Proliferazione nucleare: il caso della Corea del Nord

Di Sandro Sideri Giovedì 27 Marzo 2008 14:39 Stampa

La stabilità geopolitica dell’Asia nordorientale dipende in modo cruciale dall’evolvere della situazione nella penisola coreana e, particolarmente, dal comportamento della Corea del Nord. Per sopravvivere, Pyongyang ha bisogno non solo della crescita economica, ma anche di un deterrente per dissuadere chi vuol procedere al «cambio di regime». La costruzione di questo deterrente assorbe risorse e suscita apprensione nei paesi vicini. Infatti, il programma nucleare nordcoreano ha alterato e complicato gli incerti equilibri regionali e ha contribuito al collasso dei controlli internazionali che per decenni hanno permesso di contenere la diffusione delle armi nucleari.

L’apertura e l’integrazione della Corea del Nord nell’economia globale potrebbe invece stabilizzare la regione, ridurre la necessità dell’ombrello protettivo americano e spronare il regime nordcoreano a evolvere verso forme meno autoritarie.

La Corea del Nord e il Trattato di non-proliferazione nucleare La proliferazione nucleare, insieme al terrorismo, rappresenta una seria minaccia per il mondo e particolarmente per gli Stati Uniti, i quali, però, sono convinti che la prima riguardi solo alcuni «Stati canaglia » e non mostrano interesse al rafforzamento del Trattato di non-proliferazione nucleare (TNP). Anzi, da quando hanno posto al centro della propria strategia di sicurezza nazionale la guerra preventiva, «con gli USA a giudicare l’immanenza della minaccia»,1 un numero crescente di paesi sente il bisogno di dotarsi di un minimo deterrente nucleare per conservare la propria autonomia. Inoltre, fermare il diffondersi e lo stoccaggio di armi nucleari diventa più difficile se i paesi guida fanno eccezioni per i propri amici, come è avvenuto con il recente accordo che gli Stati Uniti hanno concluso con l’India, il cui programma nucleare ha già spinto il Pakistan a incrementare il proprio, favorendo lo sviluppo della rete illegale dello scienziato Abdul Qadeer Khan.2 Questo accordo, i cui dettagli sono ancora in corso di negoziazione, potrebbe indurre Cina e Pakistan ad una corsa agli armamenti, accrescendo così l’instabilità endemica della regione. Ad ogni modo è sicuramente poco coerente che un paese collabori e promuova tecnologie per la generazione di energia nucleare in India e allo stesso tempo pretenda che Corea del Nord e Iran non facciano lo stesso.

Nella forma attuale il TNP è diventato chiaramente inadeguato, ma la sua revisione è resa difficile dal fatto che richiede il coinvolgimento delle Nazioni Unite e l’approccio multilaterale inviso all’attuale amministrazione americana.

La sfida di Pyoˇngyang Per garantirsi la sopravvivenza, il regime nordcoreano ha puntato sul ricatto nucleare per costringere gli Stati Uniti – l’unico paese interessato ad eliminarlo ed in grado di farlo – a firmare un patto di non aggressione che permetterebbe alla Corea del Nord di rompere l’isolamento e far ripartire l’economia. Inoltre, la scelta nucleare nordcoreana rappresenta la reazione all’introduzione di armi nucleari nella Corea del Sud da parte degli Stati Uniti in violazione dell’accordo del 1992, che mirava a mantenere denuclearizzata la penisola coreana. Per il regime di Pyoˇngyang il possesso dell’arma nucleare e dei missili è diventato lo strumento essenziale per raggiungere il suo principale obiettivo strategico, cioè un trattato di pace con gli Stati Uniti. Per questi, invece, l’obiettivo strategico è la totale e irreversibile denuclearizzazione della Corea del Nord, un paese canaglia da sempre osteggiato da Washington e nei confronti del quale viene applicata la nuova Strategia di sicurezza nazionale, nonostante il regime nordcoreano non abbia alcun legame col terrorismo di al Qaida.

L’Amministrazione di George Bush pose quale condizione all’apertura di un eventuale negoziato con Pyoˇngyang la prova della rinuncia alla costruzione di armi di distruzione di massa. Nel 1994, dopo mesi di negoziati e l’ascesa di Clinton alla presidenza, si arrivò all’Agreed Framework (AF) con il quale la Corea del Nord prometteva di congela- re, ed eventualmente smantellare, i reattori e le relative installazioni di Yongbyon. In cambio, gli Stati Uniti avrebbero fornito 500 mila tonnellate all’anno di petrolio e costruito entro il 2003-04 due centrali elettriche nucleari ad acqua leggera. Poco dopo, però, i repubblicani ripresero il controllo del Congresso americano e l’Amministrazione Clinton, per evitare lo scontro, preferì rallentare la costruzione delle centrali e ignorare le proteste di Pyoˇngyang e le sue minacce di annullare l’accordo.

Le proteste per il mancato rispetto dell’accordo continuarono con la salita al potere di Kim Jong-Il (figlio di Kim Il-Sung), il quale nel giugno del 1998 espresse la propria disponibilità a mettere in discussione il programma missilistico nordcoreano. Contemporaneamente, Pyoˇngyang cominciò a mostrare una maggiore apertura verso la Corea del Sud, nonostante i due paesi non avessero ancora firmato un trattato di pace.

Nel giugno 2000 ebbe luogo lo storico vertice tra i presidenti delle due Coree, che rafforzò le prospettive di successo della strategia sudcoreana (la cosiddetta sunshine policy) per una negoziata e graduale riunificazione della penisola:3 uno sviluppo parallelo al tentativo dell’Amministrazione Clinton di «spostare la politica americana da pura ostilità a parziale engagement».4

Appena arrivato al potere, George W. Bush interruppe, però, tutti i contatti bilaterali ad alto livello con Pyoˇngyang, dichiarò di ritenere lettera morta l’AF o piuttosto preferì un’interpretazione unilaterale dell’accordo. Condannò inoltre la sunshine policy con la quale Seoul stava cercando di portare avanti il dialogo con la Corea del Nord e, nel gennaio 2002, incluse quest’ultima nell’«asse del male», arricchendo il tutto con insulti gratuiti a Kim Jong-Il. Di rimando, nell’aprile 2002, la Corea del Nord informò la delegazione americana di possedere già un paio di ordigni nucleari e di volerne costruirne altri e, ad ottobre, ammise spavaldamente di aver continuato a sviluppare il programma di arricchimento dell’uranio in violazione dell’AF – programma sulla cui esistenza però esistono dubbi e la cui localizzazione è ancor oggi ignota. All’inizio del dicembre 2002, Pyoˇngyang dichiarò l’intenzione di riattivare il reattore nucleare che era stato fermato e, alla fine di quello stesso anno, espulse gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Infine il 10 gennaio 2003 annunciò il ritiro unilaterale della Corea del Nord dal TNP. Il mese successivo, il governo americano confermò la riapertura da parte di Pyoˇngyang degli impianti di Yongbyon e la rimozione dai depositi di barre di combustibile esaurito. A questo punto le divergenze con Washington si trasformarono in una questione internazionale: il programma nucleare nordcoreano divenne una chiara e immediata minaccia alla sicurezza regionale dell’Asia orientale e al regime globale di non-proliferazione. Nonostante tutto, Joel Stephen Wit (ex diplomatico americano e coordinatore dei negoziati dell’AF) ed altri continuarono a sostenere che la sfida di Pyoˇngyang era solo un elemento di una strategia volta a negoziare una soluzione ai problemi nordcoreani e, allo stesso tempo, ad assicurare la sopravvivenza del regime ed evitare il destino dell’Iraq.

Frattanto Seoul e Tokyo decisero di accettare il dialogo con Pyoˇngyang senza curarsi troppo dell’opposizione americana. Anzi, dopo che la Corea del Nord era stata inclusa nell’«asse del male», il primo ministro giapponese Junichiro Koizumi accettò l’invito di Kim Jong-Il al primo vertice coreano, che ebbe luogo il 17 settembre 2002, durante il quale venne firmata la Dichiarazione di Pyoˇngyang, diretta ad aprire la strada alla normalizzazione delle relazioni tra i due paesi. In quest’occasione la Corea del Nord promise di estendere a tempo indeterminato la moratoria relativa ai lanci missilistici.

Da parte sua, la Corea del Sud si offrì come «mediatrice» tra Stati Uniti e Corea del Nord per la risoluzione della crisi, offerta con la quale essa implicitamente assumeva una posizione terza tra i due contendenti e riaffermava la convinzione che qualunque disputa con Pyoˇngyang andasse risolta per via diplomatica. Gli sforzi del governo sudcoreano riflettevano le due principali preoccupazioni che agitavano il paese, e cioè che l’atteggiamento eccessivamente aggressivo americano finisse per spingere il Nord ad aggredire il Sud e che il regime di Pyoˇngyang potesse improvvisamente collassare, gettando nel caos l’intera penisola. Inoltre, a partire dalla crisi del 1994, emerse in Corea del Sud il sospetto che gli Stati Uniti mirassero ad ostacolare il miglioramento delle relazioni con la Corea del Nord e che non avrebbero esitato a sacrificarla per raggiungere i propri obiettivi. Il che spiega, in gran parte, il crescente sentimento antiamericano che attraversa la società sudcoreana, e che ha indotto alcuni conservatori statunitensi a chiedere il completo ritiro delle truppe americane dal paese.5

Poiché è difficile pensare di poter arrestare la proliferazione nucleare – come piacerebbe a molti nell’attuale amministrazione americana – con un’azione militare preventiva ad altissimo rischio, si è cominciato a riconoscere la necessità di sviluppare una diversa strategia per fronteggiare una crisi nucleare il cui esito potrebbe avere profonde implicazioni per la stabilità dell’Asia nordorientale e per il regime di non-proliferazione. Insistendo però sul disarmo nucleare della Corea del Nord – cioè il «completo, verificabile, irreversibile smantellamento di armi e materiali nucleari» – come prerequisito all’avvio dei negoziati, senza alcuna indicazione sulla road map per lo smantellamento degli impianti, Washington ha rivelato la mancanza di una strategia negoziale.

Per cercare di disinnescare la questione nordcoreana è stato necessario avviare un negoziato multilaterale che, coinvolgendo anche i paesi limitrofi, permetta di affrontare il problema nucleare tenendo conto del complesso groviglio di irrisolte contraddizioni storiche che ne hanno segnato la nascita. La Russia e la Cina hanno convinto la Corea del Nord ad accettare un colloquio a sei (C-6) – le due Coree, Cina, Giappone, Russia e Stati Uniti – per discutere il suo programma nucleare. Il primo incontro, che ha avuto luogo nel settembre del 2003, è risultato inconcludente ma ha aperto un canale di comunicazione per avviare il difficile processo di avvicinamento fra posizioni così lontane.

Nel frattempo gli Stati Uniti hanno lanciato la Proliferation Security Initiative (PSI), un accordo multilaterale che permette l’interdizione del traffico di armi di distruzione di massa e il loro sequestro ovunque, anche se, in effetti, obiettivo principale della PSI sono i movimenti navali da e verso la Corea del Nord. Il tentativo americano di portare la questione del nucleare della Corea del Nord e del suo ritiro dal TNP al Consiglio di sicurezza dell’ONU, non ha invece trovato l’appoggio di Russia, Cina e Corea del Sud. Specialmente la Cina non sembra disposta a spingere la Corea del Nord in un angolo con il rischio che il regime collassi.

Cresce frattanto l’ostilità del Congresso americano verso la Corea del Nord, mentre quella del Sud, pur insistendo sulla necessità del dialogo, comincia a seguire una linea più dura nei negoziati bilaterali con Pyoˇngyang, apparentemente allineandosi sulle posizioni americane. Lo stesso vale per il Giappone. Ne consegue l’aumento del pessimismo di Pechino per le sorti del negoziato. Il C-6 continua a riunirsi, ma la riluttanza americana a trattare con Pyoˇngyang e la continua minaccia di sanzioni economiche rendono difficile ogni progresso. Solo grazie alla determinazione cinese, il 19 settembre 2005 è stato raggiunto l’accordo su un Joint Statement (JS1) con il quale la Corea del Nord ha promesso di abbandonare «in tempi brevi tutti i programmi nucleari» e i sei paesi membri hanno affermato «il comune obiettivo e volontà di raggiungere al più presto la denuclearizazione della penisola coreana in maniera pacifica». Contemporaneamente, però, il Dipartimento per il tesoro americano ha deciso di congelare gli assets finanziari di agenzie governative o imprese nordcoreane ritenute coinvolte in attività illecite. Nel luglio del 2006, la Corea del Nord ha reagito eseguendo il lancio di un missile balistico – la cui portata va ben oltre il Giappone – e a ottobre ha fatto esplodere il primo ordigno nucleare. Questo è troppo anche per la Cina, che ha tagliato gli aiuti militari a Pyoˇngyang e ha deciso di cooperare con Washington per imporre misure restrittive alle banche che finanziano il regime nordcoreano.

Sono seguite altre infruttuose riunioni, ma i tre giorni di colloqui a Berlino tra i negoziatori americani e nordcoreani all’inizio del 2007 hanno segnalato che i due paesi sono pronti per un compromesso. Infatti, il 13 febbraio 2007 a Pechino, i membri del C-6 si sono finalmente accordati per aggiungere al JS1 un nuovo piano d’azione (JS2) per iniziare lo smantellamento del programma nucleare della Corea del Nord. Il JS2 offre cinquantamila tonnellate di olio combustibile pesante, o l’equivalente in aiuti economici, in cambio della chiusura sigillata, entro sessanta giorni e sotto la supervisione dell’AIEA, del principale reattore nucleare nordcoreano e delle relative installazioni a Yongbyon.6 A Pyoˇngyang sono state anche promesse migliori relazioni con i vicini e con gli Stati Uniti e altre 950 mila tonnellate di carburante quando Pyoˇngyang rivelerà tutti i programmi nucleari e disattiverà tutti i relativi impianti. Il valore totale degli incentivi economici è stimato pari a circa 300 milioni di dollari. Il piano d’azione prevede anche: discussioni bilaterali di Pyoˇngyang con Washington e con Tokyo per cercare di risolvere i problemi pendenti con questi paesi; la creazione di cinque gruppi di lavoro per effettuare le prime misure e completare la realizzazione dell’accordo, e infine una riunione ministeriale per confermare l’accordo stesso ed esplorare le modalità e gli strumenti per cooperare alla creazione di un sistema di sicurezza multilaterale del Nord-Est asiatico, una delle poche regioni dove ancora manca.

Il JS2 è stato immediatamente condannato dai conservatori americani per essere troppo simile all’AF del 1994 e dai liberal per essere arrivato troppo tardi. I primi dimenticano che, contrariamente all’AF, il nuovo accordo contiene le misure da prendere entro i primi sessanta giorni, mentre sono solo indicate e lasciate a futuri negoziati difficili questioni come la completa denuclearizzazione della penisola coreana, il futuro dell’attuale programma di Pyoˇngyang relativo al plutonio e la completa denunzia di tutte le attività nucleari della Corea del Nord. Quindi i negoziati veri devono ancora cominciare e il risultato finale resta altamente incerto, anche se, sostengono i liberal, la firma degli altri paesi, specialmente Cina e Corea del Sud, aumenta il peso dell’accordo appena raggiunto.

La critica avanzata dai liberal è quindi essenzialmente un attacco all’Amministrazione Bush per aver perso tempo, permettendo così a Pyoˇngyang di riavviare il programma nucleare, di produrre e accumulare abbastanza plutonio per le testate nucleari e di far esplodere un ordigno nucleare.7 Per essi, abbandonare l’obiettivo di rovesciare regimi o di spingerli al collasso in cambio di un approccio più pragmatico non significa ricompensare comportamenti riprovevoli o incoraggiare la proliferazione nucleare, ma più semplicemente riconoscere che punendo e isolando la Corea del Nord non si sono raggiunti importanti risultati. Anzi, nel periodo durante il quale gli ideologi di Washington si sono rifiutati di trattare con Pyoˇngyang mirando al cambio di regime, i problemi della proliferazione si sono acuiti ovunque: la Corea del Nord si è ritirata dal TNP e ha fatto esplodere un ordigno nucleare; l’Iran ha rilanciato il proprio programma di arricchimento dell’uranio; la Corea del Sud e il Giappone sono sempre più tentati dal nucleare ed è crollata la fiducia globale nel regime di non-proliferazione. Il futuro dirà se il JS2 avrà rin- saldato questa fiducia o avrà contribuito «ad eviscerare il TNP e a mettere in moto una pericolosa reazione nucleare a catena, dall’Asia orientale al Medio Oriente».8

Come da programma, il C-6 è tornato a riunirsi il 19 marzo per valutare i progressi compiuti e discutere il lavoro futuro, ma la Corea del Nord ha rifiutato di parteciparvi se prima non viene risolta la questione dei suoi 24 milioni di dollari congelati nel Banco Delta Asia di Macao, accusato da Washington di riciclaggio di denaro per conto di Pyoˇngyang.9 Nessuna data è stata fissata per la prossima riunione del C-6. Inoltre, è anche passato il 14 aprile – scadenza dei sessanta giorni stabiliti dal JS2 – senza che Pyoˇngyang abbia iniziato la chiusura del reattore e degli impianti nucleari di Yongbyon o abbia resi noti tutti i suoi programmi nucleari. Di conseguenza, non ha ricevuto le cinquantamila tonnellate di carburante promesso e Tokyo ha esteso per altri sei mesi le sanzioni imposte l’ottobre scorso. Pyoˇngyang continua intanto a insistere che è pronta a passare all’attuazione del JS2 non appena la questione dei fondi congelati sarà risolta.

Nonostante ciò, il ritorno al cointainment e alla deterrenza appare poco realistico, in quanto porterebbe alla fine del regime di non-proliferazione, potrebbe indurre la Corea del Nord a vendere materiali e tecnologie nucleari ad altri Stati o gruppi terroristici e, infine, a usare degli ordigni nucleari in un futuro conflitto. Non resta, quindi, che puntare tutto sul processo delineato dal JS2. Il suo successo potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova era per l’Asia nordorientale dove resistono le strutture della guerra fredda.

Il contesto regionale Per i paesi dell’Asia nordorientale la guerra e l’eventuale collasso del regime di Pyoˇngyang rappresentano un notevole rischio politico ed economico, ma allo stesso tempo essi non sono disposti ad accettare una Corea del Nord dotata di un armamento nucleare. Questo comune atteggiamento sembra aver convinto Washington ad abbandonare il pericoloso e fallimentare tentativo di affrontare e isolare Pyoˇngyang e a perseguire, invece, un accordo negoziato tenendo conto delle preferenze delle altre potenze regionali e mettendo da parte l’idea di favorire un rapido cambio di regime, cambio che può solo maturare dall’evolvere della situazione interna del paese.

La Corea del Sud è soprattutto interessata alla propria crescita economica e all’eventuale riunificazione che, però, vorrebbe realizzare attraverso un lento miglioramento dei rapporti economici, sociali e politici con la Corea del Nord, senza forzare i tempi ed evitando uno scontro armato che, a parte il disastro in termini di vite umane, probabilmente segnerebbe anche la fine del miracolo economico sudcoreano. Inoltre, la sunshine policy implicitamente riconosce che l’evoluzione verso l’economia di mercato della Corea del Nord non può avvenire sotto un sistema democratico e che, quindi, la presenza del regime autoritario va tollerata per un periodo molto più lungo di quanto Washington desideri.

In Giappone, la seria minaccia che i programmi missilistici e nucleari nordcoreani rappresentano per la sicurezza ha rafforzato la posizione di coloro i quali chiedono l’abbandono del pacifismo imposto dall’articolo 9 della Costituzione, una più incisiva presenza militare (dotata di armamenti nucleari) nella regione, una strategia che includa l’intervento preventivo nel caso di un imminente attacco missilistico da parte di Pyoˇngyang, e una maggiore autonomia dagli Stati Uniti. Per il Giappone, però, anche una penisola coreana riunificata rappresenterebbe un serio problema, perché costituirebbe un temibile concorrente economico e un potenziale alleato della Cina, che da sempre considera la penisola coreana entro la propria naturale sfera d’influenza. Per la Russia, la Corea del Nord rappresenta l’antico alleato che non può essere abbandonato, ma anche il mezzo per rientrare nel gioco asiatico dopo la caduta dell’impero sovietico. Allo stesso tempo, avendo bisogno di tecnologie e investimenti stranieri per sviluppare le vaste risorse naturali siberiane, Mosca teme una penisola stravolta dalla guerra.

Il problema nordcoreano riguarda molto direttamente la sicurezza della Cina, la cui primaria preoccupazione è quella di evitare una possibile azione americana che miri al cambio di regime. L’implosione della Corea del Nord avrebbe notevoli conseguenze per questo paese. Essa provocherebbe, infatti, un massiccio afflusso di rifugiati coreani verso la Cina, implicherebbe la perdita di un utile alleato, porterebbe le truppe americane direttamente a ridosso delle frontiere orientali cinesi e stimolerebbe la rinascita del militarismo giapponese, il riarmo del paese e la conseguente accettazione del Theater Missile Defense americano. Quest’ultimo vanificherebbe tutti gli sforzi fatti dalla Cina per dotarsi di un deterrente da opporre alle eventuali pretese americane. Una soluzione della crisi nordcoreana ottenuta attraverso una cooperazione multilaterale sotto la guida cinese potrebbe invece portare ad una maggiore collaborazione tra Cina e Giappone e quindi a una riduzione del ruolo degli Stati Uniti nella regione.

Conclusioni La questione nordcoreana è principalmente legata all’obiettivo di Pyoˇngyang di evitare un cambio di regime. La Corea del Nord è stata «sempre pronta a congelare il proprio programma nucleare, per arrivare passo dopo passo alla denuclearizzazione, ma solo come parte di un processo volto alla sicurezza e alla normalizzazione».10 La minaccia nucleare ha costretto gli Stati Uniti ad abbandonare l’idea di un attacco unilaterale agli impianti nucleari nordcoreani e ad accettare sia il negoziato a sei che quello bilaterale voluto dalla Corea del Nord. A questo cambiamento di approccio da parte di Washington hanno contribuito sia le crescenti difficoltà interne (in particolare, il calo di consensi rivelato dalle ultime elezioni) che quelle internazionali (il disastro iracheno, la preoccupante situazione afgana e la questione iraniana). Ad ogni modo, l’obiettivo di Washington resta la creazione di un ordine regionale che, insieme alla soluzione della questione nordcoreana, favorisca gli interessi americani e permetta di rinsaldare i legami con Tokyo e Seoul.

Le pressioni che la Cina ha esercitato sulla Corea del Nord dimostrano quanto Pechino sia cosciente della gravità della situazione e come consideri la stabilità regionale una priorità rispetto al principio di non-interferenza che ha sempre strenuamente difeso. In questo modo la Cina ha dimostrato di essere un partner responsabile e indispensabile per trattare i problemi regionali asiatici, e di essere interessata a trasformare il processo messo in moto dal JS2 in un meccanismo permanente per mantenere la sicurezza nella regione. Per assicurare la non-proliferazione nella penisola coreana, Paul B. Stares suggerisce che le Nazioni Unite prendano l’iniziativa per concludere ufficialmente la guerra coreana con un trattato di pace con il quale i maggiori firmatari, cioè le due Coree, la Cina e gli Stati Uniti, s’impegnino a stabilire normali relazioni diplomatiche, riconoscano l’integrità territoriale delle due Coree e promettano di tener fuori della penisola tutte le armi nucleari. Come già fatto per l’Ucraina, il Consiglio di sicurezza potrebbe garantire la sicurezza di entrambe le Coree fino a quando ciascuna di esse abbia soddisfatto l’impegno di non-proliferazione.11 Questo richiede, però, che gli Stati Uniti siano anche disposti a invertire l’ordine con cui procedere. In altre parole, il trattato di pace con debite garanzie di sicurezza, comprese le misure di confidence building, dovrebbe precedere lo smantellamento delle armi nucleari e degli impianti per la loro produzione. Un simile approccio potrebbe tornar utile anche con altri paesi come l’Iran.

Indubbiamente il negoziato in varie fasi, con l’attiva partecipazione delle potenze regionali, rappresenta la migliore, se non l’unica, strategia per una risoluzione pacifica della questione nordcoreana. Molto tempo è stato però perso e sul processo messo in moto pesano diffidenze e sospetti accumulatisi tra i vari attori. Per questa ragione è impossibile fare qualunque previsione.

[1] C. Jean, Geopolitica del XXI secolo, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 155.

[2] Nell’autunno 2002 la stampa americana rivelò che il Pakistan forniva segretamente alla Corea del Nord alcune delle apparecchiature (probabilmente delle centrifughe) necessarie per l’arricchimento dell’uranio, in cambio di aiuto per i propri programmi balistici. Center for Nonproliferation Studies, Special Report on North Korean Ballistic Missile Capabilities, Monterey Institute of International Studies, Washington, 22 marzo 2006.

[3] Washington considera la sunshine policy una ricerca d’indipendenza da parte della Corea del Sud e un tentativo di escludere la partecipazione americana.

[4] C. L. Pritchard, Failed Diplomacy. The Tragic Story of How North Korea Got the Bomb, Brookings Institution Press, Washington 2007, p. 2.

[5] Le truppe americane sono diventate ostaggio di Pyoˇngyang, in quanto un attacco americano alla Corea del Nord significherebbe il loro sacrificio. Per ridurre questo rischio ne è stato annunciato lo spostamento nel sud del paese.

[6] Il rifiuto giapponese di contribuire a quest’aiuto fino a quando il governo di Pyoˇngyang non si mostri disposto a chiarire la questione dei cittadini giapponesi rapiti negli anni Settanta e Ottanta, rivela il moltiplicarsi delle frizioni tra Washington e Tokyo. A queste tensioni si aggiungono quelle che il negoziato ha generato tra gli Stati Uniti e la Corea del Sud che, subito dopo la firma del JS2, ha invitato Pyoˇngyang a riprendere i colloqui bilaterali a livello ministeriale. Invece di partecipare al finanziamento degli aiuti, la Russia ha annunciato di voler cancellare la maggior parte del debito dovuto da Pyoˇngyang, circa 8 miliardi di dollari, per cui il costo degli aiuti sarà suddiviso tra Stati Uniti, Cina e Corea del Sud.

[7] Il Comprehensive Nuclear Test Ban Treaty, firmato già da altri centoventitre paesi, per entrare in vigore ha bisogno dell'adesione dei quarantaquattro Stati che posseggono armi e reattori nucleari. Undici di questi ultimi non l'hanno ratificato, tra questi gli Stati Uniti, la Corea del Nord e l'Iran.

[8] The North Korean Nuclear Deal, in «The Economist», 17 febbraio 2007.

[9] L'Illicit Activities Initiative e la minaccia di sanzioni a chiunque tratti affari con imprese nordcoreane hanno avuto un effetto paralizzante sul commercio e sulle transazioni economiche internazionali del paese. Visto il successo, pare che Washington voglia estendere l'Initiative all'Iran.

[10] G. McCormack, A Denuclearization Deal in Beijing, in «Japan Focus», 14 febbraio 2007.

[11] P. B. Stares, To Ban the Bomb, Sign the Peace, in «International Herald Tribune», 30 gennaio 2007.