servizi con contenuti di valore paragonabili a quelli offerti dai concorrenti, circostanza che si può realizzare solo in assenza di esclusive su contenuti drivers. Insomma, c’è il serio rischio che la concorrenza infrastrutturale possa non essere sostenibile, ancorché limitata alle aree geografiche più redditizie. D’altra parte, come dimostrano i recenti dati del Digital Scoreboard europeo, esiste una significativa correlazione tra qualità delle reti (capacità di banda in reti di nuova generazione) e grado di concorrenza sul mercato. Per cui, se da un lato la concorrenza infrastrutturale può generare uno spreco sociale ex post, nondimeno il confronto concorrenziale costituisce un indubbio fattore di stimolo ex ante per l’adozione di investimenti innovativi.

Tuttavia, il problema economico strategico che si pone a livello di policy (e di regolazione) è dato dalla circostanza che l’elaborazione teorica del modello della scala degli investimenti (ladder of investments) e della concorrenza infrastrutturale è stata pensata per coprire un unico ambiente competitivo nel quale si esaurisse il confronto concorrenziale. La circostanza che, nel nostro paese, tale modello sia limitato soltanto ad alcune aree, lasciando offerte monopolistiche a livello wholesale (ad esempio bitstream) o nessuna offerta a larga banda nelle attuali aree in digital divide, deve costringere a un forte ripensamento dell’approccio regolatorio e di policy. Infatti, da un lato c’è il serio rischio di avere un eccesso di investimenti nelle aree aperte alla concorrenza infrastrutturale e un incentivo a ritardare gli investimenti nelle aree in monopolio infrastrutturale, dall’altro c’è il rilevante tema dell’esclusione digitale e della conseguente diversa dotazione infrastrutturale del paese.

 

LE OPZIONI POSSIBILI TRA REGOLAZIONE E POLICY MAKING

Nel quadro sopra delineato, l’idea di una separazione verticale strutturale dell’operatore dominante (il cosiddetto “scorporo della rete” che, nell’ordinamento europeo delle comunicazioni elettroniche presuppone un’iniziativa volontaria da parte del soggetto verticalmente integrato) risolve alcuni problemi ma non altri. È evidente che una separazione verticale dell’operatore dominante tra rete e servizi elimini in nuce i rischi connessi alla discriminazione di prezzo e di qualità tra titolare della rete e concorrenti. La concorrenza si sposterebbe interamente, ed esclusivamente, sulla qualità dell’offerta e non sulla dotazione infrastrutturale. Ciò permetterebbe di risolvere i problemi di coordinamento tra operatori che finiscono per coprire le medesime aree, ma solo nell’ipotesi di assicurare in qualche modo al nuovo monopolista della rete un regime di esclusiva di fatto. Allo stesso tempo, tuttavia, il venir meno della concorrenza infrastrutturale eliminerebbe gli incentivi agli investimenti determinati dal confronto concorrenziale tra operatori infrastrutturati, a meno di una forte azione di policy volta a fissare target di investimento. Ne consegue che la separazione strutturale verticale non garantirebbe comunque – in assenza di una politica incentivante – che il titolare della reti effettui poi gli investimenti laddove necessario o comunque investa necessariamente in misura maggiore di un soggetto verticalmente integrato. Non sembra esistere ad oggi, per il nostro paese, un unico modello, un first best che possa garantire il conseguimento degli obiettivi dell’agenda digitale. Ciò significa che anche le risposte regolatorie e gli orientamenti di policy devono rapportarsi a realtà frastagliate e geograficamente distinte, superando l’equivoco che un medesimo approccio possa essere applicato uniformemente su tutto il territorio nazionale, quantomeno nel medesimo orizzonte temporale.

La specificità italiana, ben fotografata dal Rapporto Caio e puntualmente rappresentata dall’AgCom nelle sue relazioni annuali, dimostra i limiti e, insieme, i dilemmi regolatori e di policy che sono di fronte a noi. Le modalità e le finalità alle quali saranno improntati i prossimi cicli regolatori (2014-2016), nonché le politiche regolatorie dei prezzi di accesso tra rame e fibra, le politiche di gestione dello spettro e, infine, l’intervento pubblico nelle aree a esclusione digitale, sono tutte tessere di un mosaico che va pensato e delineato in modo coerente e finalizzato. L’inerzia dei vecchi approcci regolatori e l’incoerenza delle misure prospettate possono costituire altrettanti fattori inibitori per lo sviluppo dell’offerta e della domanda di servizi digitali a larga banda. Mentre si svolgeva il dibattito sullo scorporo della rete – che, come detto, risolve alcuni problemi, ma potrebbe generarne altri in assenza di impegni credibili e verificabili sugli investimenti – registrando in alcune fasi la preferenza di alcuni policy makers, gli operatori italiani si orientavano, in prevalenza, verso il modello di concorrenza infrastrutturata, in una sorta di “unbundling avanzato” che include l’utilizzo della rete in rame in un punto ancora più prossimo all’edificio (cosiddetto sub-loop unbundling) per realizzare architetture FTTCab indipendenti da quella dell’operatore verticalmente integrato. Nell’attuale quadro che abbiamo di fronte a noi si pongono, dunque, alcune scelte regolatorie e di policy di fondo, relative ai seguenti aspetti: a) definizione degli obblighi di accesso e dei target di investimento da imporre all’operatore dominante con riferimento sia ai servizi infrastrutturali “passivi” (sui quali gli operatori attivano i propri servizi in modo autonomo) sia a quelli “attivi” (rispetto ai quali gli operatori alternativi utilizzano per la quasi totalità l’infrastruttura dell’operatore dominante); b) determinazione dei prezzi di accesso oggetto di regolazione; c) segmentazione geografica dei mercati e della relativa regolazione, sulla base delle differenze territoriali riscontrate nello sviluppo delle infrastrutture e della concorrenza, così come delineate nel citato Rapporto Caio; d) individuazione delle forme sostenibili di promozione/obbligo di coinvestimento in capo agli operatori; e) liberazione di nuovi spazi frequenziali ad alta capacità di banda, da utilizzare in forma condivisa per garantire fruizione a larga banda in mobilità, specie nelle zone a esclusione digitale (sia in forma non licenziataria per usi wi-fi che attraverso le nuove forme del cosiddetto Licensed Shared Access); f) definizione di appropriate politiche dal lato della domanda,2 con un ruolo centrale della PA nella digitalizzazione dei servizi al cittadino; g) declinazione di una politica di accesso non esclusivo a taluni contenuti premium (ad esempio eventi sportivi) per infrastruttura di nuova generazione per il periodo di lancio dell’infrastruttura; h) individuazione del modello di “parità di accesso” alla rete più idoneo per il contesto nazionale. Dal modo in cui saranno affrontate tali questioni dipenderanno gli investimenti e gli assetti di mercato, nonché la capacità dell’Italia di procedere, più speditamente, verso gli obiettivi dell’agenda digitale.

 


 

[1] F. Caio, G. Pogorel, S. Marcus, Raggiungere gli obiettivi Europei 2020 della banda larga in Italia: prospettive e sfide. Rapporto alla Presidenza del Consiglio, Roma, 30 gennaio 2014.

[2] F. Belloc, A. Nicita, M. A. Rossi, Whither Policy Design for Broadband Penetration? Evidence from 30 OECD Countries, in “Telecommunications Policy”, 5/2012, pp. 382-98.